all’ amico Toni Valeruz
L’AQUILA – E’ un sabato, un giorno diverso dagli altri poiché di riposo. Ed è per questo che, lentamente, mi avvio verso l’università dopo avere consumato il solito caffè nel locale da me preferito. Come ogni fine settimana nella quiete del grande istituto di fisica avrò modo di guardare, con attenzione, prima d’iniziare i miei studi, l’ambiente circostante dopo il risveglio dovuto alla primavera.
Da qualche giorno soffia un gradevole vento tra i monti dell’Appennino centrale. Un vento che sa dell’estate: attorno a me noto un paesaggio assai riposante. I dorsali delle montagne precedentemente coperti dal ghiaccio dell’inverno, si sono trasformati in immense distese di verde.
Su in alto, tra le vette emergenti, ancora gli ultimi nevai che giornalmente si assottigliano sotto i raggi del sole della calda stagione. Toni mi ha chiamato dal Trentino confermandomi la sua nuova decisione: vuole tornare in Abruzzo per volare, questa volta, con il parapendio dalla vetta orientale del Gran Sasso fino in basso tra i prati dell’abitato di Isola. E’ la prima volta che un uomo si avventurava volando da quella parete verticale sulla quale, nel precedente mese di aprile, era sceso facendo sci estremo.
Di questo suo nuovo programma ne avevamo parlato qualche tempo prima ad Alba di Canazei. Due mesi dopo la sua impresa, su quel muro di rocce e di ghiaccio, io mi recai in Austria nella valle dello Stubai; tra le montagne di Innsbruck. Tra quelle montagne che, assieme alle Dolomiti, sono state sempre di forte richiamo per tanti alpinisti. Nel tornare decisi di fermarmi, per qualche giorno, in val di Fassa per salutare il mio amico. In una di quelle sere, uscendo insieme a lui, a tarda ora, da una vecchia locanda del paese, mentre camminavamo lungo la strada che porta alla sua abitazione, fummo sorpresi da una insolita immagine del Gran Vernel. La sua montagna: quella dei molti ricordi dovuti alle sue tante discese, in sci estremo, sulla parete nord.
Si presentava in assenza di nuvole e nebbie: cosparsa di luce lunare, sovrastata da un cielo stellato tale da lasciare il fiato sospeso. Più volte ci fermammo osservando e fissando nella mente l’immagine che ci regalava. Solitari, nel silenzio della notte, continuammo a camminare lungo la vecchia valle. Forse per ispirazione dovuta al particolare momento mi disse: “Angelo, presto tornerò in Abruzzo, per salire di nuovo sul Gran Sasso e volare dall’alto con il parapendio”. Nella tarda mattinata del giorno successivo ripartii per tornare a casa. Rimanemmo d’accordo che a breve lo avrei aspettato in attesa di una migliore stabilità del tempo. Ed infatti, la settimana dopo il mio ritorno, all’improvviso, in un pomeriggio, lo vidi arrivare. Nelle ore successive parlammo di come organizzarci per la salita e di cosa portare negli zaini fino al rifugio Franchetti dove avremmo dovuto pernottare.
L’indomani, subito dopo aver consumato un pasto leggero, ci avviammo arrivando, prima della fine del giorno, alla piccola dimora. La notte pur volendo dormire non ci riuscimmo. L’insonnia fu di enorme fastidio a tal punto che alle due del mattino ci alzammo e decidemmo di salire sulla vetta per assistere al sorgere dell’alba, in lontananza, sulla superficie deserta e sconfinata del mare Adriatico. Non appena la palla di fuoco emerse dagli abissi, arrossando con le prime luci le vette appenniniche, lo sentii mormorare qualcosa. Girandosi verso di me aggiunse: “Se il mio legame con questa montagna è assai forte è solo dovuto ad un’unica ragione: quella che essa, dopo la salita, sa ricompensarti con qualcosa di nuovo e molto sorprendente”. Il suo sguardo, in quel momento, si perdeva tra gli spazi dei riflessi luminosi sulle acque di quel mare; verso quell’alba così tanto diversa dalle altre osservate in altri luoghi.
Mi rendevo conto che anche lui come me, poggiato su quelle umide rocce, cercava di dare una risposta ai tanti perché che, in quel mentre, affollavano la mente. Eravamo al cospetto di quel cielo infiammato: quel cielo che dava il presagio dell’avvicinarsi di una giornata serena. A quell’ora, nel freddo del primo mattino, immobili davanti a quell’evento, cosi tanto ammaliante, sembravamo due statue di pietra. Eravamo a contatto con il vuoto in quelle ultime ore della notte; mentre le tenebre, pian piano, lasciavano il posto alle tante luci sempre più intense. Come già detto in altri racconti, solo vivendo in questo modo la montagna, con i suoi tanti segreti, un uomo può capirla. Può essergli vicino come amico ed ascoltare la sua voce.
La voce di quel vento che sa di lontano e che, insistentemente, continua a soffiare tra le rocce ghiacciate come se volesse salutarti. Quel vento che, mentre tu sei a dormire in uno sperduto rifugio d’alta quota, sfiora le superfici fredde dei ghiacciai dandoti la sensazione che trasformi il suo mormorio in una ninna nanna alpina, venuta a conciliare il tuo sonno tra i tanti pensieri per l’atteso domani. Dormendo vestito in un letto a castello, di misere coperte, sei consapevole di avere come unico riferimento il tuo compagno di cordata. La sola persona con la quale puoi confidarti e condividere la stanchezza, il rischio, ma anche l’orgoglio di conquistare il traguardo; la vetta stabilita.
Non appena la montagna cominciò ad evidenziarsi nella sua completezza dall’oscurità, tornammo al rifugio. Facemmo una breve colazione: prendemmo ciò che avevamo lasciato per tornare di nuovo sulla cima aspettando l’ora propensa per il suo volo. Nell’attesa, lo vidi legare alla sua imbracatura le varie corde del parapendio. Cercò, più volte, di orientarlo nella giusta direzione per alzarsi senza mai riuscirci. Forse a causa della temperatura ancora bassa, c’era l’assenza delle correnti ascensionali dovute all’aria calda dirette verso l’alto. Quelle spinte che si sarebbero dovute formare dal calore dei primi raggi del sole e che avrebbero dovuto sollevarlo, come una piuma, ed allontanarlo dalle rocce.
Anche questa volta, come quella precedente, gli sono vicino. Quel volo, in confronto ai tantissimi fatti sulle Alpi, si presentava con maggiore difficoltà dovuta alla vicinanza del mare dal quale potevano arrivare folate improvvise di venti assai pericolosi. Di questo inconveniente lui si era già reso conto. Pertanto mi diceva che il primo movimento che avrebbe voluto fare appena il distacco dalla parete, era quello di allontanarsi, in fretta, per non essere spinto, con forza, su di essa da quei soffi inaspettati con conseguenze disastrose. Conoscendolo bene sapevo pure che per affrontare simili prove, oltre alla sua esperienza, si preparava nella giusta maniera per non essere sopraffatto dall’idea del pericolo.
Prima di sollevarsi in volo mi disse: “Se ci riuscirò è mia intenzione atterrare sul piazzale del santuario di S. Gabriele dove ti aspetterò non appena sarai tornato giù nella valle”. Ad un tratto, a seguito di un breve rumore, determinato dal gonfiarsi di quella calotta di tela speciale, lo vidi alzarsi nel vuoto. Si allontanava sempre di più nello spazio fino a diventare un punto. Con lo sguardo lo seguii ancora per poco: poi decisi di riordinare lo zaino per scendere nel paese dove avevamo lasciato la macchina la sera precedente.
Nell’abbassarmi dalla vetta ogni tanto mi fermavo facendo piccole soste. Nei brevi riposi lo sguardo spaziava tra gli angoli della parete che, essendo velati di umidità, riflettevano i raggi del sole assomigliando a sorgenti di luci. Laggiù, a poca distanza, osservavo il tracciato del fiume, formato delle acque del ghiacciaio e dei nevai, dipanarsi come un filo tra le campagne teramane. Conclusa la lunga e scoscesa discesa, presi la sua macchina per raggiungerlo nel luogo dove mi stava aspettando. Nell’incontro, mi parlò di come era andata quest’ultima sua esperienza.
Camminando, lentamente, ci avvicinammo al convento dei frati Passionisti per pranzare con loro passando tra le varie persone venute per assistere al volo. Uscimmo nel tardo pomeriggio per tornare verso casa. Lungo la strada ci fermammo ad osservare, anche questa volta, la vecchia montagna. Seppure in veste diversa dall’incontro precedente, si presentava con il suo profilo come fosse poggiata su un podio di verde. Tramandava, come sempre, la voglia di evasione per tornare lassù. Dopo averla osservata attentamente, con lo sguardo proiettato verso l’alto, Toni tornò a dirmi:“ Con questa montagna resterà per sempre un forte legame: da essa ho avuto tutto”. “Ho avuto quel che volevo nel massimo rispetto delle sue regole”. “Adesso torno in Trentino tra le mie Dolomiti dove anche tu hai segnato, seppure in modo diverso dalla mia, la tua storia d’alpinismo e dove ti aspetterò come sempre”.
In quell’attimo leggevo nel suo volto il pensiero di un uomo intento a meditare sul suo lungo passato; anche su quello trascorso sulla vetta appenninica. Forse cercava con la mente di tornare indietro negli anni; quando, ancora ragazzo, usciva di casa per raggiungere la sua baita sui prati del Ciampac. Per avvicinarsi ed aggrapparsi sulle pareti annerite del Colac e poi su quelle verticali del Sella; là verso il mitico passo Pordoi. Ed è proprio in quei luoghi della sua fanciullezza che nacque e si rafforzò in lui il desiderio, la voglia di sottrarsi ad un mondo fin troppo rumoroso per rifugiarsi tra i silenzi delle vette. Tra quelle radure dove ogni piccolo processo di vita interagisce, nella maniera più completa e indisturbata, con il suo piccolo ambiente di appartenenza.
Nel passare degli anni della nostra amicizia ho saputo capire pienamente il suo carattere ed anche il suo destino. Quel destino diverso dal comune e che spesso ha voluto portarlo lontano per sottoporlo a confronti e a prove assai impegnative. Quelle prove che lasciavano intendere la stretta vicinanza a quel limite che indicava, e che indica sempre, la netta separazione tra il volere dell’uomo e il potere dominante della madre natura. Toni non ha voluto mai sfidare l’impossibile come si potrebbe immaginare. Ciò che ha voluto fare, da grande campione, lo ha fatto con la giusta competenza e consapevolezza dell’impegno e del rischio a cui era sottoposto. Quel rischio che, anche in momenti di cambiamenti improvvisi del tempo, come avverso compagno, lo seguiva mentre tornava verso le sue montagne.
Forse guardando il Gran Sasso, immerso nelle ultime luci sbiadite del tramonto, percepiva la speranza, la forza d’energia per continuare il suo cammino. Forse avvertiva di nuovo il suo richiamo: il desiderio di tornargli vicino. Due giorni dopo, non appena aver fatto visita nella val Raio a mia madre e a mio fratello Ezio, ci salutammo promettendoci di rivederci, al più presto, in val di Fassa. L’indomani rimaneva in me la convinzione che, pur avendo appagato il suo ultimo volere, avrebbe continuato a cercare altri incontri; altre storie da vivere tra le montagne vicine o lontane. Quelle storie uniche a dargli la forza costante e continua per proseguire il cammino della vita: quella forza indispensabile per pensare ed affrontare le tante incertezze dei sorprendenti domani.
Angelo Fusari