Una brutta storia di efferati omicidi
Studi storici
A cura dell’Ufficio Stori o della Polizia di Stato Commissario Giulio Quintavalli, Ispettore Fabio Ruffini, Assistente capo coordinatore Luca Magrone, e del Socio ANPS Massimo Gay.
Inserto alla rivista trimestrale delle Fiamme d’Oro
Anno LI n.1Gennaio -Aprile 2024.
L’assassinio del prefetto di Ravenna, Generale CARLO PIETRO ESCOFFIER
Carlo Pietro Escoffier, nato a Nizza il 29 giugno 1825, già pluridecorato (era stato ferito nella battaglia di S. Martino e questo gli valse una Medaglia d’argento al Valor Militare), giunge a Ravenna nel settembre del 1868 da Forli, dove comandava una Brigata con il grado di Maggiore Generale. Tre mesi prima era avvenuto l’assassinio del Procuratore del Re Cesare Cappa, e anche a seguito di questo efferato delitto fu presa, da Giovanni Lanza, la decisione di inviare un Prefetto che riunisse a sé poteri civili e militari onde poter fronteggiare meglio la recrudescenza degli episodi delittuosi.
Il Generale attira su di sé le antipatie dei repubblicani ravennati e di quelli romagnoli, in quanto emana vari provvedimenti molto restrittivi tra i quali spicca, perla sua singolarità, la chiusura anticipata dei locali pubblici. Concorre, inoltre, alla cattura del brigante “Gaggino”, così chiamato perché “gagio”, rosso di capelli. Noto alle forze dell’ordine perla sua scaltrezza nel fuggire e nascondersi nei campi, tra le coltivazioni, oltre che perla sua crudeltà, aveva ucciso per pochi spiccioli un sacerdote. A seguito di una delazione, per intascare la taglia posta sulla sua testa, viene ucciso in un conflitto a fuoco con i Carabinieri a Filetto, nell’ottobre 1868.
Altri provvedimenti intrapresi sono: lo scioglimento, a Faenza, della Società del Progresso, della quale faceva parte anche Aurelio Saffi, colpevole di “aggregare uomini irrequieti e turbolenti facinorosi e rei”, e lo scioglimento della Guardia Nazionale (organo posto a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, militarmente organizzato, composto da volontari), probabilmente ritenuta corrotta o non idonea a fronteggiare tale frangente.
Altri metodi ritenuti “tirannici” sono, da questi, intrapresi per ristabilire l’ordine nel circondario di Faenza dove, a detta della pubblica opinione, la situazione era, rispetto a Ravenna, di gran lunga peggiore. A riprova, basti citare ad esempio le cronache cittadine dal 10 al 14 dicembre 1869, che registrano tre feriti e un morto.
La stampa di parte progressista e repubblicana attacca, dalle pagine dei propri giornali, i metodi dispiegati dal Prefetto. Anche Giovanni Lanza, che un tempo aveva proposto Escoffier, di fatto poi lo sconfessava in alcuni dibattiti parlamentari. Solo la stampa locale di parte moderata ne enfatizza le gesta e i risultati citando addirittura episodi precedenti: di come si fosse prodigato per impedire alla Polizia di sparare contro la folla a Forlì, durante un tumulto, oppure di come dispose la scarcerazione di 13 delle 16 persone che il Questore aveva fatto imprigionare in occasione dell’omicidio di una Guardia di P.S., tale Ninfalone da Vicenza, fatto avvenuto il 7 novembre 1869 a Ravenna presso Porta Sisi, durante una zuffa tra alcuni giovani e guardie di P.S.
Unico neo, del quale molto si rammarica, tacciando di incapacità il Questore, è stato l’episodio del furto di 44 franchi perpetrato nei suoi confronti da Angelo Forti, un soldato posto al suo servizio, il quale dopo l’episodio si rifugia a Roma. In realtà non viene reso di dominio pubblico il fatto che il soldato, oltre al denaro, aveva fatto sparire alcune carte (sicuramente molto importanti) dall’ufficio di Escoffier; quasi certamente egli era una spia al soldo del governo clericale. Vane sono state, infatti, le richieste di estradizione avanzate verso il governo papalino.
A seguito dell’episodio, si sono registrati numerosi trasferimenti di poliziotti da Ravenna verso altre sedi, voluti e ottenuti dal Prefetto, il quale presupponeva, forse supportato da prove, connivenze della P.S. con i contrabbandieri locali, già avvenute in passato con le ex gendarmerie pontificie.
In un simile contesto matura il suo omicidio, che tanto scalpore suscita tra la popolazione e ancor più nelle istituzioni.
Il delitto avviene il 19 marzo 1870 nell’ufficio del Generale, a commetterlo è il Questore di Ravenna Pio Cattaneo, reo confesso.
L’Ispettore di P.S., nativo di Novi Ligure, già avvocato, si era distinto in precedenza per la lotta senza quartiere che aveva ingaggiato nelle province di Avellino e Caserta, contro i briganti locali, addirittura presso quest’ultima cittadina si era visto insignire della qualifica di “cittadino onorario “. Risulta anche decorato nel 1869, quando era Questore a Messina, di Medaglia di bronzo al Valor Civile.
Durante il processo, l’ex poliziotto afferma di aver perso la testa dinanzi alla decisione di Escoffier di trasferirlo a Grosseto e sostituirlo con il Delegato Cesare Campadelli, suo stretto collaboratore. Questo era stato l’ultimo di una serie di atti ostili che avevano visto fronteggiare i due: già in altre circostanze erano avvenuti dissapori, come quella volta in cui il Generale fece scarcerare una parte degli arrestati a seguito dei fatti, già citati, del novembre 1869 avvenuti a Porta Sisi.
Durante la discussione precedente al delitto, il funzionario, al quale la propria reputazione e la carriera dovevano essere immensamente care, implora il superiore di bloccare per qualche tempo il provvedimento, al fine di non farlo tacciare di infamia dai suoi dipendenti e dai cittadini. Escoffier ribatte minacciando di farlo arrestare dai Carabinieri e Cattaneo, giunto al culmine della momentanea pazzia, estratte due pistole, fece fuoco due volte contro il Generale, uccidendolo. Nella concitazione conseguente gli spari, cerca di far credere a un incidente avvenuto mentre mostrava le armi al Prefetto ma, poco dopo, messo alle strette confessò e fu arrestato.
Circa trenta giorni dopo viene celebrato il processo, che si conclude, il 29 aprile alle 23,55, con la lettura della sentenza di condanna dell’imputato a vent’anni di lavori forzati e pene accessorie di legge. Dai resoconti del dibattimento si è poi scoperto che Cattaneo non presenziò in aula e che il verbale del suo interrogatorio è stato, stranamente, dettato in carcere subito dopo l’arresto.
CONCLUSIONI
Troviamo briganti già dalla fine del Settecento, motivati prevalentemente dalla povertà endemica, i quali spadroneggiavano nei territori dove era meno presente il controllo da parte delle Istituzioni. Spesso godevano delle protezioni di coloro i quali ne subivano le vessazioni, per paura di rappresaglie. Questo ha consentito, per parecchio tempo, l’inefficacia degli strumenti messi in campo al fine di estirpare il fenomeno: quali Esercito, Forze di polizia e leggi speciali. La loro latitanza s’interrompeva spesso in modo tragico, molto spesso catturati armi alla mano venivano giustiziati sul posto, come sancivano le leggi dell’epoca. Hanno lasciato in eredità, alle popolazioni, i miti e le leggende legati al territorio.
A differenza dei briganti, gli appartenenti alle sette provenivano quasi totalmente dagli ambienti repubblicani o mazziniani. Molto spesso soci o quadri dirigenziali delle società di mutuo soccorso, sorte a tutela dei diritti degli operai e dei contadini. Perseguitati dal Governo, ossessionato dal repubblicanesimo, che vedeva in loro dei sobillatori, alteratori della pace sociale, essi volevano sovvertire il Regno in Repubblica. Resisi conto dell’impossibilità e vistisi braccati dalla repressione governativa, spesso passarono coi briganti, e dove non uccisi in scontri a fuoco, qualora arrestati, come nel caso dei presunti associati alla setta degli accoltellatori, furono processati frettolosamente e, descritti ai cittadini come sanguinari assassini, condannati sulla scorta di prove non sempre certe. Quale enorme cifra sia stata spesa per sostenere l’apparato statale, preposto al contrasto di questi fenomeni, non lo sapremo mai. Certo, quei quattrini si sarebbero potuti spendere meglio. Strano Paese questo Regno d’Italia; monarchia costituzionale che ottenne l’Unità per mezzo dei garibaldini, gran parte dei quali erano giovani repubblicani o mazziniani. Molti di loro, laddove non morirono in battaglia prima, morirono dopo condannati a morte dallo stesso Stato che contribuirono a creare.
Per finire, voglio mutuare un giudizio di Pasquale Villari, storico e letterato napoletano, deputato (1870) e poi senatore (1884), infine Ministro della Pubblica Istruzione (1891): “Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In queste come in molte altre cose l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici …”
Come dargli torto?