Briganti e accoltellatori in Romagna – 2^ parte

15 Giugno 2024
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Una brutta storia di efferati omicidi

Studi storici

A cura dell’Ufficio Stori o della Polizia di Stato Commissario Giulio Quintavalli, Ispettore Fabio Ruffini, Assistente capo coordinatore Luca Magrone, e del Socio ANPS Massimo Gay.

Inserto alla rivista trimestrale delle Fiamme d’Oro 

Anno LI n.1Gennaio -Aprile 2024.

GLI ACCOLTELLATORI E L’ASSASSINIO DEL PROCURATORE CESARE CAPPA

L’avvocato Cesare Cappa (cugino del Maggiore di P.S. Domenico Cappa, noto per aver scritto nel 1892 un libro autobiografico che narra anche del suo servizio svolto in varie città d’Italia), era Procuratore del Re presso il Tribunale di Ravenna. Egli fu mortalmente ferito da una pugnalata alle spalle, inferta da sconosciuti, la sera del 1giugno 1868, mentre percorreva via Mariani, verso le 21,30 di retto a casa. Sembra che gli autori del tragico misfatto siano stati gli accoliti della setta degli accoltellatori di Ravenna, per vendicare i compagni “che marcivano in prigione per colpa sua”.

Considerato, dopo la morte, dal quotidiano Il Ravennate, “Un martire del proprio dovere”, pochi giorni prima di morire così scriveva a un suo amico: … m’e venuto ripetutamente il pensiero di rinunciare a questo posto difficile, arduo e pericoloso e vivere quietamente nel mio paese… ma abbandonare un posto in queste circostanze e in un momento in cui c’è tanto bisogno di magistrati onesti, vigorosi e indipendenti da ogni camorra, mi parrebbe assai brutta cosa e tale da mettersi a paro della diserzione in tempo di guerra. Resto dunque perché il dovere mi impone di restare e la coscienza di giovare al mio paese mi è adeguato compenso alle fatiche e ai disgusti che provo”.

Domenico Cappa, Maggiore delle Guardie di P.S., cugino del procuratore del Re, Cesare Cappa

Anche dopo l’assassinio di Cappa, preannunciato da minacce anonime, vennero effettuati come già in circostanze analoghe, ma con impegno maggiore data l’eclatanza dell’omicidio dell’illustre tutore dell’ordine, arresti massicci forse operati senza indizi certi, in una città sottoposta, di fatto, a regime militare in seguito all’acquartieramento in quei luoghi del 40° Battaglione Bersaglieri, normalmente di stanza a Bologna.

Precedentemente al suo omicidio, in una relazione al Governo, Cappa si esprimeva così circa la situazione delle sette nella provincia romagnola: “In questa città e campagna non una, ma più sono le società, parecchie delle quali, costituite con apparenza di mutuo soccorso, di sociale convegno e di lecito scopo politico, altro non sono che tante specie di sette segrete contro la sociale sicurezza. Lo scrivente discorrerà delle più note fra le medesime e con la citazione dei fatti dimostrerà che, sebbene in apparenza dirette a buon fine, o almeno innocue, mirano allo scopo ricordato di somministrare il mezzo ad alcuni di primeggiare, ad altri di impunemente delinquere e a molti di premunirsi contro i soprusi dei malvagi, associandosi loro o facendoseli amici […l. Come nelle città così anche nelle campagne lo scopo è quello di osteggiare le autorità e la forza pubblica, e più ancora di aiutarsi a vicenda i soci nei loro pravi disegni, con quella solidarietà che ha scritto sulla bandiera: uno per tutti, tutti per uno”. E ancora: “… in questi paesi le persone del popolo sono quasi tutte armate, e sembrerebbe un disonore per un giovinetto non portare lo stile o la pistola; tanta è la passione delle armi che chi non ha denaro superfluo per comprarle, si priva del necessario per mettere assieme all’uopo poche lire. Di qui i frequenti omicidi e ferimenti che altrove finirebbero in semplici alterchi e vie di fatto”. Una volta ammoniti lo si era per tutta la vita in quanto difficilmente si poteva uscire dal circolo vizioso in cui si era stati catapultati e che tale istituto era lasciato esclusivamente all’arbitrio dei Carabinieri e dei poliziotti che lo utilizzavano, spesso in modo discutibile, ma soprattutto dei magistrati poco accorti che lo applicavano “de plano”, senza controllo né ingerenze.

RAVENNA, FAENZA E IL CIRCONDARIO

Faenza un’antica cartolina Postale animata

Già ai tempi degli Austriaci, bande di accoltellatori sfidavano i rigori della giustizia. Nella statistica dei reati dal 1849 al 1870, nel circondario di Faenza, vi furono 559 omicidi dei quali 305 senza colpevoli; nel 1867, 16; nel 1868, 15; nel 1869, 18; nel 1870, 10. Cronache giornalistiche di quei tempi narrano di numerosi delitti, di furti, rapine, di taglieggiamenti e di rapimenti perpetrati   oltre che a Ravenna anche nel suo circondario, in particolare a Faenza.

Nel 1865, il brigante “Maccione” rapinava i passanti sulla strada tra Ravenna e Godo, altri due banditi, il “Baldrati” e il “Ripa”, compivano le loro gesta nella zona di Lugo e in quella di Ravenna.

Nella medesima zona, a settembre dello stesso anno, ci furono due omicidi commessi da ignoti. A Faenza, nel mese di novembre fu ucciso un sottobrigadiere, altri ferimenti a Lugo e Solarolo. Nel gennaio 1866, a Ravenna, di nuovo un omicidio e in febbraio l’uccisione di una Guardia di P.S. Successivamente, da marzo a novembre un omicidio e altri ferimenti.

Alcuni dati statistici renderanno meglio, e in sintesi, la gravità del fenomeno omicidiario e dei delitti in genere:

• nel 1868, durante un dibattito parlamentare sui fatti avvenuti nelle Romagne, il Ministro dell’Interno, Cadorna, affermò che tra il 1settembre 1867 e il 31 maggio 1868 si erano registrati, nella sola provincia di Ravenna, 1.119 reati, tra i quali 64 omicidi e 237 grassazioni;

• nel 1871, la statistica dei reati, redatta dal medesimo Ministero, dichiarava che su una popolazione pari a 221.115 unità, si erano verificati 1.584 reati, 159 dei quali omicidi volontari.

Conflitto a fuoco tra Guardie di P.S. e briganti. La Tribuna Illustrata

In seguito all’aumento delle violenze, nel1862, il sindaco di Faenza Achille Laderchisi fece promotore di una rimostranza al Go verno con questo tenore: “… perché voglia adottare più energiche e decisive misure atte a garantire la sicurezza pubblica”. La giunta comunale di quella città, nella seduta del 17 settembre 1862, propose ai Comuni limitrofi Lugo, Bagnacavallo, Brisighella e altri, di fare causa comune “per invocare provvedimenti efficaci ad arrestare i fatti delittuosi che frequentemente ed anche impunemente, si commettono dai malandrini alla campagna ed anche in pieno giorno”.

Nel trasmettere la richiesta egli espose un quadro della situazione sicuramente poco rassicurante, aggiungendo: “……le frequenti aggressioni, il numero crescente di fatti lacrimevoli a danno dei pacifici cittadini e dei viandanti hanno portato lo spavento e il terrore in mezzo alla popolazione di questa provincia, tanto che niuno ormai azzarda di muoversi dalla città, o dai paesi, ed è costretto perfino di privarsi delle ricreazioni e dei piaceri della campagna …..”.

Un episodio, avvenuto a Ravenna nel maggio 1867, rende assai bene il clima intossicato di quel periodo: l’aggressione a due Carabinieri di pattuglia da parte di tredici individui. Era successo che, questi “galantuomini”, erano stati fermati per schiamazzi notturni nel borgo Adriano, e che reagissero accoltellando i malcapitati tutori dell’ordine, apostrofandoli con gli appellativi di “boia, vigliacchi, assassini”. Al processo esposero le loro giustificazioni: “Volevamo cantare e urlare quanto ci piaceva, ché non erano più i tempi del Papa”. E gli sforzi del governo, al fine di arginare il fenomeno, non tardarono ad arrivare; già erano stati inviati capaci funzionari e numerose truppe per controllare il territorio, ma evidentemente non bastarono. Ci fu una recrudescenza del fenomeno delittuoso, basti dire che nel gennaio 1868 furono commessi a Faenza tre omicidi in un solo giorno e, tempo dopo nel territorio di Lugo, otto omicidi in un mese e diciotto grassazioni in un giorno solo. Vari tumulti si erano già verificati, verso la fine del 1868, in varie località romagnole, per protestare sulla tassa del macinato. Qualche tempo dopo, vere e proprie insurrezioni di ispirazione mazziniana videro il rinfocolamento degli odi politici e, in particolare, dell’omicidio politico inquadrando, dal 1870, prevalentemente nel territorio faentino l’attività terroristica delle sette.

La reazione governativa non si fece attendere e fu incessante, anche se in alcuni casi inefficace perché affidata a funzionari e agenti (ma anche i Carabinieri non scherzavano) inetti, inadeguati se non addirittura corrotti. In effetti, nel 1871 le forze di polizia nel distretto di Faenza erano il doppio di quelle mediamente assegnate in altre provincie. Da un articolo riportato sulla Gazzetta Piemontese del 17 maggio 1871, apprendiamo un episodio avvenuto a Ravenna e di quanto la situazione fosse esplosiva: “Racconta Il Ravennate che nel giorno di domenica, avendo luogo in Borgo Adriano una festa religiosa in onore della Madonna del Soccorso, due Guardie di P.S. procedettero all’arresto di un individuo che si trovava tra la folla. Mentre esse si avviavano col loro prigioniero verso la stazione dei Carabinieri, diversi compagni del medesimo lo strapparono alle Guardie, le quali però aiutate da parecchi Carabinieri riuscirono a riprenderlo e condurlo nella Caserma davanti alla quale si era accalcata una gran massa di persone che urlava, fischiava e gettava sassi. In seguito a ciò, due Carabinieri, altri dicono Aggiunti Carabinieri, fattisi a una delle finestre del piano superiore della loro Caserma, spararono diversi colpi sulla folla sottostante, senza pensare che se fra questa vi erano colpevoli, vi era pure una quantità di persone innocenti che solo il caso, o la curiosità aveva chiamato. Fatto sta che una povera giovane, un soldato di 2a categoria che trovasi a Ravenna per la istruzione militare e tre altri borghesi, rimasero feriti dai proiettili esplosi. Questo fatto, aggiunge il giornale, che noi abbiamo narrato a seconda di quanto ci è stato riferito da persone degne di fede, che si trovavano presenti al tafferuglio, ha provocato nell’intera città una giusta indignazione; e perciò giova sperare che le competenti Autorità faranno giustizia, e sapranno punire chi, per ignoranza, o per imprudenza, o per cattiveria, ha abusato delle sue forze”. Ma ancora, nel giugno 1874, il Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Bologna, in una lettera indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia Vigliani, lo informava che ben 13 delitti erano avvenuti in provincia di Ravenna, tra il 23 marzo e il 2 giugno. Il 27 giugno, il medesimo Procuratore informava il Ministro dell’Interno Cantelli del fatto che a Ravenna e a Faenza era stato organizzato un servizio di agenti di Pubblica Sicurezza travestiti da cacciatori. In 14 anni Ravenna ebbe ben 12 Prefetti, di volta in volta rapidamente sostituiti per incapacità, o per corruzione. Ce ne fu addirittura uno, nel 1874, che venne riconosciuto colpevole di brogli elettorali. Uno dei rappresentanti delle Istituzioni che ha saputo distinguersi per capacità ed efficienza fu il Questore di Ravenna Luigi Serafini: a lui si deve I ‘eliminazione della setta degli “accoltellatori”. Avvalendosi di un delatore, uno degli accoliti della setta, Giovanni Resta, riesce con numerosi arresti ad azzerarne i ranghi. Giuntovi nel marzo 1871, vi rimane per quattro anni, in un ambiente politico in cui, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, il contrasto tra le forze moderate e quelle democratiche diviene sempre più manifesto, dissidi politici tra ferventi fazioni si accendono e spesso “ci scappa il morto”. Come quella volta in cui in prossimità di Porta Alberoni, a Ravenna, durante il funerale del simpatizzante socialista Achille Spada, morto giovanissimo, nasce un tumulto tra Polizia e internazionalisti e, durante gli scontri, muore una Guardia di P.S. Oramai erano permeate le idee dell’internazionale Socialista, sorta a Londra nel 1864, a orientamento marxista, evolutesi successivamente in anarchiche (a Bologna, nel 1874 fallì una sollevazione capeggiata dall’anarchico Michail Bakunin), tutte orientate contro un governo che stava trasformandosi in capitalista, creando malessere nelle classi povere e sfruttate.

Giovanni Resta il delatore della setta degli “accoltellatori”.

Nel marzo 1870, avviene l’uccisione del Prefetto Militare della città di Ravenna, il Generale nizzardo Escoffier.

A seguito del deteriorarsi della situazione dell’ordine pubblico nella provincia di Ravenna, e per porre un freno alla delinquenza, che era riuscita, nonostante il precedente invio di militari, poliziotti e Carabinieri, a non essere eliminata o quantomeno limitata, si decide di accentrare le attribuzioni civili, di indirizzo politico e militari nelle mani di un’unica persona capace di gestire questo “grande potere”. Viene inviato dal Governo il Generale Escoffier, il quale si dà molto da fare per cercare di estirpare la piaga del malandrinaggio. Costui si dimostra ligio ai propri doveri e zelante, al punto da applicare le disposizioni penali col massimo rigore, riuscendo ad assicurare alla giustizia numerose persone indiziate di omicidi, grassazioni e altri delitti.

Fine seconda parte

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