Shoah, dal male assoluto di ieri al male di oggi
Angela Casilli
Il 27 gennaio, giorno della memoria, a 79 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz ad opera di soldati sovietici, è una data importante non solo per sottrarre all’oblio l’orrore dello sterminio di 6 milioni di Ebrei, ma anche per mantenere viva la memoria di quanto accaduto contro l’indifferenza che alcuni settori dell’opinione pubblica manifestano ad ogni ricorrenza.
Si tratta del tentativo dei cosiddetti negazionisti di rimuovere il ricordo di un crimine che, per unanime riconoscimento, non aveva precedenti nella storia dell’umanità, anche se l’antichità ha visto stragi di ogni genere e l’epoca del colonialismo e dell’imperialismo fornisce esempi di tentativi di sterminio più o meno riusciti, ma mai un crimine come quello perpetrato contro gli Ebrei nella seconda guerra mondiale, aveva avuto caratteristiche selettive, di razza, di una razza che occorreva cancellare dalla faccia della terra.
La filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt, nel libro intitolato “La banalità del male“, reportage del processo tenuto a Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann per aver commesso in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, sviluppa una preziosa serie di considerazioni morali che si traducono in una tesi per molti versi sconcertante.
Sul criminale nazista, responsabile dello sterminio di milioni di Ebrei, catturato nel 1960 a Buenos Aires dove aveva vissuto indisturbato per anni, così si esprime: “il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, perché implica, come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro avvocati, che si era di fronte a un nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani che commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.
Il messaggio che scaturiva dal caso Eichmann era che, il suo lungo viaggio nella malvagità umana era una vera lezione sulla spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.
Purtroppo è nella natura delle cose che, ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia dell’umanità, possa ripetersi anche quando ormai appartiene a un lontano passato. Nessuna pena è riuscita ad impedire che si commettano crimini, al contrario quale che sia essa, quando un reato è stato commesso una volta, nulla toglie che possa essere reiterato che quindi un giorno ciò che hanno fatto i nazisti si possa ripetere.
La lezione di cui parla la Arendt è importante per riflettere, fatte salve le ovvie differenze fra quello che fu il “male assoluto“ e quelli che sono i mali della nostra società, perché non c’è alcun dubbio che molti di essi derivino dalla mentalità “così fan tutti” giustificata dai cattivi maestri della scena pubblica, in particolare di quella politica.
La nuova “banalità del male“ si manifesta nella perdita diffusa del senso del dovere; nel rimando alle altrui responsabilità per scaricare le proprie: nella disaffezione verso il bene comune a favore di quello proprio o della propria lobby.
Il senso del dovere consiste nella disposizione a compiere il bene perché è bene e a rifuggire il male perché è male. Applicato all’etica del lavoro, vuol dire assolvere i propri compiti a prescindere dal riconoscimento altrui o dalla ricerca di gratificazioni. La perdita del senso del dovere si giustifica per lo più con il rimando alle responsabilità degli altri: sono i capi che danno il cattivo esempio, non sono io il responsabile, sono loro i corrotti che diventano a loro volta i corruttori e questi adducono a propria difesa la logica perversa del “così fan tutti “.
La diffusione di comportamenti corrotti va di pari passo con la disaffezione al bene comune, cresciuta oggi come non mai, malattia insidiosissima della società: ci si preoccupa solo del bene proprio e della propria lobby. La sola logica che prevale è quella del “che me ne viene?“, cioè a ognuno interessa il proprio benessere non quello di tutti gli altri. Purtroppo i cattivi maestri influenzano i giovani con comportamenti e stili di vita immorali e non sorprende che questi rifuggano da qualsiasi impegno sociale e politico, alla continua ricerca di sicurezze e vantaggi che tardano a palesarsi.
A questa mentalità che riduce il “male“ a banalità si può ovviare in un solo modo, ritrovando il senso morale del dovere, il senso della dignità dell’esistenza personale, unica e irripetibile