Editoriale agosto 2021
di Giuseppe Arnò *
“Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare.” Sir Winston Churchill.
È vero. Se vogliamo tentare di migliorare dobbiamo cambiare e per cambiare è necessario abbandonare modi di pensare e comportamenti abitudinari. Le alternative all’abitudine, secondo gli psicologi, vanno affrontate con serenità: rinunciare alle nuove opportunità vuol dire autocondannarsi al conformismo, con il rischio di diventare sempre più infelici. Inoltre, migliorare significa anche predisporre un futuro più soddisfacente per le generazioni che seguiranno; e oggi ci occuperemo del presente, punto di partenza per un futuro migliore. Disserteremo, infatti, su un argomento attuale e spinoso, che suscita prese di posizioni decise, contrastanti e ideologiche: la riforma della Giustizia.
Certo che in questo momento parlare di giustizia è particolarmente complicato in quanto questa antica e fondamentale virtù, trattata sin dall’antichità prima da Platone poi da Aristotele e ancora in seguito da molti altri studiosi e politologi, attualmente sta attraversando una fase di vera crisi istituzionale dicotomica: ovvero di credibilità e di identità. Anche se per Fabrizio De André la giustizia giusta o epichèia è solo quella di Dio e non quella degli uomini, sappiamo che questi hanno pur bisogno di una giustizia terrena, che regoli i loro rapporti sociali secondo la ragione e le leggi vigenti. D’altronde, anche Papa Francesco nella recitazione dell’Angelus ce lo ricorda con queste parole: “L’umanità ha bisogno di giustizia, di pace e di amore”. Un concetto che ci richiama alla dottrina del massimo esponente del normativismo giuridico, il filosofo/giurista Hans Kelsen, secondo cui la giustizia altro non è che la felicità sociale.
Se così stanno le cose, noi, purtroppo, facciamo parte del “club degli infelici” dal momento che la nostra giustizia è immersa in una crisi mai vista prima d’ora e più infelici ancora ci rende l’ambivalente conflitto tra politica e magistratura: da una parte la politica è in conflitto con la magistratura, dall’altra crea il conflitto politico all’interno di quest’ultima. In realtà, è da oltre sei lustri che si cerca di realizzare una riforma della giustizia, ma si è trattato solo di intenzioni che non hanno mai sortito i voluti effetti vuoi per colpa della politica vuoi per la resistenza della magistratura e vuoi, infine, per mille altre ragioni inclusa la paura di affrontare il nuovo. Come conseguenza, l’equilibrio tra i poteri dello Stato nel tempo si è sbilanciato verso il potere giudiziario e ciò a discapito della legittima separazione, del funzionamento e dell’indipendenza degli altri due poteri; il legislativo e l’esecutivo.
Il potere giudiziario, ovvero la magistratura, più che un potere andrebbe concepito come “servizio” pubblico interprete e garante dell’inviolabilità dei diritti dei cittadini e dei valori costituzionali. Questi i suoi compiti, i suoi limiti e i suoi confini invalicabili! Ciò nonostante, una parte della magistratura da molti anni a questa parte ha svolto un ruolo esuberante e prevalente, spesso cercando di “orientare” il potere legislativo. Inoltre, ha creato all’interno della propria istituzione un coacervo di manovre nascoste finché non sono esplosi il caso “Palamara” e lo scandalo delle toghe, che hanno gettato nello sgomento l’opinione pubblica e non solo. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, infatti, parlando davanti al plenum del CSM ha definito un “quadro sconcertante e inaccettabile” ciò che è emerso dalle indagini che hanno coinvolto alcuni consiglieri.
Si rafforzano così molti dubbi sull’uso politico di diverse inchieste, su determinate condanne, su questionabili custodie cautelari e, per finire, sui legami della magistratura col mondo politico. Tutti fattori che hanno portato i cittadini a perdere la fiducia nei confronti della giustizia e, principalmente, di una certa parte della magistratura che l’amministra.
Per il potere giudiziario detto scandalo sarebbe stato, prima che magari si potesse avverare la predizione del fu Massimo Bordin, stimato direttore di Radio Radicale, secondo cui alla fine i magistrati si sarebbero arrestati tra di loro, un’occasione unica per mettere ordine in casa e, secondo il mito dell’Araba Fenice, risorgere dalle ceneri più credibile che mai. Ma non sembra che le cose stiano andando in questo senso, anzi detto potere si mostra critico nei confronti di qualsivoglia accenno di riforma ipotizzato o perorato da chicchessia.
Non a caso, si legge su il Giornale.it del 10 u.s.: “La riforma della giustizia continua a far discutere: a prendere la parola è anche il presidente di Anm Giuseppe Santalucia, che ha espresso le proprie perplessità in merito agli emendamenti al ddl penale approvati recentemente dal Cdm”. E più di recente, davanti alla commissione Giustizia alla Camera, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri ha espresso forte preoccupazione per la possibilità che il 50% dei processi, in gran parte per reati di mafia e maxi processi, siano dichiarati improcedibili in appello. E, subito dopo, rafforza le critiche il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho che prevede conseguenze sulla democrazia del nostro Paese, se tanti processi diventeranno improcedibili minando la sicurezza dello Stato. Per meglio intendere il problema, le critiche vertono sullo “sveltimento” processuale, ovvero sull’improcedibilità dell’azione penale (prevista nella riforma) nel caso di superamento di determinati limiti temporali per ogni grado processuale.
Quanto sopra esposto rivela che, oltre alla prevedibile critica di taluni politici, anche da parte di stimati magistrati si questiona sulla bontà o meno della riforma, disconsiderando oramai sempre più le raccomandazioni del grande giurista fiorentino, nonché Padre costituente Piero Calamandrei, che così recitano: “… al giudice (ed in generale al giurista) non spetta discutere la bontà politica delle leggi; spetta soltanto, in quanto giudice e in quanto giurista, osservarle e farle osservare”. È così dunque che iniziano quei malcelati disappunti che hanno fino ad ora e per tanti anni contribuito a ritardare ogni tentativo di riforma? Probabilmente sì: è la forza della critica che prevale sul cambiamento! Solo che recentemente, spazientita dall’inspiegabile stallo politico e dall’ozio riformatore, si è mossa persino l’Europa “ammonendoci” severamente di rendere la nostra giustizia più “efficiente e compatibile” col ruolo che le è proprio e in linea con i sistemi vigenti nell’Unione. Ed ecco che il governo ha dovuto darsi una mossa.
Allora? Suvvia, è il momento di cogliere la palla al balzo! Viviamo in uno Stato di diritto, che, in parole povere, deve garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali per tutti i cittadini attraverso una giustizia accessibile e certa sia nei tempi sia negli esiti e se a tal fine il sistema giudiziario così com’è non funziona, vi si ponga rimedio e così sia! Il rimedio è la riforma della giustizia e a tanto deve provvedere il potere legislativo motu proprio o, se ozioso, sulla spinta della volontà popolare espressa attraverso una proposta di referendum, così come sta accadendo.
L’indifferenza del cittadino nei confronti di quella parte della giustizia malfunzionante si è trasformata oramai in malumore tant’è che oltre centomila italiani e dalle più disparate tendenze politiche, nei primi tre giorni di gazebo, avevano già firmato per le sei questioni referendarie sulla giustizia promosse da Radicali e Lega. Nel contempo, procedono finalmente i lavori del Parlamento che riguardano una parziale riforma della giustizia penale: una delle obbligazioni assunta dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea per ottenere i circa 200 miliardi di euro di finanziamenti del Fondo per la ripresa (Recovery Fund per gli anglofoni).
Infatti, passo a passo, tra i molti pregiudizi e ostacoli ideologici sembra che i lavori presieduti dal ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla menzionata riforma procedano dopo il lungo blocco imposto dalla sviante frattura tra magistratura e politica, tant’è che il pacchetto di proposte su processo penale e prescrizione in Consiglio dei ministri è passato all’unanimità. Però noi, oramai sfiduciati, ci chiediamo se esso arriverà a buon fine nella sua interezza o, strada facendo, sarà emendato al punto da rappresentare soltanto un maquillage che, ancora una volta, non risolverà il problema di fondo. Beh!… stavolta speriamo fortemente in bene.
Ecco che, mentre scriviamo ci giunge la notizia che il Consiglio dei ministri ha deciso di apportare al testo due volte approvato dal governo alcune modifiche che riguardano principalmente l´imprescrittibilità, e quindi l´esclusione dal meccanismo di improcedibilità, dei reati di mafia e terrorismo nonché il regime speciale per quelli con aggravante mafiosa. Non vogliamo essere pessimisti ma realisti: di certo siamo sulla buona strada, ma si potrà dire “missione compiuta” solo allorché sarà posta in discussione e approvata una riforma della giustizia non solo puntuale, ma profonda, così come proposta con i referendum. Alfine, ci si renda conto che il troppo stroppia: esistono infatti, oltre alle pressioni dell’Europa, dei limiti aldilà dei quali la pazienza non è più una virtù, per cui la “Guerra dei trent’anni” tra politica e giustizia (tanto è il tempo durante il quale si tenta invano una riforma) dovrà pur volgere al termine!
Si apre dunque uno spiraglio? Speriamo! Sembra infatti che finalmente gli scandali giudiziari e gli inaccettabili meccanismi ad essi connessi abbiano fatto perdere l’indifferenza all’intera società civile e non solo nei confronti del problema giustizia con tutto ciò che ne consegue! Il passaggio dalla toga alla poltrona parlamentare e viceversa; il rapporto olistico tra stampa e magistratura; le lungaggini processuali; la mancata attuazione della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri; gli intrighi, i veleni e le lotte per poltrone all’interno dell’ordine giudiziario; e altro ancora hanno determinato, in ultimo, una volontà generale di porre fine a questa riprovevole situazione e di dare di piglio ad una profonda riforma della giustizia in cui tutti si riconoscano.
Volontà che ci auguriamo sia condivisa anche, a ragion veduta, dagli odierni critici e dalla maggior parte dei magistrati: quelli che svolgono il proprio lavoro con spirito di abnegazione, con passione e devozione. E solamente se ciò avverrà, l’articolo 101 della Costituzione (La giustizia è amministrata in nome del popolo) e la Magistratura recupereranno rispettivamente quel senso voluto dai Padri costituenti e la nostra piena fiducia.
*direttore La Gazzetta italo brasiliana ( http://rivistalagazzettaonline.info)