Lo scorso 26 aprile presso il “Circolo aquilano” il Gen. B. Paolo Bertoia, socio del Gruppo A.N.U.P.S.A. dell’Aquila, ha tenuto una conferenza avente per tema le problematiche conflittuali ed economiche che agitano lo scenario strategico del Mediterraneo. Senza voler riproporre in questa sede le tematiche trattate il relatore ha fatto pervenire una interessante riflessione sulla conferenza evidenziando, a conclusione, la nostra incapacità nella gestione organizzativa delle nuove guerre e della migrazione incontrollata, una “non-cultura” che potrebbe portare, se gestita male, a una crisi dello Stato democratico.
Di seguito la tesi del Gen Paolo Bertoia
Se un profano dovesse interessarsi delle problematiche riguardanti il mare Mediterraneo, dovrebbe leggere il libro di Fernand Paul Achille Braudel «Il Mediterraneo all’epoca di Filippo II1». Questo libro, che per il particolare periodo storico trattato, potrebbe essere considerato ormai limitativo, risulta essere invece uno dei più completi compendi mai scritti sul mare limitato dalle Colonne d’Ercole. Infatti in questa opera non si parla solamente di storia, ma di geografia fisica regionale, di uomini, di genti, di economia, di scambi, di correnti marine e naturalmente di navigazione. Infatti, il Mediterraneo è sicuramente, per la sua storia e per la sua importanza strategica ed economica, ancora oggi, nel XXI° secolo, il centro del mondo, così come veniva disegnato nella Mappa voluta dal vescovo di Hereford, nella lontana Anglia, nel 1276 sotto il regno di Edoardo 1°.
Non per niente la storia dell’Occidente nasce con i poemi di Omero, che solo dai profani sono considerati esclusivamente un’opera letteraria, dove la narrazione dell’uomo che “vuole divenir del mondo esperto e del valore”, Odisseo, si identifica nell’essere cosciente e responsabile dei proprî atti, colui che riveste in se il mito dell’uomo greco, colui che deve risultare, sempre e comunque, kalòs kài agathòs2, un obiettivo al quale tutti dovremmo tendere.
Naturalmente, partendo da questi prodromi, noi occidentali consideriamo il Mediterraneo come il Mare Nostrum, dimenticando nella nostra visione eurocentrica, l’altra sponda, quella che possiamo considerare, in senso lato, la dimensione «araba».Non teniamo conto, insomma, di chi, dopo il VII° secolo ha dominato, volenti o nolenti, il sud di questo mare, che ancora oggi consideriamo un nostro possedimento e che in definitiva, se si vuole giudicare solo sul mero rapporto di forze contrapposte, lo è ancora.
Ma il mare è un elemento di congiunzione; sul mare non si muovono solamente le persone e le merci, ma anche le idee. Nel Mediterraneo, il territorio che più si addice a questa incontestabile verità, risulta essere sicuramente la Sicilia; una terra di grandi contraddizioni, dove attraverso l’architettura e i reperti archeologici, ci si può rendere conto che in effetti, anche civiltà dissimili possono convivere in un contesto armonioso, se esiste il «buon governo», ovvero un governo saggio ed efficiente, che opera per il bene pubblico, così come viene rappresentato da Ambrogio Lorenzetti nei suoi affreschi nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico a Siena.
Sempre persuasi dei nostri giudizi e specialmente dei nostri pregiudizi, ci siamo
dimenticati che questo mare è sempre stato terra di frontiera; su questo mare si sono scontrate flotte, sono passati eserciti e dopo di questi, le idee dei vincitori, che sono state accettate, anche in tempi recenti dai vinti o meglio dai sottomessi, che magari avevano a loro volta un tornaconto da spartire con i conquistatori, ma che sono state ugualmente osteggiate. Una commedia che si svolge tra protagonisti diversi, che si ripete dai tempi dell’invasione dell’Egitto da parte degli Hyxsos.
In questo momento storico, in questo mare, politica e violenza sembrano indentificarsi in un unico concetto, e noi dovremmo chiederci quale sia l’origine di tanta violenza. La motivazione ce la possiamo spiegare soltanto cambiando prospettiva culturale. Ascoltando l’intervista di Davide Assael che parla con la filosofa Olivia Guaraldo, con Sari Nusseibeh rettore della Al-Quds University di Gerusalemme e con Gérard Haddad, psicanalista, si rimane affascinati dalle loro conclusioni – che il più delle volte coincidono nonostante le origini culturali diverse – su quali siano le cause della violenza, da cosa essa tragga origine e chi abbia immaginato che l’origine della violenza risieda nell’ideologia, che sia questa di natura religiosa oppure politica; per non parlare poi delle cause sociologiche della violenza, come se questa venisse prodotta da fenomeni di emarginazione sociale o di sfruttamento. Infine si è voluto ricondurre la violenza a fattori psicologici, o meglio, antropologici.
Tutti concordano che la violenza non sia l’obiettivo escatologico delle tre religioni monoteistiche che si affacciano su questo mare, bensì il risultato di processi storici, politici ed economici che magari nascono e si sviluppano lontano dalla regione studiata; da questo, infatti, il titolo dell’articolo: Mediterraneo allargato. Il problema è verificare di quanto l’angolo, che ha quale vertice questa regione si debba ampliare. Al lettore le sue … personali conclusioni.
Se si vuole infine esprimere un giudizio sulla violenza che si esercita nel Mediterraneo, dobbiamo renderci conto prima dell’universalità di parole come amore e giustizia, ma anche della parola “conflitto”, intesa come pensava Eraclito, quale principio fondamentale sul quale si fonda la stessa idea di giustizia, evidenziato nel nostro caso, come un problema squisitamente politico a prescindere da quello religioso. Non esistono inoltre differenze culturali inconciliabili, ma problemi politici inconciliabili – anche di natura antica come quelli già esistenti tra sunniti e sciiti – ammantati e abbelliti da concetti religiosi. Dunque il conflitto c’è ed è pervasivo antropologicamente della condizione umana, agonica, antagonistica e contingente. Esso abita la dimensione intersoggettiva, che caratterizza i fenomeni e i processi economici, culturali e normativi. Sta agli stati, o meglio alle unioni associative politico – economiche di stati, affrontare questo problema e cercare di risolverlo.
In questa fase di conflittualità tra attori diversi e non sempre comprimari, ci si rende conto che non esiste uno scontro di civiltà, come pensava Huntington, bensì un insieme di eventi casuali ottenuti non grazie a un disegno pianificato, ma riferibili a una crudele casualità originata da più fattori che hanno compromesso equilibri solidificati come quelli che si sono venuti a creare in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq, o nell’Africa Orientale ed Equatoriale, dove il fattore religioso serve da coagulante negli scontri di natura politica ed economica, e dove quello demografico ha sconvolto gli assetti storici e tradizionali. Siamo arrivati, forse, al fallimento del “mito americano”, così come ci è stato prospettato in questi ultimi decenni e forse causato, come afferma Pankaj Mishra, «… [dalla] generazione “post-ideologica” degli internazionalisti liberali e dei neo-con [che] pensava ormai che la democrazia potesse essere impiantata attraverso la terapia dello shock-and-awe3 in società che non l’avevano per tradizione.»
Queste potrebbero essere dunque le cause di una migrazione di massa incontrollabile, che fa suoi punti di forza le nostre debolezze, che noi crediamo invece siano i punti di forza. Mi riferisco, ad esempio, alle leggi e alle consuetudini del mare, che favoriscono in maniera asimmetrica chi vuole raggiungere la “terra promessa” e chi fa arrivare queste persone da noi, sulla sponda nord, in una maniera che a dir poco si potrebbe paragonare a quella della tratta degli schiavi. Un genere di “guerra”, che non siamo in grado di vincere per incapacità di esprimere con i fatti la gestione di un evento macro politico al di fuori dei nostri concetti tradizionali sul fenomeno in questione.
In conclusione, sebbene non sia d’accordo su assurdi allarmismi – siamo infatti una Nazione in grado di gestire questi fenomeni che ritengo ancora marginali anche se mediaticamente risonanti –, devo però ammettere che esiste nella nostra cultura nazionale una volontà politica, sociale e religiosa, di minimizzare questi eventi che ci coinvolgono direttamente e che dipartono, come sempre è stato, da quanto accaduto e accade ancora oggi sulla sponda sud del Mediterraneo. Una “non-cultura”, che non vuole una gestione organizzativa di questi fenomeni – guerra e migrazione incontrollata – e che potrebbe portare, se gestita male, a una crisi dello Stato democratico.
Generale B. Paolo BERTOIA
- Il libro venne iniziato sotto forma di dispensa per i corsi di storia tenuti ai suoi compagni di prigionia in Germania durante la 2^ guerra mondiale. È divenuto poi, la sua tesi di dottorato, che venne discussa nel 1947 e pubblicata nel 1949.
- L’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo.
- Colpisci e terrorizza. Conosciuta anche come “dominio rapido”, è una tattica militare basata sull’uso di una potenza travolgente, la cognizione della superiorità sul campo di battaglia, manovre dominanti e spettacolari, ostentazioni spettacolari di forza per paralizzare la percezione del campo di battaglia da parte dei nemici e distruggerne la voglia di combattere. Ritengo sia una variante di «guerra reale» proposta da Clausewitz e applicata male come in Afghanistan e in Iraq. Infatti se la «guerra assoluta» per giustissimi motivi etici non è più applicabile, la «shock-and-awe» a lungo andare – la teoria deve essere impiegata nel breve periodo, una Blitzkrieg di stampo moderno – è destinata alla sconfitta.