L’Aquila, 16 marzo 2025
di Goffredo Palmerini
Lettera a Francesco Merlo in risposta ad una lettrice nella sua rubrica su La Repubblica, che ha definito Celestino V un “santo vigliacco”.
Alla c.a. del dr. Francesco Merlo
francescomerlo@repubblica.it
Gentile dr. Merlo,
leggo ogni giorno su Repubblica, con grande interesse e godimento, la sua rubrica “Posta e Risposta”. Nel numero di sabato 15 marzo, in particolare, la sua risposta ad una lettrice di Perugia nella quale parla dell’ignavia e di Celestino V, il papa che “fece per viltade il gran rifiuto”. Vorrei proporle qualche annotazione al riguardo. Dante in quel verso non cita papa Celestino, egli che nella Commedia dà sempre chiaramente il nome ai personaggi che incontra. Dopo la morte di Dante fu il figlio Jacopo a fornire per primo a quell’ombra l’identità di Celestino V e per secoli quel papa si porta addosso il durissimo giudizio di viltà.
Come sia potuto accadere che quel verso del III canto dell’Inferno – «Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto» – avrebbe per secoli perseguitato come una damnatio memoriae il povero Celestino resta un fatto clamoroso, mentre non è assolutamente dato per certo che il Sommo Poeta a lui si riferisse. Infatti proprio a Dante, il padre della lingua italiana, è impossibile che sfuggisse la differenza tra rinuncia e rifiuto. Quel “gran rifiuto” che invece il Cardinale decano Matteo Rosso Orsini, nel conclave del dicembre 1294, aveva espresso ai cardinali dopo la sua elezione a pontefice, spianando la strada a Benedetto Caetani eletto papa il 24 dicembre con il nome di Bonifacio VIII.
Celestino V ha dovuto così subire, per il suo gesto rivoluzionario delle dimissioni del 13 dicembre 1294, con la “rinuncia” alla tiara resa a Napoli dopo appena quattro mesi di pontificato, tutte le conseguenze inferte dal successore Bonifacio VIII, compresa la prigionia in una cella del castello di Fumone dove ebbe la morte il 19 maggio 1296. E per sette secoli una quasi imbarazzata “rimozione” del suo profetico pontificato, pur di fronte alla santità accertata e riconosciuta per ben due volte in due distinti processi canonici, nel 1313 come confessore e nel 1668 come papa. Ci sono voluti quattro suoi grandi successori – Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco – per riconoscere il coraggio eroico delle sue dimissioni dal soglio di Pietro.
Ci sono voluti anche sette secoli perché valenti studiosi e storici del nostro tempo – quali Raoul Manselli, Edith Pasztor, Peter Herde e tanti altri ancora – lo sottraessero da un superficiale quanto iniquo giudizio di viltà, derivato dall’impropria identificazione nel verso dantesco, come dal ritenerlo uomo incolto e succubo, restituendogli finalmente la giusta dimensione nella storia della cristianità e nella spiritualità del suo tempo. Come pure hanno confermato altri insigni studiosi in recenti Convegni, grazie alle ricerche condotte negli archivi vaticani resi ora accessibili. Una convinzione, sul piano letterario, che non era sfuggita ad Ignazio Silone, che a Celestino dedicò un’intensa opera teatrale qual è “L’avventura di un povero cristiano”, insieme all’ammirazione che Francesco Petrarca in De vita solitaria aveva riservato alla scelta delle dimissioni di Celestino V, gesto sofferto ma di grande dignità.
Dunque non un pavido e un ignavo, Celestino V, ma una figura spirituale di rilievo in quella temperie storica per la Chiesa, dopo Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, dove l’umile monaco Pietro del Morrone in appena qualche decennio era riuscito a costituire secondo la regola di San Benedetto un suo ordine monastico, a farlo riconoscere e poi persino a farlo confermare da Gregorio X nel Concilio di Lione, dov’egli s’era recato nel 1274 a perorarne la causa. E poi ancora a diffonderlo ampiamente con numerosi monasteri e abbazie. In quei pochi mesi di pontificato egli compì per la cristianità gesti di valore profetico, tra essi la Perdonanza istituita nell’atto della sua incoronazione a L’Aquila il 29 agosto 1294, giubileo d’un solo giorno, il primo della storia, la cui Bolla fu affidata al Primo Magistrato (il sindaco del tempo). Proprio per questa singolarità Bonifacio VIII non riuscì ad annullarla e da 731 anni la Perdonanza si svolge ogni anno a L’Aquila dal 28 al 29 agosto, riconosciuta nel 2019 Patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco per il suo messaggio universale di riconciliazione e di pace.
Benedetto XVI, venuto il 28 aprile 2009 a L’Aquila tre settimane dopo il terremoto, nella semidistrutta basilica di Collemaggio si soffermò in raccoglimento davanti all’urna delle spoglie di Celestino V e vi depose sopra il suo pallio, straordinario omaggio alla santità di quel papa e all’eroismo delle sue dimissioni. Quasi un’anticipazione del gesto che egli stesso nel febbraio 2013 avrebbe compiuto. Riconoscimento della grandezza di Celestino V che avrebbe avuto la sua più alta gratificazione il 28 agosto 2022 da papa Francesco, in visita pastorale a L’Aquila nella Perdonanza n.728 per aprire la Porta Santa di Collemaggio. Nell’omelia Francesco disse che «Celestino V non è stato l’uomo del “no”, è stato l’uomo del “sì”» e che L’Aquila era “Capitale del perdono, della riconciliazione e della pace”.
La ringrazio per l’attenzione e la saluto assai cordialmente, davvero con molta stima