Una Polizia d’altri tempi. La Questura di Milano nella seconda metà dell’Ottocento

6 Settembre 2024
By

Studi Storici

Inserto collezionabile a cura dell’Ufficio Storico della Polizia di Stato: Commissario

Giulio Quintavalli, Ispettore Fabio Ruffini, Assistente capo coordinatore Luca Magrone e dell’Ispettore (r.) Massimo Gay.

Tratto dalla rivista Fiamme d’ Oro dell’Associazione Nazionale Polizia di Stato – Anno LI n 2

Nel luglio 1859, al termine della Seconda Guerra d’Indipendenza, con la vittoria della compagine Franco-Sarda, il Regno di Sardegna annette la Lombardia e, successivamente, altri territori: Toscana, Parma, Modena e Romagna pontificia). Il nuovo regime espropria gli stabili degli Ordini ecclesiastici considerati privi di utilità sociale, in ossequio alle leggi Siccardi del 1850. A Milano, la Questura occupa i locali di piazza S. Fedele, accanto alla chiesa omonima, nella struttura che era stata sede dei Gesuiti.

Tale storica sede, da qui in seguito, crocevia di cittadini che vi si recano per necessità o istanze, ma soprattutto dei cronisti/giornalisti in cerca di notizie da pubblicare sui giornali a larga diffusione, che proprio in quel periodo si vanno velocemente diffondendo.

Storie dunque, talvolta crude, altre scandalose, altre ancora piccanti (assieme a quelle di cronaca nera, le più ricercate). Storie lontane talvolta crude, altre scandalose, altre ancora piccanti (assieme a quelle di cronaca nera, le più ricercate). Storie lontane che ci racconta Francesco Giarelli nel suo Vent’anni di giornalismo (scaricabile da Google Libri), un libro autobiografico edito nel 1896. Su quelle pagine, Giarelli narra dei suoi vent’anni come cronista presso vari giornali milanesi. Nella prefazione si afferma: “Era quello un ambiente infuocato: pareva un laboratorio di elettricità dal quale le batterie delle pile sprigionavano correnti potentissime e tali da sconvolgere l’intiero orizzonte”. L’autore, dopo i primi esperimenti da neofita, diventa esperto nel reperire le informazioni sui reati di sangue accaduti, anche a dispetto delle notizie fornite con il contagocce dai responsabili della comunicazione dell’epoca: i Questori. Quasi tutti di sentimenti conservatori, per i quali le notizie dei delitti non dovevano trapelare se non dal cosiddetto “libro nero” della Questura, a cui tutti i giornali facevano riferimento.

A sinistra, cartolina satirica caricaturale “Eccitamento all’odio di classe”, primi del ‘900, autore Enzo Van Dock, che gioca con il significato della parola “classi”, siano queste scolastiche o sociali. Al centro, tavola satirica tratta da LAsino del 4 maggio
1913, titolo “La marcia del Primo maggio” i perseguitati di ieri sono gli ossequiati di oggi. A destra, cartolina satirica caricaturale dei primi del ‘900, autore Enzo Van Dock

In seguito, tali condizioni, ossia l’impenetrabilità delle vicende, note solo agli addetti ai lavori, sarebbero state superate dai più arguti e agili reporter che, sul luogo degli avvenimenti appena accaduti, interrogavano chiunque da cui si potesse apprendere particolari e circostanze da diffondere, in aggiunta alle notizie striminzite diffuse volutamente dagli uffici di P.S. per mantenere il più stretto riserbo, a tutto vantaggio del prosieguo delle indagini e a protezione dell’istruttoria del Giudice. Per questo, soprattutto al mattino presto, si recava nei locali della Questura; ciò gli consentiva di vedere incartamenti, anche solo di sfuggita, o ascoltare discorsi dai quali estrapolare notizie particolari, interessanti o inedite, a totale beneficio degli avidi lettori. Informazioni che, sapientemente miscelate ai fatti di dominio pubblico, consentivano una tiratura tale da permettere di pagare stipendi, spese e, magari, con gli introiti della pubblicità ottenere ricavi da quelle attività editoriali.

Il Giarelli, per esercitare la sua attività, veniva necessariamente in contatto con Questori, funzionari e marescialli fino alle semplici guardie. Nel libro, ne sono descritti i caratteri e anche le sembianze.

Tavola tratta da
L’Illustrazione italiana del 17 gennaio 1897, autore Dante Paolocci.

Dunque “vediamoli”, questi tutori dell’ordine dell’epoca, attraverso i suoi scritti.

IL CAVALIER MICAELIS

Primo Questore di sinistra, venuto a Milano al seguito del Prefetto Cesare Rigras conte di Bardesono. Indicato come eccellente letterato autore, in gioventù, di una versione delle odi di Orazio.

ALESSANDRO AMOUR

Funzionario rigido, chiuso, severo, che vedeva forse troppo nero dappertutto e che aspirava a uscire dalla carriera della P.S. salendo, come ne aveva diritto, alla categoria delle Prefetture.

BARTOLOMEO RESTELLI

tavola in quarta di copertina, tratta da La
Domenica del Corriere del 6 ottobre 1901

Buon piemontese all’antica, religioso osservatore dei suoi doveri, che a Milano lasciò di sé ricordi buoni, ma che, non sapendo farsi valere per ciò che era, fu distanziato dai cupidi di arrivare. Ebbe, come compenso di tutta la vita consacrata al servizio del suo Paese, la condizione di capro espiatorio per gli errori altrui, per cui ebbe compromessa la carriera troncata anzitempo.

ANTONIO SANTAGOSTINO

Avvocato, entra nell’amministrazione della P.S. proveniente dalla magistratura, conseguentemente porta una profonda conoscenza del diritto. Venuto al seguito del Prefetto Basile, non fa pentire della scelta come Questore. Con le forme del gentiluomo, con tutta la mitezza del suo carattere, con la semplicità di una vita operosa divisa tra studio e ufficio, rese preziosi servigi. Traslocato a Roma, capisce che, per un fatto a lui non imputabile, il Ministero gli tiene il broncio (niffolo), per cui chiese il suo collocamento a riposo. A nulla valsero le ripetute offerte di servizi speciali: la riassunzione in carriera, addirittura la Direzione Generale di P.S.; il Santagostino, incurante, restò a casa sua. Basso di statura, asciutto, distinto sino all’eleganza, il perpetuo cappello a cilindro, gli occhi intelligentissimi, il volto simpatico annunciato dal pizzo alla Cialdini, pallido e serio, con voce sempre bassa e la parola lenta ed eletta malgrado l’accento lombardo, maturo, non vecchio, competentissimo su tutto, primo tra i funzionari di P.S., fino a questo momento ha saputo resistere, ma è destinato a una ricomparsa sulla scena.


Cartolina satirica caricaturale dei primi del ‘900, autore
Enzo Van Dock. L’autore gioca con il significato della parola “fuga”, che è una composizione musicale, ma anche l’abbandono precipitoso di un luogo (magari inseguiti dalla Forza pubblica). A destra, tavola satirica tratta da L’Asino del 22 gennaio 1897

PIETRO TURRI

Un ometto piccolo, grigio, agile, audace e famoso per certi arresti celebri da lui eseguiti. Fu lui che, mandato al confine svizzero, affrontò e arrestò quel disgraziato del Paganini, l’impiegato postale di Milano, già fuggito con un piego contenente centomila lire. Fu lui che, inerme, saliva su una scala a mano sull’abbaino di una stamberga laggiù in via Arena, dove sapeva essersi rifugiato un pericolosissimo e atletico pregiudicato, condannato quaranta volte almeno e all’epoca ricercato per l’accusa di omicidio. “Non salite o faccio fuoco”, urlò costui quando vide il funzionario mettere piede sul primo gradino della scala. Proseguì a salire fino alla botola e, appena il ricercato vide comparire al di sopra della ribalta la testa del delegato, gli tirò una pistolettata. Il proiettile passò a un palmo dal volto. Ma prima che potesse sparargli un secondo colpo, il Turri, agile come uno scoiattolo, gli si slanciò addosso stringendolo ferramente alla gola, l’omicida lasciò cadere l’arma già mezzo carica. Anche le guardie gli furono sopra. Non oppose resistenza, si lasciò ammanettare e mentre teneva dietro al funzionario disse: “Se avessi saputo che era lei, le giuro che non avrei sparato la pistola” e l’altro: “E si che dovevet cognossom in la vos… porco sciampin! T’avaroo cimpì una trentenua de volt, pregiudicaton d’on pregiudicaton… !”.

ALESSANDRO BAROSI

Una brava e onestissima persona, con tanto di occhiali, di barba e di capelli grigi, il quale però vedeva la stampa e i suoi cosiddetti sacerdoti come il fumo negli occhi; ond’è che quei signori, costretti di ricorrere a lui, lo facevano con l’entusiasmo di chi deve ingoiare un’oncia di olio di ricino. Del resto, un funzionario capace e intelligentissimo.

A sirtolina satirica caricaturale dei primi del ‘900, autore sconosciuto.
Edita da GCC La matita dell’autore esaspera le caratteristiche fisiche alterandone le sembianze, ridicolizzando i personaggi. A sinistra, tavola in quarta di copertina, tratta da La Tribuna illustrata del 15 giugno 1902.

GIUSEPPE RONCORONI

Alto, grave, melanconico come chi si sentiva già preda a un’implacabile infermità che lo avrebbe tratto precocemente alla fossa. L’Ispettore capo Roncoroni aveva l’uso di un occhio soltanto. Il cavalier Roncoroni ebbe legato il suo nome alla famosa scenata di via Moscova quando d’improvviso, al passaggio del corteo d’associazioni recantisi al cimitero, si spalancò il portone della caserma di Santa Severa e ne sbucarono fuori drappelli di carabinieri e questurini, i quali scagliandosi sulla bandiera repubblicana della Fratellanza Amore e Libertà, tentarono, con un colpo di mano, di strapparla ai vessilliferi. Ma non ci riuscirono: il vessillo fu messo in salvo. Scoppiò un serio badalucco (piccolo scontro ndr), ci furono dei feriti, dei contusi, insomma qualche caso di violento e odioso…Poco tempo dopo il cavalier Roncoroni fu nominato Questore di Torino. Nel 1884, recatomi alla Esposizione seppi che il cavaliere Roncoroni erasi reso beneviso a tutta la cittadinanza; e sentii che a tutti doleva grandemente saperlo in condizioni di salute sempre miserande. Ne le tristi profezie tardarono ad avverarsi: difatti, poco dopo, il Questore Roncoroni morì.

Tavola umoristica tratta da Numero del 22 luglio 1921, autore Scarpelli

EUGENIO BALLABIO

Milanesissimo, e oggi Questore della sua città. Bella mente e buon cuore.

DOMENICO CAPPA

Io personalmente ero nelle buone grazie e nella stima del cavaliere Domenico Cappa, il Maggiore Comandante il battaglione delle Guardie di P.S., il parente della non ancora contessa di Mirafiori, pel cui mezzo, dopo fatte le campagne per l’indipendenza del 1849, ottenne per tutta fortuna di entrare nel corpo degli agenti di polizia. L’individuo che per alcuni anni fu applicato a presidio personale del conte di Cavour, ministro, cui egli seguiva e giorno e notte come l’ombra sua, e dappertutto, persino là dove il nobile conte si riposava delle fatiche di stato coi fidati colloqui d’amore, onde fu a lungo incontrastata eroina una irresistibile e bellissima contessa, la quale co’ suoi vezzi era riuscita a stregare così il ministro di Vittorio Emanuele, che il Cappa, più d’una volta, dovette, colla forza, rintuzzarne le tremende gelosie e le meditate vendette, quando le pareva che il conte ministro occhieggiasse qualche altra creatura e tentasse guizzarle di mano. Leggere per credere, il libro dei propri ricordi or non ha guari fatto pubblicare dal cavaliere Cappa, allorquando, andatosene in pensione dal proprio ufficio fu nominato dal governo magazziniere di generi in privative a Legnago. Non portava se non in giorni di parata, o di rivista la sua divisa a grandi arabeschi d’argento il maggiore Cappa. Ma di solito vestiva dimessamente e pulitissimamente in borghese. Calzoni neri, stiffelius (giacca da uomo utilizzata fino al XIX secolo, ndr) a lunghe falde, cravatta nera al collo, alto cappello a cilindro in testa, grossa canna fra le mani; figura pacificamente tranquilla di magistrato (non inteso come giudice ma come cittadino investito di un potere di comando che agisce nell’interesse della pubblica cosa, ndr) in ritiro. Eppure con quel palamidone e con quel cilindrone, io più di una volta vidi il cavaliere Cappa salire sul tetto d’una casa incendiata; oltrepassare con piede sicuro varchi sovrapposti ad abissi; attraversare stanze illuminate sinistramente da una criniera di fiamme; strappare dal letto infermi, tôrsi fra le braccia fanciulli, stendere la mano ossea, nodosa, nerboruta a pallide spose, a tremanti vegliarde, e tutte e sempre trarre in salvazione ritornando immediatamente in mezzo al pericolo, tra i guizzi delle vampate; calpestando le fumanti macerie, intrepido sotto la pioggia di legname carbonizzato e incenerito, senza lentezza ma senza furia, attento, flemmatico, incurante della morte che lo spiava a ogni angolo di soffitto che fragorosamente precipitava a terra; dando a voce breve qualche ordine a’ suoi subalterni, e con un gesto largo e quasi cerimonioso togliendosi il cappello, e tergendosi col fazzoletto bianco il sudore dalle tempia e dal volto. Del resto il coraggio di Domenico Cappa è tuttavia leggendario in Piemonte. Più d’un celebre bandito, più d’uno spaventevole assassino egli colle sue mani, combattendo a tu per tu, assicurò alla giustizia. Aveva due specialità: mani onnipotenti, che afferravano e stringevano quasi fossero morse di bronzo, e una religiosità da asceta. Nessuna impresa pericolosa intraprendeva senza farla precedere da una visita nell’attiguo San Fedele o nella cappellina della Vergine, che dà sul vicolo omonimo. Il lumicino veniva acceso innanzi al quadretto di Maria nella saletta di casa, quando una spedizione lo chiamava fuori. Praticante, non bigotto, non faceva mistero della sua fede. Eppure, quest’uomo che la domenica non avrebbe mancato per tutto l’oro del mondo alla messa o alla benedizione, era fornito d’un coraggio indescrivibile: un coraggio tanto più intrepido quanto più non era fatto di entusiasmi d’ardore passeggero. Ma era un coraggio a freddo, calmo, abituale, che si affermava come una seconda natura, come una normalità perfetta del suo spirito: un coraggio che mi faceva sovvenire quello attribuito da Victor Hugo al suo Javert, il poliziotto, che sorridendo diceva a un bandito — cui stava per arrestare e che gli spianava contro una pistola — di non sparare perché tanto l’arma non avrebbe preso fuoco o non lo avrebbe colpito. Il che precisamente avvenne.

Foto tratta da La Tribuna illustrata del 20 maggio 1906; Roma, sciopero generale, il commissario Montmasson con gli agenti di Trevi intima alla folla di sciogliersi.

IL TAGLIABÒ

Un altro tipo curioso era il maresciallo della squadra volante: certo Tagliabò, genovese. Anch’egli nella sua lunga carriera aveva dato prove di valore personale senza eccezione; ma quel posto di combattimento che gli avevano affidato a Milano non gli conveniva troppo. Innanzitutto era troppo maturo. Poi lo imbarazzava la sua pinguedine, cosicché quando era costretto a indossare l’uniforme, il cinturone che gli sosteneva la sciabola presentava una così vasta circonferenza da bastare non a un uomo solo ma a un assembramento d’uomini. La sua lingua era un patois di ligure e di italiano, che a comprenderlo occorreva uno sforzo continuo di buona volontà. E il peggio era che il poveraccio balbettava spaventosamente, cosicché quando gli toccava esporre verbalmente il suo rapporto, lo scilinguagnolo lo tradiva, arrossiva pel dispetto, si inquietava, e inquietandosi s’impappinava ancor più: e se la sventura lo faceva incontrare in parole, la cui prima sillaba era un pa, un ca, o un ta, allora – misericordiosissimo Iddio! – era una sfilata di pa… pa… pa, o ca… ca… ca, o ta… ta… ta che avrebbe fatta perdere la pazienza persino a Giobbe il Santo dell’ldumea… E anch’egli fu mandato in ritiro.

Tavola tratta da La Tribuna illustrata del 4 gennaio
1903, autore Scarpelli

MAZZA, IL DONDINA

Mi rammento il famoso Mazza – detto Dondina – un altro balbettatore, che camminava sulle offese piante, barcollante, e che era leggendario fra i locch, cui egli soleva a’ suoi bei tempi acciuffare al fu Tivoli in piazza Castello, onde la canzone popolare: “El Dondina quand l’è ciocch El va foeura a ciappà i locch, Elj e mena a San Vittor. A senti quant’ hinnjor ![…] Dondina… Dondina… Dondina! gli urlavan dietro i barabba, quando lo vedevano spuntare. Lui faceva lunghi giri viziosi, e spesso comparendo loro alle spalle ne afferrava due o tre tenendoli fra le sue mani di bronzo. Allora gli arrestati: Sur Mazza… sur Mazza… hoo faa nagott… Ch’el me lassa andà, sur Mazza… Ed egli, passando loro le castagnole: A… a… adess… sont… el sur Mazza …. ma… ma… PO… PO… poc fa… s’eri… el… Don… Dondina… Che… vun… che duu e che trii… via… tucc… con mi! Però quand’io lo conobbi, questi fatti eran già lontani. Lo utilizzavano ancora in caserma, affidandogli in sottordine la cucina delle guardie. Uno sguattero niente di più”. In Rete abbiamo trovato: El Sciur Dondina. Analfabeta, brevilineo, dotato di una forza erculea (“le sue dita sembravano tentacoli di ferro, il suo pugno un maglio”, Paolo VaIera), violento ma generoso, rispettato dalla gente e temuto dai criminali. Non essendoci all’epoca indagini scientifiche accurate, El Dondina si affidava unicamente al proprio fiuto e a un’ampia rete di informatori per scovare i malandrini. Cresciuto tra scassinatori e tagliagole, conosceva perfettamente la mentalità criminale che gli permetteva di essere sempre un passo avanti agli altri investigatori. Se da una parte preferiva riempire di ceffoni i minorenni che campavano di furtarelli per evitar loro il carcere (“scappa che el riva El Dondina”, gergo rimasto in uso per anni allo scopo di rimettere in riga i ragazzini), dall’altra non disdegnava di riempire di botte i criminali recidivi ma, anche se su questo punto, pare vi fossero parecchie ed esagerate dicerie. Un fatto da menzionare è senz’altro quello dei teppisti di San Giovanni sul Muro, che per mesi terrorizzarono il quartiere: picchiavano gli osti per non pagare il conto, malmenavano la gente di passaggio e abusavano delle ragazze. Il Dondina e la sua squadra fecero piazza pulita nel giro di poco con metodi non sempre ortodossi, riportando l’ordine e la tranquillità. Ma, come s’è accennato in precedenza, quest’uomo di altri tempi, che operava nel sottobosco criminale di una Milano degradata dove la legge non esisteva, si dimostrò magnanimo con molte persone, offrendo spesso loro una possibilità di riscatto. Quando i vertici della Polizia cambiarono e Milano stava per affacciarsi al futuro, El Dondina divenne anacronistico e superato. Un analfabeta che godeva di una totale indipendenza nelle indagini e che si comportava come i criminali che arrestava non poteva più essere tollerato. Nella sua vita aveva risolto innumerevoli casi, scovato molti assassini, truffatori e ladri. Ma tutto questo apparteneva ormai al passato. Ritira tosi dall’attività, o forse costretto prematuramente alla pensione, “El Sciur Dondina ” finì i suoi giorni in ristrettezze economiche. (Ma, nonostante dell’uomo si sia persa memoria, la sua leggenda vive tutt’oggi. Dal Corriere della Sera del 21 agosto del 1899: “Ieri, dopo pochi giorni di degenza, è morto di emorragia cerebrale, all’Ospedale Maggiore, Luigi Mazza, il famoso Dondina, l’ex brigadiere di Questura che fu per circa un ventennio lo spauracchio dei malviventi di Milano. Col caratteristico nomignolo i loschi frequentatori dell’antico Tivoli vollero schernirlo per un’imperfezione ai piedi, che costringeva il loro persecutore a procedere dondolante”. https://www.viveremilano.info/cultura/el-dondina-avvoltodal-mistero.html, ndr).

Non ho dimenticato della squadra volante né lo Zuliani, nè il Credazzi. Quest’ultimo era un giovane e forte agente, cui esteticamente nuoceva l’assenza di tre denti incisivi superiori. Glieli aveva cacciati in gola un colpo con isbarra di ferro applicatogli da un terrazziere, che esaltato dal vino minacciava d’uccidere un compagno. Il Credazzi s’era rassegnato al suo triste destino. Ma era pieno di interessamento e di affetto pel suo Corpo. Ricordo che mi sottopose un lunghissimo e minutissimo schema di progetto per la riforma del Corpo. La lingua e lo stile appartenevano piuttosto all’altro che a questo mondo, la sintassi poi e l’ortografia erano un continuo problema. Eppure, al di là di tutto ciò, spuntavano idee serie, pratiche, giuste, colla scorta delle quali sarebbesi potuto da chi sta in alto, istituire rilievi, segnalare mali e proporre rimedi… Invece, il buon Credazzi avrà dovuto accontentarsi per tutto suo premio d’aver sentito da un uomo di penna dirgli: C’è quaddentro del buono… ma bisogna rifar tutto dalla prima all’ultima parola…


Tavola tratta da La Tribuna illustrata del 10 novembre 1901, autore sconosciuto

CONCLUSIONI

Ci pare che il giornalista abbia avuto nei confronti dei personaggi descritti, soprattutto di quelli dei più bassi ranghi, un particolare accanimento nel rappresentare deficit e difetti, ma forse, specchio dei tempi, si tratta solo di una campionatura di varia umanità diffusa a quei tempi. La fotografia ingrandita, forse un po’ impietosa, di un microcosmo di questa nostra Italia.

Tags: , , , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Dieci anni

Archivio