Due marò finiti nel tritacarne
Articolo tratto da un post su facebook
di Diego Gabutti
Non se ne parla più, e anche quando ancora se ne parlava se ne parlava raramente a tono, ma l’affare dei due marò italiani arrestati in India per avere provocato la morte di due pescatori indiani, scambiandoli per pirati, è la storia più grottesca e sconclusionata mai capitata a dei militari italiani, braccati dai magistrati d’una nazione straniera nell’indifferenza, per non dire con la connivenza, delle nostre istituzioni.
Che Massimiliano Latorre, autore di questo Sequestro del marò, e Salvatore Girone (fucilieri di marina che nel febbraio del 2012 erano di scorta a una petroliera che batteva bandiera italiana, l’Enrica Lexie) non avessero affatto ucciso senza provocazione due pacifici pescatori, ma respinto un attacco di pirati al largo delle coste del Kerala, nell’India sud-occidentale, era perfettamente chiaro a tutti. Ma le autorità indiane dell’epoca erano decise a fare la voce grossa con l’Italia, che ai tempi era governata da Mario Monti.
Scopo della persecuzione giudiziaria, come fu subito evidente, non era punire due militari irresponsabili ma mettere in difficoltà l’italiana Sonia Maino in Gandhi, vedova di e leader del Partito del congresso. Così i due marò ebbero contro anche lei, che aveva platealmente rinunciato, già da tempo, alla cittadinanza italiana. Anzi lei (per non essere accusata di favoreggiamento, da noi «concorso esterno») fu più accanita di tutti (benché una volta, incontrando Latorre in un ristorante di Dehli, ebbe per lui comprensione e parole gentili).
«Era morto il rappresentante del Kerala nel parlamento federale», racconta Latorre a Mario Capanna, qui nelle insolite vesti dell’intervistatore. Tempo d’elezioni, e il partito in vantaggio era quello di Sonia Gandhi: «Si può immaginare il cortocircuito: si votava nel Kerala, lo Stato che aveva visto due pescatori “uccisi” dai marines italiani; il partito del congresso fu particolarmente duro contro di noi, pena l’accusa, da parte degli avversari politici, di connivenza con l’Italia. Si trattò d’una vera e propria strumentalizzazione politica del nostro caso. Alla fine, vinse il partito della Gandhi, sulla nostra pelle».
Arrestati, scaraventati in prigione come delinquenti comuni, rilasciati in occasione di feste di Natale e d’elezioni italiane, sballottati di qua e di là, una settimana o due a casa, poi di nuovo in India dietro le sbarre, oppure ospiti malaccetti dell’ambasciata italiana a Dehli, Latorre e Girone vissero anni d’inferno.
Non fu una semplice e normale crisi diplomatica. Fu una farsa internazionale, degna di un’India da romanzo salgariano e di un’eterna Italietta senza vergogna né pietà per i suoi uomini in divisa. Da un lato le ragioni inconfessabili della politica interna indiana, dall’altro le ragioni oscure e inespresse del commercio estero italiano, che non voleva storie con gl’indiani, clientes con un giro d’import-export da miliardi di euro, mica noccioline, i due fucilieri vennero brutalizzati da quella che, a raccontarla adesso, non sembra un affare di realpolitik ma una barzelletta.
Ci furono scene, in Italia e in India, da teatro dell’arte: le lacrime di Mario Monti commosso dalla triste sorte dei due marò, seguite dall’annuncio ufficiale del ministro degli affari esteri Giulio Terzi di Sant’Agata di voler trattenere in Italia i due marò ai quali era stato concesso un «permesso premio», decisione subito revocata da Palazzo Chigi dopo la minaccia indiana di mettere ai ferri, al posto dei marò, l’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, che da Dehli «faceva pressioni», racconta sempre Latorre, «perché noi arrivassimo puntuali» evitandogli di finire in gattabuia. Ci basta – dichiarò il governo italiano – che l’India abbia garantito di non applicare, in caso di condanna, la pena di morte (ma una pena meno drastica, tipo i lavori forzati a vita, o l’ergastolo in un lebbrosario).
Terzi di Sant’Agata si dimise da ministro e dichiarò all’Espresso: «Le motivazioni che mi vennero vibratamente rappresentate da Monti e Passera per ribaltare la decisione di trattenere i marò in Italia erano fondate su ragioni di natura economica, dei danni che avrebbero subito le nostre imprese e delle reazioni indiane. […] Questa decisione» sarebbe poi stata «confermata dal governo Letta».
Ai due marò fu infine consentito di tornare in Italia per attendere le conclusioni dei magistrati italiani, ai quali il tribunale internazionale dell’Aja aveva assegnato (senza farsi fretta) la competenza sul caso. Massimiliano Latorre e Salavtore Girone furono debitamente assolti dal Gip di Roma poiché la loro condotta era consona a «una situazione tale da far pensare a un attacco di pirati» (era a tutti gli effetti un attacco di pirati, ma tant’è, il commercio estero vuole la sua parte).
Morale: dieci anni di tormenti, due vite devastate. Ci furono, ineluttabili, anche «altre amarezze. Per esempio quando un giorno il tg di La7, in un servizio sul nostro caso, parlò dei “due marò che avevano sparato e ucciso due pescatori indiani”. Nessuno s’alzò a rettificare la notizia. Segnalai il fatto a un mio alto interlocutore in divisa presso il ministero della difesa. Dopo avere visionato il servizio, l’ufficiale mi disse: “Ma sai… non è che hanno offeso le forze armate. Se volete agire, fatelo voi”».
ANCORA UNA VOLTA, IN ITALIA, IL SOLDO HA VINTO SULL’ONORE.