ANCONA 26 GIUGNO 1920
Articolo tratto dalla Rivista “Associazione Nazionale della Polizia di Stato”. Anno L n° 1/2023 STUDI STORICI: Commissario Guido Quintavalle, Ispettore Fabio Ruffini, Assistente Capo Coordinatore Luca Magrone, Socio ANPS Massimo Gay.
Nelle camerate fischia il vento rivoluzionario, la crisi dello Stato liberale e il mito della Vittoria mutilata
“Per tre giorni, le Guardie regie furono impegnate in scontri a fuoco coi Bersaglieri e con le forze insurrezionali, cercando di liberare le caserme strette d’assedio e contendendo vie e piazze palmo a palmo. Giunti i necessari rinforzi da Roma, le Forze Armate passarono dal contenimento a contrattacco e sedarono definitivamente la rivolta. Il compito più delicato fu affidato proprio alla colonna formata dalla Regia guardia (le altre due erano di Carabinieri e Fanteria) che, partendo dalla caserma della stazione ferroviaria assediata dai rivoltosi, mosse verso i quartieri popolari della città per riassumerne il controllo, conducendo un’operazione dal carattere prettamente militare. Sotto la copertura dei colpi sparati da una torpediniera della marina militare, le guardie assaltarono la posizione strategica del forte Scrimia e ne espugnarono la resistenza, ponendo fine ai moti anconetani”.
Questa la testimonianza di Sicurezza pubblica e Corpi Armati (portavoce ufficiale della regia Guardia) del luglio 1920 relativa alla rivolta dei Bersaglieri di Ancona.
L’ ANTEFATTO
Nel 1912, l’Albania diventa indipendente nei mesi in cui il Regno d’Italia, animato dagli appalti Coloniali in Libia e Dodecaneso, si rivolgeva ai giacimenti di nafta e carbone del “Paese delle aquile”. Nell’ottobre del 1914, approfittando del conflitto che aveva impegnato l’impero austro-ungarico, il Regno inviava in Albania un contingente militare che, sbarcato a Valona, penetrava nei territori fino a costituire una sorta di protettorato. Nel 1919, i militari riprendono le operazioni, scatenando la reazione partigiana.
Con il “Patto di Londra firmato segretamente il 26 aprile 1915, l’Italia entra in guerra a fianco di Francia e Inghilterra in cambio di Trento, dell’Istria, di Trieste, parte della Dalmazia e dell’Albania.
Nella primavera del 1919, alla “Conferenza di Pace” di Parigi, con l’assegnazione di Fiume alla Croazia, il Presidente del Consiglio” Vittorio Emanuele Orlando vedeva infrangersi le ambizioni italiane per l’opposizione del Presidente degli USA Wilson.
Il successivo governo di Francesco Saverio Nitti, voleva risanare il bilancio, riduceva drasticamente l’organico dell’Esercito garantendo i servizi essenziali e di Ordine Pubblico. Questi ultimi esponevano le nuove leve alla propaganda fraternizzatrice socialista e anarchica, sagace interprete dei problemi per il difficile momento sociale, che sfociava in una radicale avversione per la guerra e chi l’aveva provocata. Tanto che il governo, dubitando sull’affidabilità dell’esercito, nell’ottobre 1919 ristrutturava radicalmente la polizia, istituendo il Corpo Investigativo e la Regia Guardia per la P.S.
L’XI REGGIMENTO BERSAGLIERI
Nel giugno 1920, la spedizione in Albania chiedeva consistenti rinforzi; al grido “via da Valona” si scatenavano le proteste dei partiti di opposizione al governo. Grido accolto il 10 giugno da partiti e soldati che, supportati da fascisti e nazionalisti, rifiutandosi di salpare da Trieste per l’Albania, venivano alle armi contro altri militari. I socialisti coglievano al volo il momento, proclamando scioperi e manifestazioni per mobilitare la protesta popolare e istigare le truppe all’insubordinazione. L’eco della protesta raggiungeva l’XI reggimento bersaglieri di stanza nella caserma Villarey di Ancona; il successivo 24 giugno, il comando del 33° reggimento bersaglieri del reggimento riceveva l’ordine di salpare dal porto cittadino l’alba del 26 per l’Albania.
La mattina del 25 il comandante radunava i bersaglieri nel cortile della caserma per comunicare la partenza suscitando tra la truppa, desiderosa di tornare alle proprie case, malcelato malumore tanto che alcuni militari maturavano l’idea di scongiurare ad ogni costo la partenza. Approfittando della libera uscita serale, un gruppo di bersaglieri concordavano con la camera del lavoro, le organizzazioni socialiste, anarchiche e repubblicane che l’indomani, al passaggio dei reparti diretti all’imbarcadero, sarebbe inaspettatamente la protesta popolare; altri bersaglieri decidevano che durante la notte si sarebbero ribellati, confidando nel tempestivo sostegno popolare.
LA RIVOLTA
In città, la serata del 25 giugno trascorreva serenamente ma verso le 3 di notte del 26 un pugno di bersaglieri armati irrompeva nel corpo di guardia della Villarey assalendone gli uomini e, ottenuto il controllo dell’ingresso della stessa, svegliati e radunati gli altri commilitoni, restringeva nelle celle di sicurezza i militari refrattari alla ribellione e gli ufficiali. Forzata l’armeria e prese le armi, i rivoltosi posizionavano una mitragliatrice nel cortile puntandola nel portone di ingresso. Tra guida inneggianti alla rivoluzione e spari in aria, altre mitragliatrici venivano poste “a difesa” della Villarey mentre alcuni cittadini, richiamati dal trambusto, si assembravano nei pressi della stessa. L’interruzione delle comunicazioni con la caserma allarmava le forze dell’ordine che allertavano Roma.
Verso le 6 del mattino, la caserma era accerchiata da soldati, Carabinieri e Regie Guardie; alcuni ufficiali dei bersaglieri cercavano inutilmente di parlamentare con i rivoltosi mentre una nave militare salpava per Pesaro per prelevare i rinforzi.
Verso le 8, mentre il questore Scorzone dislocava le forze di polizia lungo le vie di accesso alla città e alla caserma e disponeva alcuni posti di blocco con mitragliatrici, una folla di uomini, donne e bambini inneggiante alla rivoluzione si schierava tra la forza pubblica e il portone della caserma, impedendo qualsiasi iniziativa della questura. Dalla folla si defilavano alcuni giovani che, varcato il portone della Villarey, ne uscivano poco dopo con mitragliatrici e bombe a mano: l’insurrezione popolare era iniziata.
Infine, spalancato il portone, della Villarey sortiva un’autoblindo che si dirigeva verso il porto – verosimilmente per verificare se la sollevazione popolare fosse già in atto – per poi rientrare velocemente; mezz’ora dopo il mezzo usciva nuovamente impegnando lo stesso tragitto trovando però uno sbarramento di carabinieri che, attinti dalle sue mitragliatrici subivano un caduto e tre feriti. Contemporaneamente gli operai del porto proclamavano l’immediato sciopero generale recandosi in massa alla camera del lavoro; scioperi di solidarietà, manifestazioni e scontri con la forza pubblica si accendevano contemporaneamente in altre città. “Astensione del lavoro è generale – telegrafava il prefetto di Ancona – sono avvenuti vari incidenti contro ufficiali isolati che sono stati disarmati […] bisogno rinforzi urgentissimo […] non meno di 1.000 uomini di truppa e non meno di 500 Regie Guardie nonché Regie nave guerra già richiesta”.
Verso le 12, il maggiore Efisio Tolu con un altro ufficiale riusciva a penetrare nella Villarey e a impadronirsi di una mitragliatrice. Rassicurati gli uomini che la partenza era stata revocata, come prova di affidabilità del suo 33°, consentiva ai bersaglieri di prendere parte alla repressione dei moti, mentre altri preferivano unirsi alla popolazione.
LA SOLLEVAZIONE POPOLARE
In città la situazione precipitava; la popolazione, ben armata per aver depredato caserme e militari, impiantava numerose barricate e nidi di fucili lungo le possibili vie d’accesso dei rinforzi. In via Nazionale, l’agente investigativo Luigi Cristallini veniva riconosciuto, percosso e freddato con due colpi di pistola. Addetto nel quartiere degli Archi al servizio informativo-politico, Cristallini subiva la furia popolare; il cadavere esposto per parecchie ore veniva oltraggiato da alcune popolane che sputano, orinano e defecano lasciando un foglio: «Questo è il compenso delle opere pie che hai fatto, mascalzone».
Verso le 2 del pomeriggio, il Questore inviava il commissario di P.S. Pierantonio D’Aria con un manipolo di Regie guardie su un autocarro con mitragliatrice per sgombrare una barricata a Porta Pia, ma un nutrito tiro incrociato colpiva a morte la guardia Sante Fargioni (per il fatto meriterà la Medaglia di bronzo al V. M. alla memoria) e il Commissario, altre due guardie rimanevano ferite. Trenta Regie guardie comandate dal maggiore Giulio Vecchiarelli respingevano un assalto alla Prefettura. In quei muniti, nel porto i colpi di fucileria dei rivoltosi appostati sui tetti delle case ostacolava lo sbarco dei rinforzi giunti da Pesaro e, verso le 16, la popolazione assaltava la Caserma dell’Arma di Borgo Pio uccidendo un carabiniere. Intanto, nel tardo pomeriggio del 26, alla Camera dei Deputati il governo riferiva le ragioni della rivolta; per il Ministro della guerra Bonomi: «Il battaglione dell’XI Bersaglieri doveva lasciare la città per esigenze organiche. Si erano diffuse voci, contrarie alla verità, che fossero destinati in Albania». Il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti dichiarava: «ritengo necessario di rinunciare completamente al proposito, che era stato manifestato in passato, di avere il protettorato sull’Albania» tacendo il motivo della rivolta.
Calata la sera, i rivoltosi assaltavano la caserma dell’’Arma di Piano S. Lazzaro costringendo i militari a resistere fino all’arrivo delle Regie guardie, ostacolate dal tiro di fucileria dagli edifici limitrofi.
Con «Marcia pedestre accelerata dalla caserma di Via Flaminia» (Roma) un Battaglione Regie Guardie (550 poliziotti) raggiungeva la Stazione Termini per partire su un treno speciale per Ancona manovrato dal Genio ferrovieri dell’Esercito. Superati alcuni ostacoli sulla linea nei pressi di Terni, il treno raggiungeva il litorale adriatico protetto da una nave che batteva con l’artiglieria le aree a ridosso dei binari da dove i rivoltosi, al suo passaggio, aprivano il fuoco; nella frazione Borgaccio rimaneva ucciso il tenente Umberto Rolli (Medaglia d’Argento al V. M. alla memoria), tre Regie guardie rimanevano ferite. Verso le 9,30, il convoglio entrava nella Stazione ferroviaria di Ancona occupata dai rivoltosi.
Intanto, i Carabinieri avanzavano quartiere per quartiere, rimuovevano le barricate, rastrellavano le abitazioni con arresti e sequestri. Il battaglione della Regia Guardia di Roma, guadagnata la stazione ferroviaria, puntava su Forte Scrima, difeso da nidi di mitragliatrice che ne spazzavano con tiro incrociato le vie di accesso ma, dopo aspri combattimenti, riusciva a espugnarlo. Durante il 28 giugno, Polizia, Carabinieri ed Esercito, ristabilito l’ordine nel capoluogo, procedevano nei suoi sobborghi con una massiccia battuta a largo raggio fino a soffocare gli ultimi lampi della sollevazione popolare. Oltre alle Marche (soprattutto Jesi, Osimo, Tolentino, Macerata, Fabriano e Pesaro), altri scontri si accendevano nelle vicine Umbria e Romagna: il 26 giugno a Cesena, l’agente investigativo Gennaro Gigli moriva pugnalato da un anarchico.
A Jesi si ripete il copione: sciopero generale, assalto a presidi militari e di polizia, interruzione delle comunicazioni, asportazione di armi, barricate, scontri a fuoco.
Il 29 giugno, le Regie guardie al comando del maggiore Ettore Fulgenzi, di rinforzo da Venezia, subivano la fucileria dai tetti delle case; cadeva la guardia Eugenio Masotto.
A Pesaro i rivoltosi assaltavano una polveriera – faticosamente riconquistata dai Carabinieri – e una caserma: un morto e due feriti. Al colonnello dell’esercito Trapani, che aveva ordinato di fare fuoco, i rivoltosi incendiavano l’abitazione con, all ‘interno, i familiari, che a stento riuscivano a salvarsi. Le cento Regie guardie giunte in città di rinforzo da Ancona, dopo numerosi scontri a fuoco, ristabilivano l’ordine pubblico.
EPILOGO
Giolitti, sollecitato dalle opposizioni, presa a pretesto la rivolta di Ancona per non perdere la faccia, firmava un concordato con Tirana con cui rinunciava al protettorato abbandonando Valona in cambio dell’isola di Saseno e dello sfruttamento di alcuni giacimenti.
Nel “Processo Villarey”, celebratosi nel febbraio 1921, la Corte d’Assise di Ancona condannava 13 soldati con pene mitissime e nessun civile. Alle ragioni della legge prevaleva il timore di esacerbare gli animi e di nuove rivolte ma, per cancellare il disonore, I’XI Bersaglieri era frettolosamente trasferito a Cormons (Udine). Il Maggiore bersagliere Efisio Tolu, sebbene avesse ripristinato l’ordine nella Villarey, poiché accusato di scarsa iniziativa, volendo sottrarsi a un ambiente divenuto ostile, transitava nella Regia Guardia per la P.S..
La rivolta aveva visto cadere sul campo 26 uomini (11 tra la Forza pubblica) e 79 feriti (11 tra Polizia e Carabinieri) ma decine di insorti non erano ricorsi agli ospedali per evitare la denuncia.
Bibliografia
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L’articolo trae spunto dall’elaborato del Socio ANPS Massimo Gay, La Regia Guardia e la ribellione dei bersaglieri ad Ancona nel 1920, in Ufficio Storico della Polizia di Stato – Il Corpo della Regia Guardia per la P.S. (a cura di Raffaele Camposano), Roma, 2020 (www.poliziadistato.it).