(La follia della croce)
di Giuseppe Lalli
Questi nostri tempi dolciastri e ipocriti rifuggono da tutto ciò che è profondo e veramente impegnativo: va bene l’albero, va ancora bene il presepe, va bene il nordico Babbo Natale e la più mediterranea Befana che portano i doni, ma una gioia con le radici a forma di croce, quella che il vecchio Simeone annuncia a Maria già il giorno della presentazione al tempio del bimbo appena nato, quella proprio no, quella è scandalosa, in fondo non è stata mai di moda. Anzi il dolore e la morte dovranno essere banditi per sempre, non fanno parte della coreografia a reti unificate in onda da mattina a sera.
Per poco che ci fermiamo a riflettere sulle accattivanti iconografie di certe chiese, così compatibili con le luminarie e gli addobbi delle nostre città, sentiamo, per reazione, crescere dentro di noi il bisogno di un Cristo che si possa toccare con mano, che ci possa parlare ogni giorno, nel luogo di lavoro, in famiglia, e persino con gli amici: un Cristo virile, fuori delle rappresentazioni zuccherose e liriche che ci portiamo dietro dall’infanzia; un Cristo non astratto, ma in carne e nervi, più fisico che metafisico; un Cristo integrale per uomini che lo vogliano prendere sul serio in ogni momento della loro vita.
Gesù di Nazareth, il figlio di Maria, non l’icona sdolcinata che ammiriamo nelle chiese, è il più grandioso paradosso della storia. Anche il non credente dovrà convenirne. Vive fino a trent’anni, cioè per quasi tutta la vita, in un oscuro villaggio di una remota regione dell’impero romano, alieno da ogni contatto con il mondo e la società che conta, privo di ricchezze, di cultura accademica, di legami politici, forse anche di carisma estetico. Si circonda di povera gente: pescatori e contadini tra i quali sceglie i suoi seguaci. Va alla ricerca non di potenti che lo possano aiutare, ma dei reietti della società: odiati esattori delle tasse e donne di malaffare.
Nei suoi tre anni di vita pubblica predica una dottrina che non ha nulla a che fare né con la politica né con la filosofia: armi dialettiche potenti per chiunque avesse voluto instaurare un nuovo ordine sociale. Parla solo di religione e di morale, fa appello ad un cambiamento interiore.
Tutta la storia, quella che conta, quella scritta nei libri di scuola, è la glorificazione della forza bruta, è la cronaca della sopraffazione dei forti contro i deboli, è volontà di potenza che si ammanta col vestito ipocrita della “missione da compiere”, “il prestigio da difendere”, “la minaccia da sventare”, come le tristi cronache di questi nostri giorni ci ripropongono. Che cosa è stato l’impero romano se non l’epopea della forza? Che cosa è L’Iliade se non il poema della forza? “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto” ammonisce Alessandro Manzoni nell’Adelchi. La stessa ferocia domina, insieme alla bellezza, la natura, dove il forte leone insegue l’inerme cerbiatto e lo sbrana.
Al di là di ogni pur inevitabile gerarchia e forma terrena, sono gli ultimi, in senso sociale e in senso spirituale, i veri depositari della dottrina di Cristo. Il Vangelo è un guanto rigirato, una verità nascosta ai grandi e rivelata ai piccoli, una rivoluzione permanente, di quelle che attraversano i sotterranei della storia, e così sarà fino alla fine del mondo. È la dottrina dell’amore gratuito (la più grande rivoluzione che l’umanità abbia conosciuto, come riconosceva il “laico” Benedetto Croce); è “la follia della croce”, sapienza superiore ad ogni sapienza, come scriveva quell’uomo folgorato sulla via di Damasco. La predicazione di Gesù è un’opposizione permanente allo spirito del mondo che nessun aggiornamento linguistico potrà mai cancellare: il nemico va amato, l’operaio dell’ultima ora riceve la stessa paga di quello della prima, e il padre accoglie con gioia, uccidendo in suo onore il vitello più grasso, il figlio ingrato che fa ritorno a casa pentito dopo aver sperperato con le prostitute la sua parte di eredità. Perché l’amore di Dio non conosce limite e misura umana: all’infinito non si può togliere o aggiungere nulla.
A partire da quella stalla di Betlemme e da quella croce di Gerusalemme, saranno i piccoli, i rifiutati, i reietti, i diseredati, i tribolati di ogni epoca, gli autentici maestri, i titolari della più alta cattedra di filosofia. I sapienti del mondo ne potranno essere tuttalpiù i portavoce. I santi, quando non erano piccoli in senso anagrafico, erano adulti che si sono fatti bambini. Bernadette, che al tempo delle apparizioni una era una ragazzina analfabeta che sapeva esprimersi solo nel dialetto del suo paese, a chi le chiedeva perché mai la Madonna fosse apparsa proprio a lei, rispondeva, con disarmante semplicità ma con evangelica saggezza, che se la Vergine avesse trovato una più ignorante di lei l’avrebbe scelta al posto suo.
Un cristiano del nostro tempo, Don Tonino Bello, amava ripetere che l’unico paramento sacro che Gesù ha usato è il grembiule (“la parnanza”, come si dice in Abruzzo) indossato la sera del Giovedì Santo, nell’Ultima Cena, per lavare i piedi dei suoi discepoli, cioè per servire i fratelli.
La dottrina di Gesù è il rovesciamento della logica umana, la pietra dello scandalo. C’è mistero più grande di quello di un Dio che si fa uomo? E più incomprensibile in questo nostro tempo in cui ciascun uomo vuol sembrare Dio per l’altro? E c’è favola più bella di quella per cui una sola creatura, fosse anche l’ultima della terra, possa valere tutto il sangue di Dio? Il Dio di Gesù Cristo, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, sa contare fino ad uno.
Ma per farci amici del mistero dobbiamo camminare con lo sguardo rivolto in alto, come quegli strani personaggi, metà re metà filosofi, che, venuti dall’Oriente sulla scia di una stella più lucente delle altre, credevano di trovare un re e videro un bambino deposto in una mangiatoia.
Per quel bimbo, una volta fatto adulto, una sola vita di un appestato, come per quel figlio di un ricco mercante di Assisi, sarebbe valsa tutto il sangue versato sulla croce.
La vera anima cristiana, dietro quel bambinello in fasce dalle guancette rosee che si bacia la sera del 6 gennaio (che non a caso il popolo chiamava “Pasquetta”) ha sempre visto l’ombra della croce. Quella croce che preferiamo rimuovere ma che, paradossalmente, rimane, anche alle sole viste umane, la chiave di lettura più convincente della vicenda umana, collettiva e individuale: la sola luce in grado di fendere il buio fitto del dolore di cui, prima o poi, facciamo tutti esperienza.
Per comprendere la lezione della Pasqua cristiana bisogna tornare al presepe, e farsi bambini come quel Bambino.
Il Vangelo è la bella notizia, il programma della gioia, ma essa, finché camminiamo sui sentieri della vita terrena, avrà sempre le radici a forma di croce.