L’analisi di Carlo Jean
Tratto da Start Magazine online
Newsletters del 8/06/2022
Le forze russe stanno completando faticosamente la conquista del Donbass. Hanno compiuto il “ponte terrestre” con la Crimea e occupato la costiera del Mar Nero fino a Kherson. Combattono aspramente a Mykolaiv, posizione strategica per attaccare Odessa e per realizzare un “ponte” con la Transnistria, e verso Zaporizhzhia. Le forze russe dispongono di enormi quantità di armi e munizioni. Hanno subito forti perdite. A differenza degli ucraini, non le possono rimpiazzare. È questa la loro maggiore vulnerabilità.
Putin non può dichiarare la mobilitazione generale e trasformare la sua “operazione militare speciale” in una “guerra di popolo”, senza dichiarare l’insuccesso della prima. Un autocrate come lui non può ammettere una sconfitta strategica di fronte ai suoi e alla sua opinione pubblica, senza perdere la faccia (nel mondo l’ha già perduta). Perde il suo potere. Forse il posto e la vita.
Il morale degli ucraini tiene bene, malgrado i bombardamenti delle città e le forti perdite delle loro forze armate: dall’inizio dell’offensiva nel Donbass circa 100 caduti e 400 feriti al giorno. Finora il blocco occidentale, che fornisce armi all’Ucraina resta saldo, anche se in Europa si avvertono segni di stanchezza. Stanno affluendo artiglierie a lunga gittata, in grado di controbattere la potenza di fuoco su cui si basa la superiorità militare russa. Solo il nostrano “Napoleone del Gargano” ha l’ardire di affermare che agli ucraini non servono altre armi. Anzi, ne avrebbero già troppe. Per carità di Patria, lasciamo perdere. Nella sua ansia di guadagnare qualche voto non si è neppure accorto che alimenta le uniche speranze rimaste a Putin: che cioè si sfasci la coalizione che sostiene la resistenza ucraina.
Le sanzioni incominciano a mordere. Che le cose non vadano come Putin si aspettava è dimostrato dalla rimozione di generali e di consiglieri. Il presidente russo è prigioniero di sé stesso. Si trova confrontato con un difficile dilemma. Potrebbe dichiarare vittoria, tenersi il Donbass e sedersi al tavolo delle trattative, usando forse come “merce di scambio” con gli ucraini i territori conquistati negli Oblast di Kherson e di Zaporizhzhia. Oppure potrebbe tener duro e continuare, sperando che l’Ucraina rimanga isolata. Potrebbe rimanerlo, se Donald Trump venisse rieletto nelle presidenziali americane di fine 2024.
A parer mio, Putin sceglierà la seconda soluzione. In ogni caso, sono persuaso che gli ucraini non potranno scegliere la prima. A parte la cessione di ampi territori, per accettare pretenderebbero una garanzia Usa alla loro sicurezza. Essa è inaccettabile per Putin. Significherebbe l’entrata dell’Ucraina nella Nato, per la finestra anziché per la porta. In caso di disimpegno, anche parziale degli Usa, agli ucraini non resterebbe altra scelta che continuare a combattere attuando la strategia della “guerra di guerriglia”, a cui stanno preparandosi da anni, anche a costo di far distruggere l’Ucraina.
Pochi in Italia pensano che Putin non sia mai stato interessato ad annettersi qualche pezzo di Ucraina e a proteggere i cittadini russofoni. Non può rinunciare ad averla tutta. L’esistenza di un ridotto Stato ucraino, amputato di qualche provincia e la cui sicurezza sia garantita internazionalmente, cioè dagli Usa, è incompatibile con il suo regime. Una “piccola Ucraina” sarebbe sempre più antirussa, democratica e occidentalizzata. Si svilupperebbe economicamente e socialmente più delle regioni conquistate dalla Russia. Avrebbe effetti destabilizzanti sul regime autocratico di Mosca e di Minsk. Indebolirebbe la “verticale del potere” teorizzata da Surkov, o “democrazia autoritaria” – come dice Putin – o “regime cleptocratico”, come forse sarebbe più realistico chiamarla. Infatti, le “visioni mistiche” della “Madre Russia”, “Terza Roma” destinata a salvare il mondo dal materialismo, potrebbero essere solo una “foglia di fico” per nascondere il saccheggio delle ricchezze russe da parte degli oligarchi e dei siloviki, saldamente il potere al Cremlino.
Una prova di quanto abbiamo sopra sostenuto sulle probabili scelte di Putin è che il mutamento della sua politica verso l’Occidente è stato causato, non tanto dal rischio che l’Ucraina entrasse nella Nato (sa che nessuno è tanto folle d’andare ad attaccare uno Stato con 5.000 testate nucleari), ma dalla sua europeizzazione, evidente dalle rivoluzioni “Arancione” ed “Euro-Maidan”. Putin non può transigere sull’obiettivo di “de-nazificare”, cioè “de-occidentalizzare” e assimilare l’Ucraina nella “Grande Madre Russia”. Non può ritirarsi senza mettere in gioco il suo potere. Forse, ma non ne sono tanto sicuro, potrebbe accettare una tregua temporanea sulla linea raggiunta dalle sue truppe, in attesa che si determinino le condizioni per riprendere l’avanzata verso i suoi veri obiettivi. Essi rimangono quelli iniziali, come la Zakharova si sforzava di spiegare al volonteroso – ma per lei sprovveduto – Giletti, che insisteva nel chiederle quale cessione di territori ucraini sarebbe stata sufficiente per indurre Putin a iniziare trattative, che è politicamente corretto chiamare “di pace”, anche se a parer mio oggi – e forse anche domani – finirebbero a insulti e botte.
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