RIFLESSIONI SUI MOTI AQUILANI , 26-28 FEBBRAIO 1971.

23 Aprile 2022
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di Enrico Cavalli

Enrico Cavalli

È già da tempo caduto il”veto”dei 50 anni per la consultabilità”in toto”dei documenti d’archivio, relativi ai”Moti Aquilani” del 26-28 febbraio 1971.

Dalle”carte interminate”di istituzioni centrali e periferiche, potranno trapelare circostanze inusitate rispetto alla lettura dominante di quello spartiacque per la storia municipale; finora, al di là della congerie di articoli, abbiamo una qualche messe di libri in argomento, e, radi, sebbene, meritevoli, quelli realizzati da autori locali.

I ”Moti Aquilani”, in ordine al timore di perdere il titolo di capoluogo regionale, diversamente, da quelli di segno opposto pescaresi ed antecedenti all’estate 1970 (un aereo leggero partito dalla città adriatica ed in evocazione dannunziana lancia volantini a L’Aquila, inneggianti al ”Boia chi Molla” ed alla “Battaglia Futura”), similmente a quelli di Reggio Calabria (durati sei mesi) sono stati giudicati ”tout court” come campanilistici e di retroguardia in raffronto alle contemporanee ”lotte politiche”, sebbene, vi siano l’ interclassismo e spontaneismo (un drappo ‘rossoblù’ sventolò a ’capo piazza’!), superanti i” comitati civici”, in nome di una sorta di  “antipolitica”, e, verso cui c’erano sentimenti frammisti di “diffidenza” e ”disorientamento” da parte della ”grande politica”.

Quella agitazione aquilana ha un antefatto nel 1963, per il ristabilimento dell’Università chiusa nel’23, al netto degli studenti che in bicicletta compirono una “marcia su Roma”; anzi, nel’65, in città, alla ipotesi che la sede accademica abruzzese vada a Pescara o Chieti, ecco spuntare cortei e barricate che già sfuggivano alle forze partitiche, come si diceva allora dell’”arco costituzionale”; se non capeggiano i moti di rivolta sociale a sfondo campanilista, si struggono i benpensanti non adusi a comprendere che è “in re ipsa” tale loro scavalcamento da parte della massa non rifuggente dal tema identitario.

 A livello di coscienza collettiva, gli aquilani, vedevano rimessa in discussione, la  secolare” primazia regionale”, dopo le ”spoliazioni provinciali” del regio decreto n.1 del 2 gennaio 1927 e che si tentò di ”compensare” creando il “grande comune”, sicché, il cambiamento delle gerarchie territoriali negli Abruzzi (sic art., 117 della Costituzione che non rende la ”reductio ad unum”),”spiegava”, la reazione aquilana nei riguardi delle locali rappresentanze partitiche che non difesero il ”Capoluogo”.

Fra i temi da approfondire” carte alla mano”: la proposta dell’esponente DC., Luciano Fabiani (la cui abitazione venne assalita durante i ”Moti”) per un’alternativa ”Regione Sabina”, cioè, l’accorpamento delle province dell’Aquila e di quella di Rieti comprensiva dell’ex Cittaducale se sotteso a ricongiungersi alla “terra madre” dal 1927; l’atteggiamento di alcuni centri annessi alla Grande Aquila da cui, per un verso vollero staccarsi, dall’altro, l’appoggiarono rispetto a Pescara (che oggi vira per un ”grande comune ”rivierasco), che in caso di ”secessionismo” aquilano avrebbe avuto altri argomenti a favore; il contegno ibrido di quei centri aggregati a L’Aquila, si poteva riscontrare ad Avezzano e Sulmona, entrambi, titubanti se indebolire il capoluogo abruzzese” in pectore” o sostenerlo, a patto di distaccamenti amministrativi se non della concessione della provincia.

Tra gli osservatori nazionali dei ” fatti per il capoluogo”: Giorgio Bocca, che vi intravide la consapevolezza di una decadenza cittadina e borghese; Egidio Sterpa, che ravvisò un senso di attaccamento ad una storia identitaria e quasi in rifiuto della ”globalizzazione”.

La sensazione che L’Aquila penalizzata sia e che la popolazione ne reclami i diritti alla stregua delle richieste dell’”autunno caldo”, emerge in qualche ”think tank” progressista, solo a rivolta avvenuta.

La politica locale che vive di rendita sulle realizzazioni tra le due guerre mondiali e sui benefici della Ricostruzione, se il “miracolo economico” non viene governato, viene sollecitata dalla popolazione a “fare” e “dare”; se il sistema dei partiti, va giustificato dal timore di cadere in autoritarismi, quindi, poco importa la degenerazione del “compromesso storico ”sanabile dall’ultima modernizzazione italiana negli anni’80, che rimanda i problemi strutturali ai decenni successivi: L’Ente Regione porta seco pure i vizi della partitocrazia con le undicimila ASL., e, ad esempio, la Calabria al 50’dai suoi moti celebra undici anni di commissariamento sanitario e quattro direzioni saltate in pochi mesi.

 L’Aquila, simboleggiava la città del centro meridione che oltre le dinamiche dell’economia pubblica, sfidava le nuove ed antiche capitali italiane, sviluppando l’autonomia nella veicolazione di fenomeni culturali, dalle avanguardie artistiche all’Università.

 I ”Moti aquilani” del 26-28 febbraio 1971, cadono allo ”snodo” della Repubblica che ha dietro il venticinquennio dalla seconda guerra mondiale e dal fascismo, e, davanti, quello della fine delle ideologie e dell’anti partitocrazia che può avere radici in rivolte popolari “spurie”, e, che invece, hanno dignità al pari delle lotte ”sociali”, storiograficamente parlando: il giudizio complessivo sulle ”tre giornate” del capoluogo abruzzese e dei suoi esiti, forse, potrà dipanarsi dall’approfondimento archivistico. di Enrico Cavalli

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