Il caso degli Internati Militari Italiani (IMI) nei campi di prigionia in Germania
di Goffredo Palmerini
L’AQUILA – Quando si parla di Resistenza al nazifascismo il primo riferimento corre subito alla lotta armata condotta dai gruppi delle varie brigate partigiane, coordinate dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Oppure a quei reparti dell’Esercito italiano che dopo l’armistizio dell’8 settembre – pur in mancanza di ordini dal Comando generale, in fuga con il Re verso Brindisi – scelsero di combattere invece di cedere le armi ai tedeschi, come accadde a Cefalonia e nei Balcani, a Roma e in Corsica. O come il caso singolare della Brigata Maiella, nata in Abruzzo nel dicembre del 1943 per iniziativa di Ettore Troilo, bande partigiane che in coordinamento con l’esercito inglese tramite il maggiore Lionel Wigram, nel febbraio ’44 diventarono un vero e proprio reparto militare inquadrato nell’VIII Armata britannica, vestendo divisa inglese e con la bandiera italiana senza stemma sabaudo. Operò insieme ai contingenti militari Alleati dal dicembre ’43 all’aprile del 1945, combattendo eroicamente in Abruzzo, Marche, Romagna e Veneto. Fu l’unico reparto italiano della Resistenza decorato di Medaglia d’oro al valor militare. Accanto alle formazioni partigiane, impegnate nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti della Repubblica Sociale, fu rilevante anche il contributo di chi, a costo della vita, collaborò in vario modo con i partigiani, dando loro sostegno e assistenza logistica, oppure operando, come avvenne in Abruzzo, una resistenza umanitaria in soccorso ad ebrei, a militari italiani che dopo l’armistizio tentavano di raggiungere gli Alleati oltre il fronte tedesco sulla linea Gustav e a molti ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia, tutti aiutati a raggiungere Casoli da Sulmona attraverso le asperità della Maiella. Una resistenza umanitaria che ha scritto, al pari della lotta armata, altre pagine eroiche della nostra Resistenza.
C’è infine un’altra Resistenza, nota agli storici e agli studiosi, ma che sfugge alla conoscenza dei più nelle sue dimensioni e nelle sue tragiche particolarità, combattuta nei lager nazisti dai militari italiani prigionieri dei tedeschi dopo l’8 settembre. E’ la storia di oltre 600mila “internati militari italiani” (IMI) nei famigerati Stalag della Germania nazista: soldati, sottufficiali e ufficiali che opposero il loro rifiuto a combattere nell’esercito tedesco o con i repubblichini di Salò, subendo così indicibili sofferenze e in diverse migliaia andando incontro alla morte per fame, stenti e malattie. Oltre cento questi campi di prigionia (stalag), la gran parte situati in Germania e Polonia, ma anche in Austria, Russia, Ucraina, Bielorussia, Francia e Slovenia. Vennero considerati in un primo momento prigionieri di guerra, poi il loro status cambiò in “internati militari” che non riconosceva loro le garanzie della Convenzione di Ginevra. Infine, dall’autunno ‘44 alla fine della guerra, furono utilizzati come manodopera coatta, senza le tutele della Croce Rossa loro spettanti, nei campi, nelle fattorie e nelle industrie belliche, dove moltissimi persero la vita per le disumane condizioni di lavoro. Di questi “resistenti” l’Italia nata dalla Resistenza non ha mostrato un grande interesse, sia dal punto di vista storico, sia sul piano politico e morale. E se è vero, per un verso, che la Repubblica nata dalla lotta di Liberazione ha reso il doveroso riconoscimento ai Partigiani combattenti in armi, dall’altro non è stata altrettanto magnanima con gli altri “patrioti” della Resistenza, in particolare verso gli internati militari italiani deportati in Germania che per quasi due anni – con dignità e senso del dovere – diedero prova di amor patrio subendone le durissime conseguenze. Fatto sta che tale ingente fenomeno resistenziale al nazifascismo, che interessò oltre 600 mila internati militari italiani nei campi di prigionia della Germania nazista, è rimasto marginale e trascurato, sia dal punto di vista storiografico che istituzionale, per oltre mezzo secolo. La questione è rimasta viva solo attraverso le testimonianze degli ex internati nei campi di prigionia e le iniziative delle loro associazioni.
Infatti, solo nel 2009 Italia e Germania hanno finalmente provveduto ad una significativa ricognizione storica degli anni di guerra tra il 1943 e il 1945, tra italiani e tedeschi, con una puntuale ricerca sugli internati militari italiani (IMI). La ricerca, realizzata da una Commissione storica italo-tedesca, insediata il 28 marzo 2009 dai Ministeri degli Esteri di Italia e Germania, presieduta dall’italiano Mariano Gabriele e dal tedesco Wolfgang Schieder, si è conclusa nel luglio 2012 con un importante Rapporto consegnato all’attenzione della storia. “[…] Al termine del rapporto la Commissione formula una serie di suggerimenti, la cui realizzazione esula dalle sue competenze. Perciò essa si appella esplicitamente ai responsabili politici d’Italia e Germania affinché essi prendano in seria considerazione queste proposte e si adoperino per realizzarle nel più breve tempo possibile. Ciò vale soprattutto per la costruzione, a Berlino, di un memoriale per gli oltre 600.000 internati militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, il cui triste destino collettivo è stato fino ad oggi ampiamente dimenticato.”, così concludono nella presentazione del documento i due Presidenti della Commissione, Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder.
Ora, le numerose fonti rinvenute dalla Commissione possono davvero aprire nuove e interessanti prospettive di ricerca sul fenomeno degli “internati militari italiani”. Si legge tra l’altro nel citato Rapporto, in apertura della parte dedicata agli IMI: “Sebbene gli internati militari italiani siano stati particolarmente colpiti dal regime nazionalsocialista e dal complesso passato di guerra italo-tedesco, dopo il 1945 il loro destino è stato completamente dimenticato. In Italia essi sono stati per lungo tempo messi in secondo piano dalla memoria della Resistenza. Nella Repubblica Federale Tedesca la leggenda della ‘Wehrmacht pulita’ portò a negare i crimini di cui essa si rese colpevole nei confronti della popolazione civile italiana e della minoranza ebraica, così come dei prigionieri dei campi di concentramento e degli internati militari italiani. […]”. Fu soltanto a partire dagli anni ‘80 che in Italia e in Germania la storiografia cominciò ad occuparsi di questo problema. Nonostante il ritardo con cui la ricerca è cominciata, molti aspetti centrali di questa tematica – il disarmo e l’arresto degli internati militari italiani, i tentativi di reclutamento nelle formazioni tedesche così come nell’esercito fascista della Repubblica Sociale Italiana, le loro condizioni di vita e di lavoro durante la prigionia tedesca – possono considerarsi solo oggi adeguatamente indagati e studiati. L’approccio storico sulle varie esperienze resistenziali schiude finalmente una nuova prospettiva di ricerca anche sull’ampio spettro delle condizioni di vita degli internati militari italiani, indica nuovi modelli di spiegazione oltre le narrazioni irrigidite in Italia e in Germania e contribuisce all’indagine di aspetti fino a questo momento trascurati.
Dopo l’8 settembre 1943 – si riferisce inoltre nel Rapporto – deposero le armi circa 1.007.000 di militari delle forze armate italiane. Il numero di soldati italiani che furono prigionieri dei tedeschi si aggira intorno ai 725.000, secondo lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco, e intorno agli 810.000 secondo le più affidabili stime dello storico Gerhard Schreiber. Chi non riuscì a fuggire dovette decidere se restare fedele al giuramento fatto al Re o se continuare a combattere a fianco della RSI e della Germania. Coloro che si rifiutarono – si parla di circa 600/650.000 militari italiani – furono deportati dalla Wehrmacht nei campi di prigionia del Terzo Reich. Poiché nei campi proseguiva il reclutamento di volontari per la Wehrmacht e le SS, così come per il nuovo esercito della RSI, furono 197mila, secondo Claudio Sommaruga, gli ufficiali e i soldati che decisero di continuare la guerra al fianco di Hitler e Mussolini. Il 1° febbraio 1944, tra coloro che operarono resistenza e rifiutarono l’adesione alla RSI e alla collaborazione con la Germania nazista, secondo le stime della Wehrmacht, si contavano 24.400 ufficiali, 23.002 sottufficiali e 546.600 soldati. A questi erano poi da aggiungere circa 8.500 internati militari impiegati come forza lavoro sul fronte orientale.
Incerto è il numero dei soldati, dei sottufficiali e degli ufficiali italiani che persero la vita dopo l’8 settembre 1943, sia durante il disarmo, sia durante la prigionia tedesca. Il numero dei morti ammonta a circa 50.000, quello dei dispersi a più di 10.000. In conseguenza del brutale modo di procedere della Wehrmacht, durante le operazioni di disarmo morirono circa 26.000 soldati italiani, per lo più nell’ex Jugoslavia e in Grecia: 6.500 persero la vita in battaglia, 6.000/6.500 furono uccisi perché cercarono di opporre resistenza e più di 13.000 annegarono su navi colate a picco perché bombardate o a causa del sovraffollamento. Circa 5.200 furono i dispersi. Quasi 25.000 internati militari persero la vita nei campi di prigionia a causa delle privazioni, della malnutrizione e delle dure condizioni di lavoro. Il maggior numero di vittime si ebbero nelle grandi industrie tedesche addette alla produzione di armamenti. Sconosciuto infine è il destino di altri 5.000 internati militari, le cui tracce si sono perse nei vari lager. Con la sconfitta dei tedeschi, dopo il maggio 1945 il ritorno a casa degli internati militari viene ricordato da ciascun reduce con grande commozione. Tuttavia molti di loro incontrarono difficoltà non indifferenti nel reinserimento nella società italiana. Il panorama politico e sociale era completamente cambiato. Mentre i partigiani che avevano combattuto la Resistenza godevano nella società italiana del dopoguerra di una considerazione pari a quella riservata due decenni prima ai soldati della prima guerra mondiale, celebrati come i vincitori sul nazifascismo, i prigionieri che rientravano dalla Germania incarnavano invece la disfatta dell’8 settembre, in un immaginario non ancora superato. Ciò che i reduci ex internati trovavano particolarmente offensivo erano lo scetticismo e il sospetto di collaborazionismo, una situazione durata qualche decennio, proprio in assenza di quella conoscenza storica su questa particolare resistenza al nazifascismo che deve finalmente avere pari dignità nella Storia della Resistenza, avendo essa stessa contribuito all’edificazione dell’Italia repubblicana, libera e democratica.
Finalmente, il 19 novembre 1997, con il conferimento della Medaglia d’oro al valor militare all’Internato Ignoto,l’Italia rese agli ex IMI il doveroso riconoscimento, con una motivazione che fa giustizia del mezzo secolo di trascuratezza nella memoria: «Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui valore ancora oggi è esempio di redenzione per l’Italia».