di Andrea Cionci (*)
Articolo tratto da www.liberoquotidiano.it al seguente link:
29 ottobre 2021
Per adesso, il Centenario della traslazione e tumulazione del Milite Ignoto è quasi del tutto oscurato mediaticamente da un evento come il G 20: il rapporto di proporzione storica, valoriale, morale ed estetica che intercorre tra i due eventi è fornito in modo plastico dal raffronto architettonico fra le sedi romane ospitanti: da un lato il Vittoriano, dall’altro la “Nuvola di Fuksas”.
Non c’è altro da dire. Cercheremo quindi, in queste righe, di raccontarvi un po’ di verità su una pagina del nostro passato largamente mistificata dalla storiografia – anche recente – come la nostra guerra mondiale VITTORIOSA. Dobbiamo sottolinearlo, a costo di indulgere per un attimo in un afflato “retorico”, perché se chiedete ai nostri ragazzi chi ha vinto il Primo conflitto mondiale, nella maggioranza dei casi vi risponderanno che “l’abbiamo persa”. Tanto per fornire un’ idea sul masochismo culturale italiano, di ovvia matrice politica, basti pensare che su Caporetto sono stati pubblicati circa 200 libri contro i 15 dedicati alla vittoria finale di Vittorio Veneto.
I luoghi comuni ormai sedimentati nella pur scarsa coscienza collettiva di quel conflitto annoverano i soliti “ufficiali ottusi e incompetenti che mandavano inutilmente a morire i loro uomini; diserzioni di massa e fucilazioni spietate; Caporetto archetipo universale della disfatta” …
A un’analisi adulta e distaccata dei dati e dei documenti, emerge una realtà ben più complessa, in molti casi del tutto opposta. In pochi sanno, ad esempio, che l’Esercito italiano, fu l’unico, tra quelli dell’Intesa, a rimanere costantemente all’offensiva fin dall’inizio della guerra. Ancor meno noto, il fatto che il Regio esercito produsse le maggiori conquiste territoriali, così come si ignora che i Caduti italiani (c.a 600.000) furono meno di quelli francesi (1.397.800), russi (c.a 2.000.000), britannici (886.939), tedeschi (2.050.897) , austro-ungheresi (1.100.000), considerando anche l’entrata in guerra un anno dopo.
I danni culturali maggiori alla nostra memoria eroica sono stati prodotti da un film su tutti: «Uomini contro» (1970) del regista comunista e dichiaratamente antimilitarista Francesco Rosi che, a sua volta, riportò su pellicola il romanzo «Un anno sull’altipiano» di Emilio Lussu, un antifascista che nel 1936 prese parte alla Guerra civile spagnola, nel fronte antifranchista e, dopo l’8 settembre ’43, passò nelle file della Resistenza. Fu proprio nel ’36, al ritorno dalla Spagna, che – dietro invito del socialista Gaetano Salvemini – scrisse il suo libro più famoso. Non un diario di guerra scritto a caldo, dunque, ma un romanzo steso ben 18 anni dopo la fine del conflitto che per sua stessa ammissione, era un testamento politico scritto contro il regime.
Facendo salvo il loro valore artistico, «Un anno sull’altipiano» e la sua trasposizione cinematografica «Uomini contro» restituiscono, in buona parte, un ideologico “condensato di atrocità” permeato da una visione emotiva dai chiari intenti propagandistici, piuttosto che un panorama (anche statisticamente) obiettivo di ciò che fu la Grande Guerra per i soldati italiani.
Ad esempio, se, nel film, le scene relative ai disertori fucilati commuovono chiunque, è necessario sottolineare che le condanne emesse dai tribunali militari, stando ai numeri ufficiali, furono appena 750 su circa 5 milioni di uomini in armi, un dato che rivela il basso tasso di criminalità dell’Esercito Italiano. Fra queste condanne capitali, oltre alle imputazioni relative alla codardia di fronte al nemico, ve ne furono anche altre per crimini comuni.
Per quanto riguarda i fucilati spiega Davide Zendri, del Museo Storico Italiano della Guerra di Trento – il nostro istituto ha promosso un convegno: i soldati del Regio Esercito, nella stragrande maggioranza dei casi fecero sempre il loro dovere. Quanto alle condanne capitali, in altri eserciti alleati, come in quello francese, se ne comminarono grossomodo altrettante».
E’ pur vero che nel Regio esercito vigeva una severa disciplina, ma questo era dovuto a fattori che ne imponevano necessariamente l’adozione considerando il pericolo mortale che correva il Regno d’Italia, non solo per la guerra, ma anche perché il Paese, da poco unificato, era percorso da fermenti socialisti che ne minavano la coesione. Inoltre, il basso livello socio-culturale della truppa, formata per la maggior parte da contadini (che, pure, furono alfabetizzati dalle scuole reggimentali) richiedeva l’applicazione di regole chiarissime, con sanzioni dal forte potere deterrente.
Bisogna considerare che le insubordinazioni e le diserzioni avrebbero potuto compromettere la sopravvivenza dell’intera macchina militare italiana, quindi non è corretto giudicare con la sensibilità odierna quel particolare ed emergenziale contesto storico né tantomeno, senza la consapevolezza tecnico-militare necessaria.
Un’altra serie di cliché riguarda il generale Luigi Cadorna, maresciallo d’Italia e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal luglio del ’14 al novembre del ’17.
Al Pentagono è ritenuto uno dei più grandi strateghi militari del ‘900, i comandanti nemici di allora lo consideravano un leone, ma da noi viene visto come una specie di macellaio. Un dato su tutti riporta la giusta temperatura: le condanne a morte per diserzione comminate sotto il suo comando furono inferiori – proporzionalmente alla durata dell’incarico – a quelle comminate sotto il suo successore, Maresciallo Diaz.
In ogni caso, le fucilazioni dei disertori e degli ammutinati non possono essere imputate ai Comandanti supremi, in quanto furono decretate dai tribunali militari dopo regolari processi.
Quindi, per favore, basta con questa leggenda nera del “Cadorna-boia”, così come deve finire quella del Cadorna “incompetente, ancorato a visioni militari ottocentesche che mandò al massacro i nostri militari e, dopo la disfatta, si scaricò dalle responsabilità dando la colpa ai soldati”.
Per risparmiare vite umane, Cadorna ribadì con nuove circolari alla “Libretta rossa” come fosse necessario avvicinarsi al nemico velocemente e a sbalzi, o con lo scavo di gallerie, trincee o movimenti notturni. Soprattutto, creò gli Arditi, antenati delle nostre Forze Speciali che sbloccarono la stasi della guerra di trincea.
A proposito, quella che è passata alla storia col nome di “libretta rossa” era un’istruzione generica diramata dal Gen. Cadorna nel 1915 dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”. Conteneva dei precetti estremamente moderni e adeguati al combattimento di trincea che non si discostavano da quanto praticato negli altri eserciti dell’Intesa e degli Imperi Centrali.
Ancora, Caporetto, dovuta all’improvviso e inaspettato crollo interno della Russia zarista, tra l’altro, non fu minimamente una “disfatta”, come ci si ostina voluttuosamente a ripetere, dato che fu coinvolto solo il 10% dell’ Esercito. Si può parlare di “sconfitta” o di “ritirata”, al massimo: per “disfatta” si intende una sconfitta militare che fa perdere l’intera guerra (come quella di Teutoburgo, ad esempio) mentre Caporetto, paradossalmente, segnò l’inizio della nostra riscossa.
Il comandante austriaco Krauss scrisse: «Cadorna venne sottoposto ad inchiesta e dovette giustificarsi dinnanzi a delle nullità. Questo è il destino dei più grandi soldati. Perciò sia qui reso a quest’uomo l’ onore che gli è dovuto; egli fu della guerra il più grande, il più ragguardevole nemico».
Tra l’altro, altri paesi (Francia, Russia) si guardano bene, invece, dal nominare le loro “Caporetto”, terribilmente più gravi.
Il Generalissimo fu l’ unico capo di Stato maggiore alleato a ragionare in termini modernissimi di «guerra di coalizione» cercando di coordinarsi con i suoi omologhi dell’ Intesa che, pure, non lo amavano. La sua strategia, attenta ai rapporti di forze, perdurò per tutta la guerra italiana e condusse alla Vittoria.
I documenti (relazione del Gen. Del Fabbro allo Stato Maggiore), da poco riemersi, dimostrano come egli avesse previsto in largo anticipo uno sfondamento nemico, tanto da fortificare, in anticipo di anni, la linea del Piave per consentire ripiegamento e arroccamento perfetti, come poi avvenne.
La sua destituzione fu, in realtà, un favore al nemico: scriveva il Comandante supremo asburgico Conrad: «Siamo riusciti a rovesciare Cadorna. Questo è il maggior vantaggio conseguito da tutta l’ operazione. Cadorna, come un vecchio leone, prima di cedere ci ha sferrato una zampata sul Piave. Egli ha saputo rianimare gli italiani e noi abbiamo assistito ad un fenomeno che ha del miracoloso».
Caporetto segnò la fine per gli Austroungarici che si spinsero troppo in avanti in territorio italiano, persero il contatto con la loro logistica e si arenarono clamorosamente sulla linea del Piave. Da lì in poi fu un logoramento continuo finché il generale Diaz, succeduto a Cadorna, attese il momento giusto per dare loro il colpo di grazia il 4 novembre ’18.
Lo storico Aldo Mola ha stimato in una percentuale del 70% il merito del Cadorna nell’ aver risolto vittoriosamente per l’ intera Intesa la Grande Guerra.
Le famose “spallate” da lui ordinate non furono affatto inutili, ma richieste dai nostri alleati in un’ ottica strategica del teatro europeo: servivano a distogliere armate tedesche dal fronte occidentale e a logorare gli austroungarici.
Un nemico interno di Cadorna fu, invece, il Governo che sperava, secondo una faciloneria che si sarebbe ripetuta nella storia, di risolvere la guerra in pochi mesi. Peraltro, gli lesinava materiali e mezzi, tanto che i nostri artiglieri dovevano persino economizzare i colpi d’ artiglieria. Ecco perché gli i primi assalti fallivano, con gravi perdite, poiché i cannoni non riuscivano ad aprire brecce sufficienti nei reticolati nemici. Oltretutto, l’ Esercito era scarsamente addestrato, ma fu messo in piedi da Cadorna in pochissimo tempo.
Altri nemici interni erano i socialisti che spandevano disfattismo e incitavano alla renitenza alla leva, tanto che la II Armata, in buona parte arresasi a Caporetto, era considerata “marcia” dallo stesso duca d’ Aosta, comandante “invitto” della III.
Quindi come vedete, siamo stati defraudati completamente del nostro vero passato, così come oggi veniamo defraudati di una celebrazione verso il Milite Ignoto al quale l’intera Nazione dovrebbe rendere omaggio, mettendo in secondo piano TUTTO IL RESTO.
(*) Andrea Cionci