19 aprile 2021
Raffaele Suffoletta
Alla fine della II^ G.M. era uscito un ordine internazionale controllato dagli USA e dall’ URSS. Le due “superpotenze” agivano come una specie di polizia mondiale, si temevano e nel timore di un’escalations che avrebbe potuto portare ad un confronto nucleare, distruttivo per entrambi, si autolimitavano e di fatto controllavano e regolavano le controversie internazionali. La logica della deterrenza congelava la possibilità di un conflitto armato. Con la fine della “Guerra Fredda”, assente l’autorità dell’ONU, si è creato un vuoto di potere e la Pace, tanto attesa, non è “scoppiata”. Come avviene in mancanza di autorità c’è sempre chi ne approfitta. I vari attori del panorama internazionale, non più controllati dai due grandi “poliziotti”, si sono scatenati nelle rivendicazioni più o meno legittime innescando conflitti locali. Ne è uscito un nuovo contesto mondiale, caratterizzato da grande instabilità, che ha costretto la Comunità Internazionale ad intervenire sempre più frequentemente con missioni militari riconducibili alle varie tipologie che vanno dalle PSO (Peace Support Operations) alle CRO (Crisis Response Operations). Tali missioni cosiddette di “Pace”, a cui si è associata l’espressione retorica, ipocrita e fuorviante di “soldati di pace” presuppongono nei fatti un uso della forza (per questo sono affidate ai militari) che crea le condizioni per il raggiungimento degli obiettivi politici. La forza militare serve a realizzare un certo ordine e fungere da deterrente. Più la Forza è grande più alto è il deterrente, meno rischi si corrono e più alto è il consenso dell’opinione pubblica. Senza l’impiego della “Forza” la diplomazia si ridurrebbe a puro esercizio dialettico, a vuoti proclami da tutti disattesi.
L’attacco dell’11 settembre agli USA ha rivoluzionato la carta geopolitica mondiale e lo scenario internazionale ha subito una nuova fase di conflittualità correlata dalla presenza di fattori ad alto rischio per la sicurezza, le cosiddette “minacce asimmetriche”, fra le quali il terrorismo internazionale, le situazioni di crisi regionali e la possibile ed indiscriminata diffusione di armi di distruzione di massa.
In tale contesto, l’Italia ha fatto del suo impegno a favore delle Organizzazioni Internazionali un aspetto qualificante della sua politica estera partecipando attivamente alla definizione delle Linee di Azione della Comunità Internazionale con l’obiettivo di sviluppare condizioni di sicurezza necessarie a garantire il processo di ricostruzione delle istituzioni politiche per un futuro migliore del paese al fine di inserirlo nel novero Nazioni Unite.
L’attuale contributo italiano in Afghanistan prevede un impiego massimo di 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra personale con sede a Kabul e contingente militare italiano dislocato a Herat presso il Train Advise Assist Command – West (TAAC-W). L’Italia ha garantito alla NATO ed alla Repubblica dell’Afghanistan il proprio supporto ed in tale contesto il TAAC-W prosegue le attività di addestramento, assistenza e consulenza a favore delle Istituzioni e delle Forze di Sicurezza locali concentrate nella Regione Ovest. I dati sono tratti dal sito della Difesa.
Dopo 20 anni in Afganistan, sulla base di un accordo negoziale tra gli Stati Uniti e i Talebani siglato il 29 settembre 2020 a Doha, il prossimo 1° maggio inizia il ritiro delle truppe USA e della NATO. Gli obiettivi fissati sono stati raggiunti? Non sembrerebbe. Cosa avverrà nei prossimi anni lo vedremo anche perché nelle trattative era assente il governo afghano che non ha il controllo delle aree extra- urbane e delle vie di comunicazioni, la pace tra le forze in lotta non è stata siglata e, quasi certamente, la contrapposizione politica riaccenderà una nuova guerra civile; il tributo di sangue versato sarà stato del tutto inutile?