Messaggero di S. Antonio per l’estero. Intervista a Goffredo Palmerini.

17 Novembre 2020
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L’Italia che vorreiNel suo ultimo libro Italia ante Covid,

lo scrittore abruzzese compie un’analisi lucida e provocatoria

di contraddizioni e potenzialità del nostro Paese

a cura di Alessandro Bettero (*)

26messaggerodisaGiornalista e scrittore con un passato di dirigente pubblico e di amministratore al Comune dell’Aquila, Goffredo Palmerini è uno studioso di fenomeni migratori. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali tra i quali il Premio Giornalistico «Maria Grazia Cutuli» e il Premio «Europa e Cultura». Dal suo nuovo libro-rivelazione, intitolato “Italia ante Covid“, traspaiono almeno tre Italie: quella del passato, dei nostri valori, dei nostri antenati, di chi si è fatto onore in patria e nel mondo col sacrificio e con il lavoro. C’è poi l’Italia di oggi che sembra aver perso un po’ la bussola nel mondo globalizzato, sopraffatta da contraddizioni e debolezze mai superate. E c’è, infine, una terza Italia: quella che incombe dal nostro futuro, e che i giovani salutano con il loro entusiasmo, anche cercando fortuna all’estero dove il merito viene premiato a differenza dell’Italia, paese anagraficamente sempre più «anziano», che fatica a capirli e forse ad intravvedere il mondo che ci aspetta.

Che futuro vede per l’Italia?

 Vedo l’Italia come un Paese dalle tante risorse che però – come lei dice – ha perso la “bussola” e stenta a ritrovare la rotta. Stiamo vivendo una transizione troppo lunga e l’equipaggio della nave Italia bisticcia troppo. Ciascuno crede che mettersi in navigazione sia affare alla portata di tutti. Fuor di metafora, la classe politica che il Paese ha in questa congiuntura, pur presenti diverse personalità di valore, in gran parte ha scarsa cultura di governo e grande supponenza. Un mix che alimenta la stagione populista, demagogica e semplicistica che stiamo attraversando. Non vedo grandi Statisti in questo periodo. E infatti manca attualmente quella “visione” di Paese che, in forza di un chiaro progetto di futuro, faccia intraprendere scelte coraggiose e lungimiranti, pensate guardando alle generazioni che verranno. Il consenso è diventato l’assillo quotidiano. Neanche per le prossime elezioni, ma per il prossimo sondaggio. Eppure, proprio quanto ci sta capitando con questa pandemia dovrebbe illuminare la rotta e farci cambiare alla radice. Ci sarà da far rinascere l’Italia, con riforme vere e sacrifici. Mutatis mutandis siamo come dopo la Seconda Guerra mondiale. Con la differenza che allora una visione di Paese le forze al governo l’avevano e c’era forte tensione morale per affrontare le sfide che ricostruirono l’Italia. Pur nella contrapposizione ideologica di quegli anni, le forze politiche che avevano combattuto il fascismo e scritto insieme la Costituzione ebbero sempre in comune i valori di fondo della nostra Carta. Ora non più. In questo quadro il pessimismo dovrebbe essere l’esito scontato. Tuttavia la nostra storia spesso ci ha riservato sorprese. Nei momenti più bui l’Italia ha saputo cavarsela con estro e creatività anche in politica. E’ quello che speriamo ora, proprio nelle terribili condizioni che stiamo vivendo. Molto dovrebbe insegnare la storia della nostra emigrazione: lo spirito, la determinazione, la visione di futuro che ha animato ogni nostro connazionale in terra straniera per costruire il suo riscatto. Così come fanno i nostri giovani che mettono in campo all’estero il loro ingegno e il loro talento, spesso con risultati che il loro Paese non gli ha consentito di sperimentare. Mi auguro un buon futuro per l’Italia. Lo spero, nonostante questo presente.

Tra i personaggi e le vicende che il suo libro evoca, quale o quali l’hanno colpita di più e perché?

 Questo libro è dedicato a Mario Fratti, aquilano che vive a New York dal 1963, uno dei più grandi drammaturghi viventi. La sua è storia emblematica. Di chi ha tenacemente creduto nelle proprie possibilità. “Persistere, persistere, persistere”, questo egli usa ripetere ai giovani che vanno a trovarlo, nei quali vede talento e cui indica un futuro che si costruisce con l’impegno e la fiducia in se stessi. Un po’ la sua storia, quella d’uno scrittore troppo avanti nel pensiero nel suo Paese a cavallo degli anni ‘60, invece apprezzato in America, dove gli fu subito offerta una cattedra alla Columbia University. Inimmaginabile in Italia. Nel frattempo cresceva il consenso sulle sue opere, fino a diventare uno degli autori di teatro più fecondi e originali, negli States e nel mondo. E’ oggi un giovane di 93 anni che elargisce entusiasmo, voglia di vivere e di lottare in favore degli ultimi, egli affascinato dalla testimonianza vivente di papa Francesco. Fratti è un vero esempio, da ammirare.

Il suo Abruzzo è anche la terra devastata dal terremoto. L’Aquila, colpita al cuore, è ancora lì a ricordarci che quello che la natura dà, la stessa natura può riprendersi lasciandoci nudi e spaventati di fronte a qualcosa che è potente più delle ambizioni umane. C’è una normalità che l’Abruzzo è riuscito a ricostruire anche laddove le macerie hanno lasciato il segno?

 Se c’è un segno distintivo nella gente dell’Aquila e degli altri centri colpiti dal terremoto del 6 aprile 2009, oltre la compostezza e la dignità, è la resilienza. Una capacità di rinascere che attraversa quasi otto secoli di storia della città capoluogo d’Abruzzo. Almeno cinque i terremoti devastanti, dai quali è risorta sempre più bella di prima. Certo esistono tuttora problematicità, specie riguardo la ricostruzione sociale ed economica per le comunità colpite dal sisma. Ma se c’è un dato che va sottolineato è che la ricostruzione materiale – della quale si parla in alcuni capitoli del libro – sta andando avanti abbastanza bene, avviandosi nel prossimo quinquennio alla sua completa definizione. Ci vorrà ancora tempo per recuperare una normalità di vita in queste comunità, fin quando le attività economiche non potranno riprendere il cammino, secondo vocazioni nuove che diano prospettive di lavoro ai giovani, altrimenti destinati a cercare altrove il loro futuro.

La cultura italiana, l’arte, la bellezza come valore estetico declinato nel design, nell’artigianato, ecc. sono il nostro “petrolio”. Eppure sembra che non riusciamo a sfruttarlo fino in fondo. Anzi, spesso, un crescente numero di gruppi stranieri si impossessano dei nostri brand e li sfruttano. In che cosa sbagliamo, e cosa dovremmo fare per promuovere l’italianità nel mondo?

 E’ proprio così, abbiamo un giacimento straordinario di bellezze artistiche, monumenti, siti archeologici, città e borghi di grande suggestione architettonica. Una concentrazione unica al mondo, oltre alle meraviglie paesaggistiche ed ambientali. Un’inesauribile miniera d’oro su cui investire in modo duraturo, il cespite più affidabile dello sviluppo del Paese, capace di generare occupazione in un turismo di qualità e nei servizi. Una voce che potrebbe diventare davvero significativa nella nostra economia. Occorrono però politiche di lungo respiro, non iniziative episodiche. Il nostro limite è quello di non pianificare adeguatamente i processi e perseguirli con continuità. Ci sarebbe molto da fare per promuovere l’italianità nel mondo, a cominciare dal conoscere a fondo le nostre comunità all’estero e la storia della nostra emigrazione. Ci si renderebbe conto che, a fronte una delle più grandi diaspore della storia dell’umanità con quasi 30 milioni d’italiani emigrati in un secolo o poco più, abbiamo ora un’altra Italia oltre confine di 80 milioni di oriundi che amano l’Italia più di noi. Una vera risorsa per la promozione del Belpaese, se appunto si volesse mettere a sistema le nostre comunità nel mondo. Sarebbero i nostri migliori ambasciatori. I nostri connazionali non sono più quelli partiti con la valigia di cartone, descritti negli stereotipi. Hanno sofferto pregiudizi e stigmi nella prima generazione dell’emigrazione. Poi i loro figli si sono man mano integrati nelle società d’accoglienza, si sono fatti apprezzare. Hanno ora la stima e il prestigio che si sono meritati in ogni settore di attività: nelle università, nelle imprese, nel mondo dell’arte, dell’economia, della ricerca, nelle Istituzioni e nei Governi, talvolta con ruoli di preminenza. Chiedono solo di essere conosciuti e riconosciuti.

Tanti dicono che dopo il Covid-19 il mondo non sarà più lo stesso. Lei che ne pensa? E cosa cambierà per gli italiani nel mondo?

 A giudicare da quanto sta accadendo, così sembrerebbe e così dovrebbe essere. Dovrebbe avviarsi nel mondo una radicale revisione dei sistemi di vita nella consapevolezza che l’umanità condivide un comune destino. Come pure necessiterà una collaborazione planetaria in campo sanitario. Purtroppo, quando la pandemia sarà passata, penso ciascun Paese tornerà alle vecchie abitudini. A meno che questa dolorosa esperienza non rafforzi nel mondo i movimenti giovanili di massa che chiedono ai governi cambiamenti radicali. Per gli italiani nel mondo cambierà come per gli altri.

I volumi che lei ha scritto in questi anni sembrano scaturire da una stessa matrice: il bisogno di fare memoria, di non perdere/non disperdere il patrimonio di esperienze e di valori che hanno segnato soprattutto le ultime generazioni. Quell’identità e quel comune sentire che sembra essersi appannato in un mondo che tende ad omologare lingue, costumi, gusti, interessi, tradizioni, se non a cancellarle. L’identità italiana o italofona come si salva? E, soprattutto, chi e come può salvarla?

 Questo libro, come gli altri otto precedenti, racconta anche la provincia italiana. Le piccole città e i centri minori, spesso autentici scrigni d’arte e di tradizioni originali che affondano radici nella nostra storia millenaria, sono luoghi di preservazione dell’identità dai fenomeni di spersonalizzazione culturale. Nella nostra provincia si può davvero coltivare il valore dell’eccezionale ricchezza del costume e delle abitudini ataviche della gente italiana, tessere d’un mosaico che in fondo esprime il gusto di vivere all’ “italiana”. Appunto l’italian life style che tanto intriga all’estero, dove l’anonimato urbano e un urbanesimo senza radici non coltiva un’identità, quella invece che l’Italia detiene grazie all’eccezionale fioritura di culture e tradizioni locali nel caleidoscopio di borghi e città, dove si vive a dimensione umana. Il filo rosso dei miei libri – nati tutti dopo il 2007 quando chiusi il mio trentennale servizio di amministratore civico a L’Aquila – sta nell’affermare il valore della conoscenza del fenomeno migratorio italiano, insieme alla perorazione che questo pezzo di storia rimasta finora ai margini – se non addirittura rimossa –, entri finalmente nella grande Storia d’Italia. Solo così può maturare la consapevolezza, specie nella classe politica dirigente, che siamo un Paese di 140 milioni di italiani, dentro e fuori i confini. E con una comunità degli “italici” ancora più lata e numerosa, come da anni va affermando Piero Bassetti. Attenzione e politiche mirate possono dare risultati significativi nel valorizzare la nostra identità culturale. Dobbiamo tutti maturare la coscienza d’essere nati nel Paese più bello del mondo che detiene la maggior parte del patrimonio culturale, storico e artistico dell’intero pianeta. Avere l’orgoglio di essere “figli dei figli dei figli di Michelangelo e Leonardo”, come si dice nel film Good morning Babilonia dei fratelli Taviani. E dunque di avere responsabilità e doveri in più nel conservare e valorizzare questa immensa eredità di Bellezza. Questa e soltanto questa dovrebbe diventare l’ideologia che unisce, oltre ogni differenza, tutti gli italiani dentro e fuori i confini.

 Oggi perfino Cristoforo Colombo è in difficoltà. Basta abbattere una statua per cambiare la storia?

 E’ vero, la furia iconoclasta si sa dove comincia e non si sa dove può andare a finire. Sovente nell’assurdità. E’ quanto sta capitando negli Stati Uniti a Cristoforo Colombo, ma non solo a lui. Me ne ero accorto partecipando a diverse parate del Columbus day – New York, Boston, e recentemente nell’area di Detroit – che andava montando questa ripulsa per Colombo, fino alla cancellazione del giorno a lui dedicato in diverse città per una indefinita Giornata della memoria dei Nativi, come pure alle attuali offese o rimozioni dei monumenti. Anche questo è un segno del tempo incoerente che stiamo vivendo. Certamente abbattendo un monumento o cancellando la giornata a lui dedicata non cambierà la storia, quanto ai meriti di Colombo nella scoperta del nuovo mondo. Né i Nativi indiani avranno riparazione del loro terribile genocidio. Che ha ben altri responsabili, non certo Colombo.

https://messaggerosantantonio.it/content/edizione-italiana-lestero-251

(*)

Alessandro Bettero è giornalista professionista. Si è formato in Giornalismo investigativo alla Columbia University, in Economia dello sviluppo all’Università di Oxford, e in Storia del Cinema americano all’Università della Pennsylvania. Ha collaborato con autorevoli testate, giornalistiche e televisive, e si è occupato anche di uffici stampa. E’ esperto di comunicazione crossmediale e internet, digital media, social media marketing e augmented reality. E’ autore di format radiofonici e audiovisivi, regista e sceneggiatore di docufilm e documentari d’arte. Ha tenuto lectures di comunicazione, mass media, cultura italiana presso istituzioni accademiche e diplomatiche, si in Italia che all’estero. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Premio Letterario «Giorgio La Pira», tre Premi «Gold Remi Award» al WorldFest di Houston (USA) e una medaglia del Presidente della Repubblica Italiana. (GP)

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