di Giuseppe Lalli
L’AQUILA – Ad Assergi, suggestivo villaggio abruzzese abbarbicato sulle pendici del versante meridionale del Gran Sasso d’Italia dove il 5 giugno, da tempo immemore, si ricorda il santo patrono, San Franco eremita, la cui devozione nel secolo scorso era diffusa in tutto l’Abruzzo e finanche oltre i confini della regione, quest’anno, a motivo della nota emergenza sanitaria, la festa, per la prima volta, si è svolta nella sola dimensione religiosa. L’evento è stato assai significativo e la circostanza davvero singolare, giacché proprio nel corrente anno si ricorda l’ottocentesimo anniversario della morte del santo, il cui transito, secondo una tramandata memoria, sarebbe avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 giugno. C’è un’altra circostanza che non può sfuggire ad un cultore di storia del cristianesimo: il fatto che in quest’annus horribilis, nel giorno che precede la festa del patrono, come è tradizione, si ricorda un altro santo, San Vincenzo Ferreri (San Vicent Ferrer, nella lingua della sua terra nativa), festeggiato nel borgo insieme a San Rocco e Sant’Egidio.
San Vincenzo Ferreri fu predicatore apocalittico, se mai ce ne fu uno nella millenaria storia della Chiesa. Ciò gli valse il titolo di ‘Angelo dell’Apocalisse’, titolo del quale si compiacque. Nella vicenda storica cristiana, l’inquietudine dei tempi ultimi, di cui c’è abbondante traccia nel libro dell’Apocalisse, il più misterioso tra i testi del Nuovo Testamento, torna di tanto in tanto a farsi sentire, soprattutto nelle epoche di più acuta crisi, in cui spaventosi eventi naturali, epidemie, guerre, insieme a dissidi politici e religiosi, sembrano evocare il ruggito della bestia infernale e il suono della tromba dell’Arcangelo. “Mala tempora currubunt” (“Correvano tempi cattivi”): quante volte, e di quante epoche, si è sentito pronunciare questo lapidario giudizio. Fu in una di queste epoche inquietanti che visse Vincenzo Ferreri. Ma chi era davvero questo straordinario personaggio, spesso evocato ma poco conosciuto?
Vincenzo nasce nel 1350 a Valencia, in quella Spagna colorita e passionale, da famiglia altolocata (il padre era notaio). Mostra fin da bambino i segni di una intelligenza non comune, unita ad una naturale bontà d’animo. Entra giovane in quell’ordine religioso dei Predicatori fondato nel 1225 da un altro spagnolo, Domenico di Guzman (1170-1221). Da qui anche il nome di ‘Ordine domenicano’ con cui più spesso si indica la prestigiosa congregazione religiosa.
Dopo il noviziato e la licenza in filosofia, conseguita brillantemente con due scritti dove mostra di saper conciliare la fede con la ragione, il giovane Vincenzo si dedica agli studi di teologia a Barcellona, approfondisce la conoscenza della Sacra Scrittura e impara l’ebraico. A Tolosa perfeziona poi la sua formazione alla luce della ideale lezione di un altro grande domenicano, quel Tommaso d’Aquino (1225-1274) al cui insegnamento è debitore il pensiero cristiano di ogni tempo. Nello stesso anno in cui l’ancor giovane religioso è nominato priore del suo convento, un evento eclatante scuote la cristianità: l’inizio di quello che sarà chiamato ‘Il grande scisma d’Occidente’, che segue alla cosiddetta ‘cattività avignonese’, espressione con la quale si suole indicare il periodo in cui la sede del papato, con Clemente V (1264-1314), viene trasferita ad Avignone, in terra francese.
Alla morte di papa Gregorio XI (1330-1378), che dall’anno precedente, con grande coraggio, aveva dopo più di 70 anni riportato la sede papale a Roma, venendo incontro al desiderio della grande Caterina da Siena (1347-1380), in un clima di violente lotte tra fazioni contrapposte nella “città eterna”, viene eletto al soglio pontificio l’italiano Urbano VI (1318-1389). Alcuni cardinali, per la maggior parte francesi, dichiarano nulla l’elezione e nello stesso anno, riuniti ad Anagni, eleggono un altro papa, il francese Clemente VII (1342-1394), che non potendo certo scacciare papa Urbano, sceglie nuovamente Avignone per sua sede. Segue un triste periodo di papi e antipapi.
In questo torno di tempo, a Valencia, Vincenzo, impegnato a metter pace tra le famiglie della città, si dedica con particolare ardore all’assistenza degli orfani e all’educazione dei giovani. Nel 1380 è ordinato sacerdote dal cardinale d’Aragona Pedro Martinez De Luna Y Pérez (1328-1423), che sarà legato pontificio per la Spagna dell’antipapa Clemente VII. Vincenzo, rinunciando al suo incarico di priore, segue il cardinale spagnolo, che da tempo lo aveva preso a ben volere, nella sua missione tesa a guadagnare i principi iberici all’obbedienza alla corte pontificia avignonese. Alla morte di Clemente VII, il cardinale De Luna Y Pérez gli succede con il nome di Benedetto XIII. Chiama ad Avignone il suo fervente collaboratore e gli assegna l’incarico di cappellano e penitenziere apostolico, nonché di suo personale consigliere e confessore.
Ma ad Avignone la situazione, poco a poco, comincia a precipitare. Benedetto XIII finisce per avere quasi tutti contro. La Francia stessa si sottrae alla sua obbedienza il 1° settembre 1398. I negoziati in vista dell’unità della Chiesa naufragano, e le truppe del maresciallo Jean II Le Maingre, detto Boucicaut (Bucicaldo, 1366-1421), cingono d’assedio Avignone. Vincenzo, a fronte dell’inanità dei suoi sforzi per riunificare la cristianità attorno alla figura di Benedetto XIII, entra in una profonda crisi spirituale e, fiaccato anche nel corpo, si ritira presso i monaci benedettini della città provenzale. Dirà poi di essere guarito miracolosamente il 3 ottobre 1398, in seguito ad una visione in cui Cristo, accompagnato da San Domenico di Guzman e San Francesco d’Assisi (1181/1182-1226), i fondatori dei due grandi Ordini Mendicanti, gli affida una grande missione da compiere: riunificare la Chiesa e l’Europa attorno ad un unico papa, quel “dolce Cristo in terra” di cui già Caterina da Siena aveva parlato nei suoi mistici rapimenti.
Inizia così per Vincenzo un’altisonante apostolato itinerante che lo porterà, a piedi o a dorso di un asino, attraverso gran parte dell’Europa. Sulla scìa di San Domenico ribadisce le verità della Chiesa in conformità alla tradizione apostolica; sull’esempio del Poverello di Assisi vive nella povertà, e richiama tutti, con forza, al rigore della penitenza. Sarà per lui, questa, la via maestra per la riunificazione dei cristiani, che vedrà realizzarsi nel 1417, prima della sua morte, dopo che sarà passato quel terribile secolo XIV, nella persona di Martino V (1369-1431), nell’ambito di quel Concilio di Costanza (1414-1418) fortemente voluto dall’imperatore Sigismondo (1368-1437).
Degno di nota è il fatto che Vincenzo, con grande realismo, e esercitando la libertà di spirito che gli veniva da una profonda ricchezza interiore, non aveva mai smesso in tutti questi anni di esortare Benedetto XIII, il papa avignonese, al quale pure si sentiva legato da sentimenti di stima e di lealtà, a fare un passo indietro dimettendosi da papa e creando così le condizioni per una ritrovata unità della Chiesa attorno a un unico pontefice. Con la sua predicazione forte e appassionata, sullo sfondo di in un’epoca di grande confusione morale e di immani tragedie collettive (pesti, guerre, terremoti), nonché di dissidi all’interno della Chiesa, Vincenzo Ferreri ricorda ai suoi contemporanei che Dio è misericordioso ma non dimentica, e che la verità e la carità vanno assieme (ci evoca qualcosa tutto ciò?…). Più che mai segno di contraddizione e incarnazione del mistero cristiano, in lui convivono spirito profetico e impegno nella storia, richiamo alle cose ultime e attenzione ai temi del suo tempo.
La sua vita pubblica è una sorta di Pentecoste permanente, giacché, pur parlando in valenziano, la sua lingua madre, le sue parole sono comprese da tutti. Da vivo, secondo quanto ci riferiscono i suoi biografi, guariva i malati, liberava gli indemoniati, resuscitava i morti, ma soprattutto riusciva a far cambiar vita a peccatori incalliti nei loro vizi. Dopo la sua morte, avvenuta il 5 aprile 1419 a Vannes, in Bretagna, nella cui cattedrale si conservano ancora le sue spoglie, a diffondere la sua fama di santità saranno soprattutto i prodigi ottenuti per sua intercessione. Sarà Callisto III (1378-1458), suo connazionale, a dichiararlo santo il 3 giugno 1455, per poi canonizzarlo il 29 dello stesso mese. In Italia il suo culto si diffonderà soprattutto nel Meridione (sarà compatrono del Regno delle due Sicilie insieme a San Francesco di Paola (1416-1507), dove sarà anche considerato, insieme a Sant’Emidio, il santo che tiene lontani i terremoti.
Ad Assergi il culto di San Vincenzo Ferreri è assai vivo già nel XVI secolo. La presenza, infatti, nella chiesa parrocchiale di un altare a lui dedicato, che doveva trovarsi nella navata di sinistra, tra la cappella di San Franco e la nicchia affrescata subito dopo la porta laterale, già risulta nel 1577 in occasione di una visita pastorale del vescovo dell’Aquila mons. De Acugna (D. Gianfrancesco, Assergi e San Franco, 1980, nota a p. 163). La statua del santo è tuttora in bella vista a sinistra dell’entrata principale della chiesa parrocchiale. Essa da sempre viene portata a spalla nella processione che il 4 giugno muove dalla piazza principale per costeggiare le mura dell’antico castello.
A me che scrivo, nato e cresciuto ad Assergi, l’aspetto austero di questo originale santo con la tonaca bianca e il lungo mantello nero, il libro aperto sulla mano sinistra mentre l’altra indica risolutamente il cielo, una fiammella simile ad un ciuffetto di capelli sopra la testa rasata e un paio d’ali dorate che spuntano dalla schiena, incuteva, quand’ero bambino, una certa soggezione, se non addirittura timore. Più avanti con gli anni avrei scoperto che la tonaca è quella dei domenicani, l’ordine religioso al quale Vincenzo appartenne; la scritta sul libro Timete Deum et date illi honorem (“Temete Dio e rendetegli onore”), ispirata da un passo dell’Apocalisse, ben riassume il senso dei suoi appassionati sermoni; la mano alzata verso il cielo sta ad indicare la meta soprannaturale che non dobbiamo smettere di perseguire, mentre la fiammella posata sulla testa è segno di quello Spirito Santo che sempre assisteva il grande predicatore nella sua missione, a somiglianza di quelle lingue di fuoco che si posarono sulla testa degli Apostoli in quella famosa Pentecoste di Gerusalemme. Le ali, infine, ricordano che le sue prediche infuocate lo facevano apparire l’angelo dell’Apocalisse che annuncia la fine del mondo, ma anche, per la sua immensa bontà, un serafino che vuole aiutare gli uomini a ritrovare la via della salvezza eterna.
Gli assergesi delle passate stagioni, con quella felice intuizione soprannaturale che spesso ha accompagnato il popolo cristiano attraverso i secoli, hanno voluto accostare le figure di San Vincenzo Ferreri e di San Franco eremita, due personalità assai diverse, per il contesto storico e sociale nel quale nacquero e vissero, per la formazione intellettuale ricevuta, per lo stile di santità che praticarono: l’uno votato quasi interamente alla contemplazione, l’altro sviato nell’azione. Eppure, come non cogliere in questa diversità una verità incomunicabile del Vangelo, vale a dire che la solitudine contemplativa di una vita che si consuma in una spelonca o nella cella di un monastero è il vero propellente, invisibile ma efficace, di ogni autentico apostolato cristiano, anche quando esso si svolge, come nel caso di San Vincenzo Ferreri, nella solennità di una corte pontificia o nel clamore di una piazza medievale.
Altre due singolari coincidenze ci è dato di cogliere. Vincenzo Ferreri fu dichiarato santo il 3 giugno, Franco, secondo la tradizione, lasciò l’abitazione terrena la notte tra il 4 e il 5 giugno; per San Vincenzo si sono celebrati i 600 anni dalla morte l’anno scorso, nel 2019, per San Franco gli 800 anni dalla morte si celebrano quest’anno, nel 2020.