Racconti in quarantena
di Mario Narducci
Era sera inoltrata quando frenetici colpi di battaglio percossero l’uscio rompendo il silenzio ovattato della nevicata recente. Zia Elena, con in braccio la bambina di un mese appena, salì trafelata le scale che dalla cucina portavano al pianerottolo e aperse in un grido, mentre veniva avvolta da un abbraccio folle, affogato in singhiozzi e lacrime irrefrenabili. Zio Giorgio, suo marito, richiamato in guerra, di passaggio per L’Aquila con il suo contingente militare proveniente dalle Marche, aveva ottenuto un permesso lampo per venire a conoscere la figlia, prima di partire alla volta di Bari per imbarcarsi e raggiungere il fronte greco-albanese.
Dalla cucina i miei genitori, i miei fratelli guardavano la scena ammutoliti. Io, che non avevo più di cinque anni, mi aggiravo frastornato tra una selva di gambe con una domanda rimasta appesa come un uncino tra le labbra tremule per pianto rattenuto. Con in braccio il fagottino bianco zio scese le poche scale tenendo per mano la giovane moglie. Un abbraccio a ciascuno, così forte da poter sentire il battito del cuore. Un bacio lungo, come un desiderio infinito. Poche parole per chiedere come stai e sentirselo chiedere in un sospiro. Un bicchiere d’acqua di rubinetto per lui che veniva da lontano e più lontano andava. Ancora un giro d’abbracci e un altro ancora.
Zio Giorgio risalì le scale, aperse lentamente l’uscio voltandosi a guardarci con gli occhi tristi, abbassò il capo per non mostrare lacrime e si perse nella notte candida di neve sotto la luna. Era fine febbraio del 1943. Avevo cinque anni, sì, e questo è il primo ricordo della mia vita. Fisso come marchio sulla fronte, cocente come fuoco in gola, malinconico come sfinimento d’anima; ricordo mai superato da altre memorie.
Ombra che si stende sui miei passi ogni qualvolta penso a quella bimba di pochi mesi, oggi madre e nonna, che stette tra le braccia di un padre soldato il tempo di uno sguardo e di un bacio, il tempo di una carezza ruvida di mani e tenera di cuore che per sempre ha segnato la sua vita e invaso i suoi sogni nelle notti fonde. Aveva una bustina grigio-verde calcata in testa che negli abbracci sul pianerottolo gli sfuggì, subito raccolta, uno zaino pesante sulla schiena, un fucile che gli pendeva da una spalla. Intorno alla vita le giberne d’uso. Quello ch’era partito era già un eroe. Oscuro come tanti servitori di una Patria che li mandava a morire in cambio di una medaglia alla memoria.
Zio Giorgio era il terzo di sette figli, anche lui nato in America con i primi quattro fratelli da genitori emigrati e tornato con loro in Patria dopo un po’ di fortuna, per lavorare un pezzo di terra che avrebbe assicurato un futuro dignitoso a tutti. Aveva trentadue anni quando fu richiamato alle armi e pareva un grande onore. Nonna Mariantonia gli fece vincere ogni titubanza e, con la stretta al cuore, lo spronò a partire, anche se senza di lui sarebbe stato assai più arduo portare a termine il lavoro dei campi. Zia Elena era già gravida. Quando la bimba nacque, era fine gennaio del 1943.
Sarò all’Aquila di passaggio, le fece sapere zio Giorgio non si sa come, fatti trovare da Gina così potrò vedere nostra figlia. Gina era sua sorella e mia madre. A piedi e con mezzi di fortuna, Elena si diresse da Vigliano all’Aquila, stringendo forte al petto, sotto l’ampio cappotto, la bambina allattata e addormita. Ebbe paura quando un soldato tedesco la fermò per un controllo. Impietrita la zia restò muta mentre cercava ancor più di nascondere il fagottino. Con la canna del fucile il soldato le aprì il cappotto, e mentre lei lo implorava di non farle del male, trasse di tasca una foto che lo ritraeva con una bambina in braccio come per dirle di non temere, che aveva una figlia anche lui; e ad occhi lucidi la invitò ad andare.
Da Bari lo zio Giorgio riuscì a spedire un pugno di lettere alla moglie, per chiedere della bimba e del battesimo, dei genitori e dei fratelli, del lavoro dei campi e per dirle con parole discrete che le voleva bene e che sperava che la guerra finisse presto per riabbracciarla. Poi fu silenzio. Una cappa di piombo distesa da lì all’armistizio e poi ancora sugli anni a venire, accompagnata da una parola che non chiudeva alla speranza ma che era già senza speranza: “Disperso”.
Mia nonna che lo aveva spronato a partire non resse alla pena e morì di crepacuore. Nessuno me lo disse, ma ricordo mia madre e mia sorella maggiore Candida, che indossavano calze nere sotto il vestito nero per recarsi ad abbracciarla per l’ultima volta. Nonno Vincenzo, curvo e ossuto in tutta la sua altezza, finché visse, oltre gli ottant’anni, coccolò la bimba quale prezioso dono di un figlio che non c’era più.
Mia madre, da allora, ogni qualvolta il nome di Giorgio affiorava nei parchi discorsi, scuoteva il capo come per grande patire, mai rassegnata alla perdita del fratello che forse più amava, bello, diceva, come il sole, nero di capelli e dallo sguardo buono, sempre atteso, nel profondo del cuore, e mai tornato. Zia Elena, allora chi amava faceva così, fedele al marito oltre la morte, vestì sempre di nero, vedova di guerra com’era diventata. Tutte le sue premure furono per la bimba che cresceva sana e bella e della quale andava orgogliosa sempre di più. Come sempre di più assomigliava al marito, al quale non poteva non pensare ogni qualvolta la chiamava per nome, evocando il motivo di un martirio: “Italia”.