di Mario Setta
La celebre frase di Galilei “La Bibbia insegna come si vada in cielo e non come vada il cielo” non vale solo per la Fisica, ma per ogni scienza o per qualsiasi teoria che voglia presentarsi tale. Anche per la storia, che da sempre cerca di avvalersi del metodo scientifico. È chiaro che la storia è prima di tutto la presentazione esatta dei fatti. E tale esattezza è “un dovere dello storico”, sottolineava Edward Carr. Ma se fino ad oggi la storia non è riuscita a stare al passo col metodo scientifico, a maggior ragione non si può pretenderlo dalle opere di tremila anni fa. È quanto cercano di fare due storici e archeologi ebrei che hanno analizzato i testi biblici con i metodi scientifici di oggi. Si tratta di Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman, due storici e archeologi ebrei, che espongono i risultati delle loro ricerche nel libro “Le tracce di Mosè, la Bibbia tra mito e storia”.
Il giudizio sulla Bibbia come “capolavoro letterario della civiltà mondiale” è il leit-motiv ricorrente, che sembra collocarsi come ipotesi e verifica di tutta l’indagine. Prescindendo dal valore teologico che il libro sacro assume nella religione ebraica e cristiana, che innesca il problema dogmatico della “ispirazione”, per gli autori non si tratta di “rivelazione miracolosa”, ma di “prodotto geniale della immaginazione umana”. Si tratterebbe di una “saga epica, nata come risposta alle pressioni, alle difficoltà, alle sfide e alle speranze sperimentate dall’esiguo popolo del regno di Giuda nei decenni prima della sua distruzione e dalla comunità anche più esigua del Tempio di Gerusalemme in epoca post-esilica”.
Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman affermano, con prove archeologiche e interpretazioni testuali, che la Torah (i primi cinque libri della Bibbia) risale al 7° secolo avanti Cristo, durante il regno di Giosia. E questa affermazione è di per sé rivoluzionaria, perché presenta le narrazioni precedenti, da Abramo a Mosé, all’esodo, alla conquista di Canaan, la Terra promessa, fino a Davide e ai suoi discendenti come preistoria o racconti leggendari. È vero, tuttavia, che anche la leggenda può avere un valore storiografico, ma resta tale in attesa di elementi probatori.
Molti episodi biblici, dicono gli autori, non sono verità storica, ma finzione letteraria, in modo da offrire un fondamento all’unità del territorio: il regno di Giuda a sud con Gerusalemme centro religioso e politico, in opposizione al regno del nord (Israele, Samaria). Quindi una storia per fare del re Giosia un mito, dal momento che alla tenera età di otto anni (639 a.C.) era salito sul trono del padre Amon, assassinato a Gerusalemme. Durante il regno di Giosia si rafforzarono quelli che sostenevano l’unicità di Jawé (YHWH), mentre si diffondeva l’alfabetizzazione, per cui scrittura e preghiera diventavano strumenti delle nuove idee religiose, sociali, politiche.
L’evento straordinario nel tempio di Gerusalemme fu la scoperta nel 622 a.C. del “libro della legge”, ritenuto la prima forma del Deuteronomio (dal greco “Seconda legge”). Un libro che “usa la frusta ma sa anche parlare al cuore”, si dice nella Bibbia, edita dalla CEI. Ma i due autori ebrei evidenziano e accentuano gli aspetti positivi: monoteismo, festa della Pasqua e dei Tabernacoli, norme di comportamento, leggi morali per il benessere sociale, tutela dell’individuo, diritti umani, dignità della persona, attenzione ai deboli, libertà per gli schiavi dopo 6 anni di servitù, ecc. Purtroppo, alla morte di Giosia, i figli non proseguiranno sulla linea tracciata dal padre. Con l’arrivo nel 587 di Nabucodonosor, Gerusalemme viene assediata e conquistata dai babilonesi. Il Tempio distrutto e innumerevoli ebrei deportati in esilio a Babilonia.
Solo dopo la fine dell’impero babilonese, sconfitto e conquistato dai Persiani, Ciro emana un decreto per la ricostituzione del regno di Giuda e la ricostruzione del tempio a Gerusalemme. Cinquantamila ebrei tornano in patria. Evidentemente non è per simpatia che i Persiani favoriscono il rientro degli ebrei nella loro terra, ma per ragioni politiche. È il momento in cui avviene un ulteriore rimaneggiamento del testo biblico, in modo da porre in rilievo il buon rapporto tra ebrei e persiani, per le origini di Abramo da Ur dei Caldei, che crea un legame tra la terra di Canaan e la Mesopotamia. Rapporto che durerà due secoli, fino alla conquista di Alessandro Magno, il macedone, nel 332 a.C. Con la fine dei sistemi monarchici della comunità ebraica e le vicissitudini della diaspora, la Bibbia diventa l’unico e più forte legame per l’unità degli ebrei. La principale fonte di identità per tutta la comunità. Un libro scritto dagli uomini per gli uomini, che descrive il meglio e il peggio dell’umanità.
In seguito, anche il Cristianesimo inserirà i testi sacri cristiani nel canone biblico, unendo Vecchio e Nuovo Testamento, mentre l’Islam creerà un altro libro, il Corano, con caratteristiche diverse, ma ispirandosi ai testi ebraici e cristiani. Nascono così le cosiddette “religioni del libro”. Se la religione è la prima e la più ancestrale forma di elevazione culturale si può ben capire che le religioni più progredite abbiano fatto ricorso al libro come strumento privilegiato di comunicazione tra il divino e l’umano. Il libro come parola di Dio.
Senza entrare nella diversità della relazione tra il credente e il libro (ispirazione, rivelazione, esegesi, ecc.) secondo le tre religioni, appare evidente l’importanza che il Libro (Bibbia degli ebrei e dei cristiani e Corano dei musulmani) ha avuto e continua ad avere. Un cammino che proseguirà ancora e con maggiore attenzione storico-scientifica. Le ricerca dei due archeologi ebrei è segno che le religioni del libro non restano bloccate dai dogmatismi, ma chiedono sempre lumi per conoscere e approfondire la storia di Dio e dell’Uomo.