di Errico Centofanti
Tratto da www.sipario .it
Infine, non è bastata la vibrazione d’affetto e buon augurio che ha allacciato il pensiero di milioni di persone in tutto il mondo al vecchio cuore di Andrea Camilleri, che per un mese esatto, dal 17 di Giugno al 17 di Luglio, è rimasto imparpagliato in un ospedale della Città Eterna.
All’onda emozionale di quanti hanno preso a circondare d’affetto il creatore del Commissario Montalbano, in grazia dei romanzi a lui dedicati, tradotti in più di cento lingue, stampati in oltre dieci milioni di copie e per innumerevoli volte trasposti in produzioni televisive, quanti con lui condividiamo il privilegio d’appartenere al mondo del teatro vogliamo aggiungere il nostro grato e commosso addio.
Perché Camilleri non è solo il grande scrittore da tutti conosciuto, ma è stato in primo luogo un teatrante, uno di quelli importanti. Tant’è che proprio di teatro s’occupava il suo primo libro, apparso giusto sessant’anni fa, quando Camilleri di anni ne teneva trentaquattro, mentre il primo libro con protagonista il Commissario Montalbano sarebbe apparso trentacinque anni dopo.
Il mondo del teatro avrebbe voluto festeggiare insieme con lui l’imminente sessantennale d’uscita di quel libro. Era il 20 Ottobre del 1959, quando l’editore Cappelli di Bologna finiva di stampare, nell’ambito della collana “Documenti di Teatro” diretta da Paolo Grassi e Giorgio Guazzotti, quello che è il capostipite dei più di cento titoli di Camilleri: I teatri stabili in Italia (1898-1918). Era un saggio storiografico, ovviamente, che documentava e ragionava intorno a una delle fasi cruciali del processo di trasformazione sempre in atto nell’universo teatrale italiano: quella del primo affermarsi di una concezione non più basata sulla tradizione girovaga delle compagnie e sulla centralità dell’attore-mattatore.
È lì, in quelle pagine, che Camilleri propone e commenta una variegata rassegna di documenti fondamentali. Per esempio, il regio decreto che nel 1820, istituendo la Compagnia Reale Sarda, perché «l’arte drammatica ben regolata e opportunamente favoreggiata, protetta, mentre procaccia agli abitanti della capitale un onesto sollazzo, tende ad ingentilirne il costume» lascia ben intendere la profonda differenza d’intenti con cui, quasi un secolo e mezzo dopo, sarebbero nati con la Repubblica i moderni teatri stabili basati sul presupposto che fa del teatro un servizio pubblico d’interesse generale.
Sempre in quel suo primo libro, Camilleri evoca questa considerazione con cui Gramsci, quando faceva il critico teatrale, anticipando d’oltre mezzo secolo quel “Non esistono piccoli ruoli, ma solo piccoli attori” gridato da Brecht, scriveva a proposito di Tina Di Lorenzo: «non può essere classificata in quella categoria, lusinghiera apparentemente, dei grandi, perché dire grande vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a dei confronti, classificare; e invece l’artista non è grande o piccolo: è o non è tale, semplicemente».
Nel teatro, però, Camilleri s’era alacremente invischiato già da tempo. Ha appena diciassette anni, quando comincia a mettere in scena spettacoli di prosa, poi frequenta l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dove si laurea in regia nel 1952. Da allora dirigerà un centinaio di messinscena, specialmente opere di Pirandello, tra l’altro essendo il primo a portare Beckettsui palcoscenici italiani.
Nella multiforme produzione letteraria e giornalistica che lo accompagnerà costantemente spicca anche una collaborazione con Sipario: per la nostra testata scrisse un articolo in occasione del ventunesimo compleanno dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (L’Accademia è maggiorenne), apparso nel n. 129 del Gennaio 1957, lo stesso anno in cui, occupandosi di spettacolo, diventa uno dei dirigenti che hanno costruito per la televisione di Stato l’immagine e la sostanza di grande artefice culturale.
Come delegato alla produzione, nell’intero arco degli anni Sessanta sovrintende alla creazione di tanti successi epocali della Rai, tra i quali i telefilm del Tenente Sheridan con Ubaldo Lay e le inchieste del Commissario Maigret con Gino Cervi, cioè quei famosi “gialli” di qualità che trent’anni dopo avranno il loro excelsior con Montalbano.
Il teatro e lo spettacolo in generale lo vedono impegnato anche come docente, prima al Centro Sperimentale di Cinematografia, tra il 1958 e il ’68, e poi per vent’anni, a partire dal 1977, come titolare della cattedra di regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica.
Ma anche nella lunga e gloriosa stagione da romanziere, per Camilleri il teatro resta un fondamentale punto di riferimento. Basti pensare, tanto per citare due tra i suoi libri piú belli, al Birraio di Preston del 1995 e alla Scomparsa di Patò del 2000, che in entrambi i casi hanno a protagonista dell’intreccio narrativo una vicenda di teatro.
E come non immaginare in termini di un suo estremo omaggio all’universo teatrale l’one-man-show dell’anno passato al Teatro Greco di Siracusa, quando, incarnando un Tiresia estraneo a ogni coordinata temporale, ha ancora una volta ancorato il suo impegno a quella strenua dedizione civile con cui ha segnato tutti i novantatre anni del suo passaggio tra di noi?
Lui, nel Birraio di Preston, con quel suo pirotecnico affabulare che raccoglie da Gadda il testimone dell’invenzione linguistica, racconta con impareggiabile struggimento l’emozione dell’assistere per la prima volta a uno spettacolo teatrale, che nel caso del romanzo è quella vissuta da un adolescente quasi analfabeta e che nella realtà spetterebbe di vivere a ogni ragazzo: «Dintra al triatro io me ne acchianai supra supra, vicino al tetto. U cori mi batteva forti. La testa mi firriava. Didopu, come si fossi addiventato un palloneddro di acqua saponata, di quelli liggeri e trasparenti che i picciliddri fanno per jocu con una cannuzza, accominzai a volare. Sissignura, a volari. Cillenza, mi deve crìdiri: volava! E prima m’apparsi il triatro da fora, poi la piazza cu tutte le persone e l’armàla, po’ la citate intera ca mi parse nica nica, poi vitti campagne virdi, li sciumi granni do Nord, li deserti gialli ca dìcino che ci sono in Africa, poi tutto il mondo istesso vitti, una palluzza colorata come a quella che c’è dintra a l’ovo. Dopu arrivai vicino a u soli, acchianai ancora e mi trovai in paradiso, con le nuvole, l’aria fresca pittata di blu chiaro, quarche stella ancora astutata. Poi la musica e lu cantu finero, io raprii gli occhi e vitti che dintra o triatro era arrimasto solo».
Già, “la musica e lu cantu finero”: Buon viaggio in paradiso, caro Maestro!