Gen. D.(c.a.) Luigi Di Biase
PREMESSA
“C’era una volta la Jugoslavia” non è il titolo di una fiaba, ma piuttosto l’epilogo della guerra che negli anni 90 ha sconvolto la vicina Jugoslavia.
IL 19 settembre 1992, a poco più di un anno dall’inizio di quel conflitto interetnico, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 777 decretò: “La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (RSFJ) si è dissolta senza lasciare eredi”.
Le pagine che seguono vogliono essere un sintetico racconto degli eventi che hanno portato alla disgregazione della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, così come li ho “osservati” nei tre anni (1991-1994) in servizio a Belgrado quale Addetto Militare, Navale ed Aeronautico presso l’ambasciata d’Italia.
Il termine ex Jugoslavia individua oggi il territorio della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (RFSJ), dissoltasi a seguito delle guerre balcaniche degli anni 90. La Federazione Jugoslava era un coacervo politico (sei repubbliche e due province autonome), etnico (sei etnie principali e diversi gruppi minoritari), linguistico (tre lingue ufficiali oltre a quelle dei gruppi etnici minoritari), religioso (tre religioni, di cui la cristiano-ortodossa divisa nelle due chiese serba e macedone).
Nel 1991, sul suo territorio di circa 256.000 Kmq (Italia circa 301.000 Kmq), coperto per oltre due terzi dalle aspre montagne delle Alpi Dinariche, vivevano circa 23 milioni di abitanti (Italia 58 milioni). La federazione comprendeva sei repubbliche e due province autonome: Slovenia (Lubiana) con 1.937.000 abitanti su 20.251 kmq (Abruzzo 1.254.000 abitanti su 10.797 kmq); Croazia (Zagabria) con 4.762.000 abitanti su 56,538 kmq; Bosnia – Erzegovina (Sarajevo) con 4.443.000 abitanti su 51.129 kmq; Serbia (Belgrado) con 9.990.000 abitanti su 88.361 kmq, incluse le province autonome del Kosovo (ab. 2.000.000 su 10.908 kmq – Pristina) e della Vojvodina (ab. 1.932.000 su 21.506 kmq – Novi Sad); Macedonia (Skopje) con 1.909.000 abitanti su 25.713 kmq; Montenegro (Podgorica ex Titograd) con 632.000 abitanti su 13.812 kmq.
La popolazione era costituita da Serbi (8.140.000), Croati (4.430.000), Musulmani (2.000.000), Sloveni (1.750.000), Albanesi (1.730.000), Macedoni (1.340.000), Montenegrini (580.000), Magiari 420.000), Zigani (170.000), Turchi (100.000) e ancora Slovacchi, Rumeni, Bulgari, Cechi, Ucraini e Italiani (15.000). Soltanto il 5% del totale degli abitanti si dichiaravano “Jugoslavi”, appartenenti cioè a nessuna delle citate etnie.
Le lingue ufficiali erano il Serbo-Croato (scritto sia in caratteri cirillici che in caratteri latino), lo Sloveno e il Macedone, ma nelle varie repubbliche erano riconosciute anche le lingue dei gruppi etnici minoritari quali l’Albanese in Kosovo e l’Ungherese in Vojvodina.
Le religioni professate erano la Cristiano – Ortossa (professata dal 41% della popolazione per lo più Serbi e Macedoni) distinta nelle due chiese Serba e Macedone, la religione Cattolica (professata dal 32 % della popolazione, Sloveni e Croati) e la religione Musulmana (professata dal 13% della popolazione). Il numero dei protestanti e degli ebrei era limitato all’1 %. Il rimanente 13 % della popolazione non seguiva alcuna religione.
Questo groviglio di popoli, di lingue e di religioni lo si ritrova anche all’interno delle singole repubbliche, fatta eccezione per la Slovenia, l’unica a presentare una certa compattezza etnica (sloveni 90,5 %).
In Croazia la popolazione era costituita dal 75% di croati, dal 22% di serbi e il rimanente 3% da altre etnie.
In Bosnia Erzegovina i musulmani costituivano il 39,2% della popolazione, i serbi il 32,2% , i croati il 18,4%.
In Serbia il 66,4% era di etnia serba, il 19,6% erano albanesi concentrati in Kosovo e nel Sangiaccato (Novi Pazar), il 2,3% erano croati. Il rimanente 11,7% apparteneva ad altre etnie compresa quella magiara della Vojvodina, o si considerava “jugoslavi”.
In Montenegro il 68,5% era di etnia montenegrina, il 13,4% di etnia musulmana, il 6,5% erano albanesi e il 3,3% serbi.
In Macedonia la popolazione era composta dal 67% di macedoni, dal 19,6% di albanesi, il rimanente 13,4% era costituita da serbi, bulgari e greci.
Anche all’interno delle varie repubbliche i gruppi etnici erano frammischiati e distribuiti a “macchia di leopardo” sul territorio. Tracciare chiari confini etnici era praticamente impossibile.
Moltissime famiglie infine erano “miste” , costituite cioè da coniugi appartenenti a differenti etnie.
L’unica entità federale unitaria era l’Armata Popolare Jugoslava (JNA), considerata uno dei più potenti eserciti in Europa (250.000 uomini). Le forze armate avranno un ruolo di primo piano nella tragedia della Jugoslavia.
Oltre alla JNA, la organizzazione militare della RFSJ comprendeva le unità della Difesa Territoriale (1 milione di uomini e donne ) che, sebbene armate ed addestrate a svolgere compiti militari, erano alle dirette dipendenze delle singole repubbliche e quindi autonome rispetto alla JNA.
La Difesa Territoriale era costituita indistintamente da uomini e donne abili che potevano essere mobilitati (chiamati alle armi) anche a livello di municipalità. Il loro compito era la difesa ad oltranza del territorio che abitavano.
Le unità della Difesa Territoriale avranno anche esse un ruolo determinante nella pulizia etnica praticata da tutti contro tutti.
Nella crisi risorgeranno e agiranno anche le più disparate formazioni e strutture paramilitari quali Cetnici e Tigri di Arkan dalla parte serba, Ustascia croati, aquile bianche musulmane e volontari e mercenari per lo più dai paesi islamici.
Delineato lo scenario e individuati gli attori principali, uno sguardo alla storia recente aiuta a comprendere le origini e le cause della disgregazione della RFSJ.
Il primo stato indipendente jugoslavo, Regno di Jugoslavia (1^ Jugoslavia), nacque il 1° dicembre 1918 dalle rovine delle 1^ guerra mondiale.
Alla sua fondazione presero parte tre popoli: i Serbi, i Croati e gli Sloveni, gli unici a quel tempo ad essere politicamente ed ideologicamente riconosciuti.
I Macedoni, i Montenegrini ed i Musulmani non erano ancora riconoasciuti come popolo o nazione. Questi gruppi etnici, a quel tempo, erano considerati entità insignificanti. Gli Albanesi erano del tutto ignorati.
Al momento della nascita della 1^ Jugoslavia (1° dic.1918) soltanto la Serbia poteva essere considerato uno stato vero e proprio. Solo essa infatti disponeva di un proprio esercito, di una propria diplomazia e di una propria amministrazione.
La 1^ Jugoslavia, nonostante l’aspirazione dei suoi popoli (slavi del sud) ad unirsi sulla base del principio di uguaglianza allo stato serbo, finì con l’essere una estensione della Serbia, a causa della politica espansionistica tenacemente perseguita dall’allora potente classe dirigente di Belgrado.
Il primo Stato Jugoslavo nasce quindi con i germi della instabiltà interna.
All’egemonismo serbo si opponevano già il nazionalismo croato e il nazionalismo sloveno. La seconda guerra mondiale fece esplodere le latenti tensioni inter-etniche, tanto che nel teatro jugoslavo si trasformò in una guerra di tutti contro tutti.
Da 1941 al 1945 in quel teatro di guerra si scontrarono quattro eserciti stranieri (tedesco, italiano, bulgaro e ungherese) e una decina di unità o formazioni militari interne (serbi e cetnici serbi, croati e ustascià croati, sloveni e guardia bianca slovena, milizia musulmana, balisti albanesi, ecc.).
La 1^ Jugoslavia finì in un bagno di sangue con oltre un milione di morti.
Gli scontri più aspri e sanguinosi avvennero in Bosnia – Erzegovina a causa della sua struttura multietnica e pluriconfessionale.
La tragedia di allora si riproporrà con la stessa drammacità negli anni 1991 – 1995 a seguito dalla secessione delle repubbliche dalla federazione jugoslava.
La 1^ Jugoslavia, sorta dalle rovine della grande guerra, ebbe fine perché non riuscì a mettere d’accordo i suoi popoli né territorialmente, né politicamente, né culturalmente.
La 2^ Jugoslavia o Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RFSJ), come la 1^Jugoslavia, nasce dalle rovine di una guerra : la seconda guerra mondiale. Il 29 novembre 1945, a Jajce in Bosnia, Josip Broz (Tito), capo indiscusso della lotta partigiana, annunciò la fine della monarchia e la nascita di un nuovo stato, fondato sul principio del federalismo.
Egli prospettò una federazione tra serbi, croati, sloveni, macedoni e montenegrini, ognuno con il diritto ad avere una propria repubblica popolare.
Al problema della Bosnia – Erzegovina fu data l’unica soluzione possibile: quelle terre furono definite come Repubblica dei Serbi, dei Croati e dei Musulmani. Questi ultimi, ancora etnicamente indistinti , saranno elevati al rango di “popolo costitutivo della federazione” soltanto negli anni sessanta.
Durante gli anni della “guerra fredda”, la RFSJ si propose come stato cuscinetto tra est e ovest diventando uno dei Paesi leader del “non allineamento”. Ideologicamente e politicamente fondata sul modello sovietico, ma incline verso l’occidente per tradizione e necessità economica, la RFSJ risente (sin dagli anni 50) della precaria convivenza tra elementi antisovietici e elementi antioccidentali, contemporaneamente presenti al suo interno.
A questo fattore di instabilità si aggiungeva quello molto più grave della “questione nazionale” che altro non era che l’innata aspirazione delle diverse etnie a vivere in un proprio stato nazionale.
Consapevole di ciò, Tito stroncò sul nascere l’insorgere dei nazionalismi latenti, diluì i gruppi etnici ridisegnando i confini delle varie repubbliche e soffocò i processi di democratizzazione che, in diversi momenti e nelle varie repubbliche della federazione, si manifestarono.
La costituzione federale riconosceva il diritto delle diverse etnie a vivere in un proprio stato nazionale, regolava i rapporti fra le varie repubbliche e tra le diverse etnie e stabiliva che tali rapporti potevano essere modificati soltanto con il consenso unanime delle etnie e repubbliche coinvolte.
La costituzione federale riconosceva quindi il diritto alla secessione ma lo subordinava al “consenso unanime” delle entità coinvolte.
Il “principio del consenso unanime”, cardine della costituzione della federazione, recepito anche dalle costituzioni delle varie repubbliche, permetteva sì la convivenza (forzata) ma condannava all’immobilismo. A tale principio si appelleranno i serbi di Bosnia e di Croazia quando si opposero alla secessione delle due repubbliche dalla federazione jugoslava.
Tito aveva sempre tenuto presente ed applicato il criterio : “ la federazione è forte nella misura in cui le repubbliche sono deboli”. Sotto la sua dittatura erano state represse sul nascere, anche con la forza, le spinte nazionaliste, congelando di fatto l’assetto istituzionale della 2^ Jugoslavia.
Il 4 maggio del 1980, con la morte di Tito, scompare l’unica forza di coesione che nel bene e nel male teneva insieme la federazione jugoslava.
A lui subentra una “Direzione Collegiale della Federazione” costituita da otto membri (presidenti delle repubbliche e delle due province autonome della Serbia). I presidenti delle 6 repubbliche assumeranno a turno la funzione di “Presidente della Presidenza della RFSJ”.
Con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, decade la funzione di “stato cuscinetto” della RFSJ e la federazione precipita verso una terribile crisi economica. Il debito verso l’estero diventa insostenibile, la banca nazionale non più affidabile e l’inflazione non più controllabile.
Nel 1990 viene sciolta la “Lega dei Comunisti” e con la vittoria elettorale dei partiti nazionalisti inizia l’agonia della 2^ Jugoslavia. Già nel 1991 i giornali locali titolano: “Jugoslavia lo Stato che non esiste più” e “Jugoslavia lo Stato che odia se stesso”.
L’Armata Popolare Jugoslava (JNA) si porrà a difesa della unitarietà della federazione e contrasterà con ogni mezzo lo sforzo delle varie repubbliche di costituire proprie forze armate, incentrate sulle dipendenti unità della Difesa Territoriale.
La crescente defezione dei quadri appartenenti ad altre etnie e la diffusa renitenza alla leva dei giovani non serbi portano la JNA verso la progressiva “serbizzazione”, in parte anche voluta dagli alti gradi serbi delle forze armate che non si fidano del personale appartenente ad altre etnie.
La JNA sarà sempre a fianco dei serbi, ebbe a dichiarare una alta carica militare. A tale dichiarazione si aggiunge quella di Milosevic: “laddove c’è un serbo lì è la Serbia”. Una serie di “concause” quali:
– l’assenza di un legame nazionale in grado di coagulare intorno ad una entità federale le tensioni politiche, economiche, etniche, linguistiche, religiose e culturali;
– la miopia dei dirigenti politici locali che pur di mantenere il potere alimentano il malcontento popolare verso le altre etnie;
– l’enorme debito pubblico non più sostenibile;
– lo squilibrio economico tra le repubbliche settentrionali (Slovenia e Croazia), più ricche e progredite aperte all’occidente e le repubbliche meridionali più povere ed arretrate orientate più ad est;
– l’immobilismo degli organi collegiali federali il cui processo decisionale è bloccato dal principio del consenso unanime, al quale la costituzione subordina ogni cambiamento;
– il nazionalismo serbo delle forze armate;
– il centralismo della Serbia, avviano la RFSJ verso la definitiva disgregazione.
Anche la 2^ Jugoslavia finirà in un bagno di sangue come la 1^ Jugoslavia.
La comunità internazionale si è interessata concretamente alle vicende Jugoslave troppo tardi, e quando è intervenuta lo ha fatto in maniera contraddittoria e spesso, purtroppo, senza avere l’esatta cognizione di ciò che stava avvenendo realmente in quei territori. Si assiste ad una specie di “guerra mediatica” dove le “mezze verità” diventano più fuorvianti delle false notizie. Inviati speciali, rappresentanti di organizzazioni internazionali e giornalisti enfatizzano gli elementi di situazione utili a sostenere scenari precostituiti e minimizzano quelli che indicano tendenze diverse.
Allo scoppio della crisi la comunità europea si adopera per tenere unita la federazione jugoslava cercando di frenare l’aspirazione all’indipendenza delle repubbliche settentrionali di Slovenia e Croazia. Successivamente, sotto la pressione dell’Austria, della Germania e della chiesa di Roma, asseconda la secessione delle varie repubbliche dalla federazione.
LA SECESSIONE DELLE REPUBBLICHE
Slovenia
Il 25 giugno 1991 la Slovenia dichiara la propria indipendenza dalla RFSJ. Mobilita la Difesa Territoriale ed assume il controllo dei valichi di frontiera con l’Italia, con l’Austria e con l’Ungheria. Le leggi federali vengono abrogate e viene imposto il “blocco delle caserme”.
Il 27 giugno interviene la JNA per imporre il rispetto delle leggi federali. L’ armata popolare, “debilitata” da una serie di problemi interni, abbozza un poco convinto tentativo di riprendere il controllo delle frontiere della federazione, rinunciando in pratica ad intervenire concretamente. Lasciate libere di ritirarsi, le unità della JNA di stanza in Slovenia si ridislocano più o meno pacificamente in Croazia e in Bosnia.
La secessione della Slovenia avviene in maniera quasi indolore pur contando 62 morti (39 della JNA, 8 della Difesa Territoriale e milizia slovena, 15 civili).
Nella crisi slovena la JNA schiera non più 20.000 uomini contro i circa 40.000 della Slovenia. Il non-impegno diretto nella crisi slovena ed il conseguente ritiro delle sue unità da quella repubblica sono il sintomo della incapacità della JNA di assicurare la unitarietà della federazione il cui processo di dissoluzione diventa irreversibile.
La secessione della Slovenia, riconosciuta da non più di 40 stati, segna la fine delle istituzioni federali e l’inizio dei conflitti serbo–croato, serbo–bosniaco e serbo–macedone. La JNA, ormai forza armata serba, agirà sempre a supporto diretto e indiretto delle entità serbe.
Croazia
La secessione della Croazia avvenne in un bagno di sangue. Il 21 febbraio del 1991 la Croazia ( presidente Franjo Tugjman – ex generale della JNA) abroga le leggi federali e si avvia sulla strada dell’indipendenza, nonostante l’opposizione della etnia serba (11,5 % della popolazione) che, appellandosi al principio del consenso unanime previsto dalla costituzione, manifesta la volontà di rimanere comunque nella federazione jugolslava. Quando il 25 giugno 1991 anche la Croazia dichiara l’indipendenza, i serbi, maggioritari nelle aree della Lika e della Slavonia proclamano la loro “Repubblica delle Krajine Serbe” con capitale Knin (città natale di Ratko Mladic considerato criminale dall’occidente ed eroe dai serbi di Croazia, suicidatosi platealmente alla lettura della sua condanna dal Tribunale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia). Entrambe le etnie mobilitano la Difesa Territoriale. Agli sforzi di Zagabria di acquisire il controllo del territorio dell’intera repubblica si oppongono le milizie serbe che, sostenute da unità della ex armata popolare, controllano circa il 30 % del territorio dell’intera Croazia, Nelle aree contese l’odio interetnico esplode incontrollato con ferocia indescrivibile coinvolgendo tutti e tutto e cancellando ogni traccia di civiltà. Vukovar rappresenta la sintesi della ferocia e della stupidità umana. Nel tentativo di evitare che il conflitto tra croati e serbi di Croazia coinvolga direttamente la Serbia, la Comunità Europea invia propri osservatori per controllare il rispetto di una tregua faticosamente raggiunta e mai rispettata.
L’Italia che all’epoca aveva la presidenza della CEE invia 80 osservatori, diversi automezzi e tre elicotteri. Il 7 gennaio del 1992, uno di questi elicotteri viene abbattuto nello spazio aereo di Zagabria da un mig 21 dell’aviazione ancora ufficialmente jugoslava, decollato dalla base di Bihac. L’italia paga così il suo primo contributo di sangue per una pace che sul terreno nessuno vuole. Nel frattempo anche il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite decide di inviare osservatori militari in Jugoslavia.
Il 21 febbraio 1992, 14.000 caschi blu (UNPROFOR 1– Forze di protezione) vengono inviati in Croazia per il mantenimento di una pace che esisteva solo nei desideri. I caschi blu delle Nazioni Unite si schierano nelle aree controllate dai serbi nella Lika e nella Slavonia (UNPAs – United Nations Protected Areas). L’unico risultato raggiunto fu il congelamento della situazione. Nel 1995, infatti, i croati attaccheranno le enclavi serbe della Slavonia e della Lika (Operazione Tempesta). Diverse migliaia di serbi di Croazia saranno scacciati dalle terre che da sempre avevano abitato e, con mezzi di fortuna, raggiungeranno la Serbia e la Bosnia.
Nel settembre del 1991 anche la Macedonia dichiara l’indipendenza. Il preventivo schieramento di un migliaio di caschi blu ed il ritiro concordato in Serbia delle unità della JNA tengono fuori dal conflitto quella repubblica. Ma nelle relazioni internazionali essa non avrà il diritto di chiamarsi “Repubblica di Macedonia”, dovrà chiamarsi “Repubblica di Macedonia della ex Jugoslavia” (FJROM). Nel giugno 2018, dopo un contenzioso di 27 anni, il governo greco e quello macedone, raggiungono un accordo sul nome di “Repubblica di Macedonia del Nord”, che dovrà essere “ratificato” dai cittadini dei due Paesi. Il termine Jugoslavia viene così cancellato definitivamente dalla geografia dei Balcani. Subito dopo la dichiarazione dell’indipendenza, il governo macedone emise una carta geografica del Paese con la semplice scritta “Macedonia”, ritirata dalla circolazione subito dopo l’emissione su “pressione ” della Grecia.
La secessione della Bosnia – Erzegovina, il 3 marzo 1992, scatena un conflitto interetnico ancora più cruento di quello serbo-croato contemporaneamente in atto. In Croazia si fronteggiano due gruppi etnici, serbi e croati, in Bosnia Erzegovina le etnie in lotta sono tre, musulmani, serbi e croati. La carta etnica della Bosnia – Erzegovina del 1991 sintetizza visivamente la impossibilità di dividere pacificamente il paese lungo confini etnici ed aiuta a comprendere ciò che accadde in quelle terre. Quando il governo centrale di Sarajevo decide la secessione dalla federazione, i serbi di Bosnia proclamano la loro Repubblica Serba della Bosnia con capitale Banja Luka. Nel contempo, nei territori dove sono maggioritari, anche i croati dell’Erzegovina proclamano la loro Repubblica dell’Erzegovina con capitale Mostar. Tutte le 106 municipalità della della Bosnia – Erzegovina chiamano alle armi gli uomini e le donne della Difesa Territoriale e, poichè nessuna municipalità era etnicamente omogenea, lo scontro coinvolge i gruppi etnici anche all’interno di uno stesso comune degenerando in guerra civile. Ha inizio così una terribile pulizia etnica praticata indistintamente da tutte le etnie, che di volta in volta e in relazione alla situazione del momento, danno vita alle più disparate alleanze. L’obbiettivo è quello di assicurarsi con tutti i mezzi disponibili il controllo assoluto del territorio, terrorizzando ed annientando l’etnia contrapposta affinchè la stessa non possa più farvi ritorno. E’ in questa ottica che nel luglio del 1995 i serbi di Bosnia, agli ordini di Ratko Mladic ex ufficiale della JNA, “ripuliranno” dai musulmani ( oltre 8.000 morti) la municipalità di Srebreniza (una della 4 U.N.P.As – aree protette dell’ONU), dopo l’abbandono dell’area da parte dei caschi blu olandesi. In precedenza la popolazione serba di quella municipalità (circa il 30%) era stata costretta a “trasferisi altrove”. Arrivano mercenari dai paesi più disparati, in maggior parte dai paesi islamici. I capi politici e militari locali rispondono sempre meno alle autorità centrali alle quali sfugge il controllo della situazione. In tutta la Bosnia divampa una sorta di “guerriglia etnica” e, come nel 1941-45, il conflitto si trasforma in una guerra di tutti contro tutti. A nord, lungo il corridoio della Sava, croati e musulmani uniti combattono contro i serbi nel tentativo di recidere i collegamenti di questi con i serbi di Croazia della repubblica delle Krajine serbe. A sud – est i serbi combattono contro i musulmani nel tentativo di assicurarsi il controllo della direttrice Utice – Goradze – Trebljine – Dubrovnik. A Mostar i croati, aiutati dai serbi, combattono contro i musulmani per assicurarsi il controllo dell’intera città. Il 9 novembre 1993 i croati distruggono il vecchio ponte sulla Neretva che per 500 anni aveva unita la parte croata a quella musulmana. A Sarajevo musulmani e serbi si contendono il controllo dell’aeroporto e delle alture che dominano la città. Nella Bosnia centrale i musulmani cercano di “ripulire” le enclavi croate di Vitez e di Kiselaijack. Nella Bosnia settentrionale, nell’area di Bihac, i musulmani combattono tra di loro. I seguaci del capo locale (Fictel Abdic) contendono il controllo del territorio ai musulmani fedeli al governo centrale di Sarajevo. Nessuno tiene più il conto dei morti, mentre verso la fine del 1993 i profughi erano oltre il 30% della popolazione (1.300.000).
Intervengono ancora le Nazioni Unite che estendono anche alla Bosnia il mandato delle forze di protezione (U.N.Pro.For. 2). Altri 14.000 caschi blu vengono schierati in Bosnia Erzegovina per assicurare la disponibiltà dell’aeroporto di Sarajevo per permettere l’afflusso degli aiuti umanitari e per garantire la sicurezza delle cosiddette zone protette di Zepa, Goradze, Sarajevo, Tuzla, Bihac e Srebreniza di cui si è gia parlato. Il 3 settembre 1992, sulle alture a Nord-Ovest di Sarajevo ( M. Zec) dove sono in atto scontri tra croati e musulmani, viene abbattuto da misili terra-aria SA-9 l’aereo da trasporto italiano G 222 della 46^ aerobrigata. Nessuno saprà con certezza da chi furono lanciati i missili.
Per flemmatizzare gli scontri, nel 1993, le Nazioni Unite autorizzano la NATO ad intervenire in Bosnia (operazione “deny flight”) per interdire ad aerei militari dei belligeranti il sorvolo del cielo della Bosnia e per condurre azioni di appoggio aereo ravvicinato a protezione dei caschi blu a terra. Il coordinamento e la cooperazione tra il Comando dei Caschi Blu e il Comando Nato non risultò “particolarmente felice”. Nel frattempo viene imposto l’embargo sulle armi per tutte le repubbliche della ex Jugoslavia, mentre la Federazione Serbia – Montenegro (sorta a seguito della secessione delle altre repubbliche) accusata di sostenere la Repubblica Serba di Bosnia, viene assoggettata ad embargo totale. L’Adriatico viene pattugliato dalle navi dei Paesi UEO che nulla fanno o possono fare contro i velocissimi motoscafi dei contrabbandieri, che basati a Cotor (Cattaro) in Montenegro, fanno la spola da e per la costa brindisina traghettando di tutto. A Cattaro era stata addirittura stabilita una “struttura logistica” a sostegno di quei motoscafi ed era quasi normale sentire il dialetto brindisino. Anche il Danubio viene controllato da una flottiglia della CEE a monte e a valle dei confini serbi. Dal 30 agosto al 20 settembre 1995 la Nato conduce l’operazione “deliberate force” contro i serbi di Bosnia per costringerli ad accettare un accordo di pace. L’intesa politica raggiunta faticosamente il 21 novembre 1995 a Dayton (Ohio – USA), sottoscritta tre settimane dopo a Parigi (Accordi di Dayton) mise fine alla guerra in Bosnia – Erzogovina, ma non alle tensioni nella ex Jugoslavia.
La Bosnia Erzegovina dopo gli accordi di Dayton
Il soggetto di diritto internazionale, scaturito da quegli accordi, è costituito da due entità:
– la Repubblica Serba, a maggioranza serba, che occupa il 49% del territorio;
– la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, costituita dalla “Repubblica dell’Erzegovina” (maggioranza croata) e dalla “Repubblica della Bosnia” (maggioranza musulmana), che occupa, nel suo insieme, il rimanente 51% del territorio.
Questa ripartizione della Bosnia – Erzegovina è il risultato delle operazioni belliche e della pulizia etnica praticata in quell’area. Essa contiene tutti gli incredienti per una “instabilità permanente”. Qualcuno ha detto: “la Bosnia Erzegovina è il Paese dei Musulmani, dei Serbi e dei Croati, ma esso non appartiene né ai Musulmani, né ai Serbi, né ai Croati”.
Repubblica federale di Jugoslavia (Serbia e Montenegro)
Il 27 aprile 1992, a seguito dell’indipendenza delle repubbliche di Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina, la RFSJ si trasforma in Federazione Jugoslava costituita da Serbia (con le due province del Kosovo e della Vojvodina) e Montenegro. La Repubblica Federale di Jugoslavia non sarà mai considerata come stato continuatore della RFSJ né dalla comunità internazionale, né dalle altre repubbliche secessioniste. Accusata del sostegno diretto alla Repubblica Serba della Bosnia, il 30 maggio 1992, la Repubblica Federale di Jugoslavia viene assoggettata ad embargo totale (risoluzione ONU 757). Il Paese sprofonda in una crisi senza precedenti. La “campagna” sopravvive ma non alimenta più la “città”. I ceti medio – bassi che vivono nelle città sperimentano un pesante carenza di generi anche di prima necessità. I negozi sono desolatamente vuoti e negli ospedali manca di tutto, persino il filo per le suture. Fiorisce il contrabbando gestito dai clan vicini al potere e chi può cerca di lasciare il Paese che nulla fa o può fare per arginare la preoccupante fuga di giovani laureati. Davanti ai consolati di alcuni Paesi, tra cui l’Italia, si formano code interminabili di richiedenti il “visto di ingresso” .
Alle frontiere terrestri (gli aeroporti sono chiusi) si registrano tempi di attesa anche di giorni per lasciare il Paese. L’inflazione sfugge ad ogni controllo tanto che i prezzi nei negozi vengono aggiornati due volte al giorno. La banca nazionale in tre anni emette tre serie di Dinari, l’ultima banconota riporta 11 zero dopo il numero intero ed è sufficiente solo per la sopravvivenza di un giorno. Fioriscono “banche private” che, con il miraggio di interessi elevati, rastrellano i risparmi in valuta pregiata (marchi tedeschi e dollari usa) dei cittadini sprovveduti, per poi sparire nel nulla (con i risparmi dei cittadini).
Nel 1999 la NATO lancia l’operazione “Allied Force” contro la Serbia accusata di condurre operazioni di pulizia etnica in Kosovo. Quell’intervento, “non autorizzato” dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in contrasto con il diritto internazionale e con lo statuto della stessa NATO, conseguì discutibili risultati sia operativi che politici. Motivato da presupposti non del tutto corretti, servì ad inasprire il risentimento dei serbi nei confronti dell’Occidente, Italia compresa. Per giustificarlo, non trovando validi appigli nel diritto internazionale, si coniarono i termini di “guerra giusta” e “guerra umanitaria”, dimenticando che la guerra non è mai giusta e mai umanitaria, è sempre l’imposizione violenta della volontà del vincitore sul vinto, con buona pace del diritto internazionale.
Il 10 giugno 1999, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 1244, pone fine alla guerra in Kosovo, sospende la sovranità della Serbia sulla provincia e vi stabilisce una amministrazione transitoria civile guidata dalle Nazioni Unite, ancora in atto. Nel giugno del 2006, il Montenegro esce definitivamente dalla federazione con la Serbia. Nello stesso anno, l’11 marzo 2006, presso il Tribunale per i Crimini di Guerra nella ex Jugoslavia all’Aia (Olanda), dove era detenuto in attesa di processo, muore Slobodan Milosevic, uno dei principali responsabili della guerra in Jugoslavia degli anni 90.
Kosovo
Nei tre anni trascorsi a Belgrado andavo spesso “in ricognizione” in Kosovo. Da quando ebbi modo di osservare ne ricavai la convinzione che i serbi (200.000), più che praticare una pulizia etnica, cercassero di arginare “una aggressione demografica” da parte albanese (1.800.000). Alla scarsa natalità serba faceva riscontro, infatti, una esplosione di quella dell’etnia albanese. Girando per la regione colpiva la vitalità della campagna, animata da frotte di bambini albanesi che vagavano liberi per il territorio. In quel periodo non rilevai né una anomala presenza di forze di polizia, né una progressiva militarizzazione della regione denunciata da quanti avevano interesse a sostenere il nascente UCK. Ebbi la “sensazione” che il Kosovo fosse “uno Stato nello Stato” (si parlava albanese e si ignoravano le leggi di Belgrado) e la percezione di una “situazione pronta ad esplodere” su iniziativa di chiunque potesse avere l’insano interesse a destabilizzare la regione.
La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008 cala il sipario sulla tragedia jugoslava e apre nuovi scenari di guerra.
73 Paesi al mondo non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, tra i quali la Cina, l’India, la Federazione Russa, la Serbia, la Spagna, Cipro ed altri.
“L’effetto domino”, a suo tempo paventato da Putin, ha già coinvolto l’Ukraina e rischia di dare forza alle spinte indipendistiche delle minoranze in altri Paesi come la Catalogna in Spagna, che proprio per questo non riconoscono l’indipendenza del Kosovo. Negli anni 90, un alto Ufficiale serbo, membro dell’ Ufficio Studi Strategici della Serbia, concludeva un suo “saggio” sul Kosovo con queste parole: “ ove il Kosovo dovesse muovere verso l’indipendenza noi dobbiamo prepararci alla guerra”. Oggi quello stesso Ufficiale ritiene l’indipendenza del Kosovo opportuna per contenere entro i confini del Paese “l’esplosione demografica” albanese. A suo dire, stante l’attuale “trend” demografico, con un “Kosovo nella Serbia”, in un prossimo futuro, l’etnia albanese diverrebbe “maggioritaria” nella intera Serbia. Questo suo pensiero potrebbe rendere percorribile la strada della divisione del Kosovo (in discussione). Divisione che aggiungerà altre “comparse” alla tragedia jugoslava che ha già causato oltre 100.000 morti.
Confrontando la cartina della ex Jugoslavia del 91 con quella di oggi si vede che poco o nulla è cambiato a seguito della guerra e quello che è cambiato è cambiato in peggio, infatti:
– si è accentuata la frantumazione politica. Un unico soggetto di diritto internazionale (la RFSJ) ne ha generati “sei più uno” (Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia e forse Kosovo);
– i confini interni sono stati sostituiti da frontiere con notevoli limitazioni alla circolazione delle genti e delle merci ed un ancor più accentuato isolamento di quei popoli;
– si è approfondito il solco dell’odio tra le varie etnie.
E’ lecito quindi chiedersi a cosa siano serviti gli oltre 100.000 morti e le sofferenze di quella gente, considerato anche che i Balcani continuano ad essere “la polveriera” dell’Europa posto che:
– un riconoscimento generalizzato della indipendenza del Kosovo potrebbe spingere anche la Repubblica Serba di Bosnia a intraprendere la strada per l’indipendenza e “riaccendere il fuoco”, non ancora spento, nella Bosnia Erzegovina;
– la naturale aspirazione degli albanesi del Kosovo, del Montenegro e della Macedonia a riunirsi in una unica Entità albanese nell’ambito di una grande Albania e le “tendenze centrifughe” dei gruppi etnici all’interno della Macedonia (albanesi, serbi, bulgari e greci) potrebbero destabilizzare tutta l’area meridionale dei balcani, riproponendo a sud lo scenario che ha già tragicamente sconvolto il nord della ex Jugoslavia.
– Il ritorno dei profughi serbi di Croazia nelle loro terre è un problema ancora da risolvere.
Forse senza le ingerenze e gli interventi esterni, quei popoli avrebbero trovato da soli la via della convivenza con meno morti e meno sofferenze .
Il processo di disgregazione della ex Jugoslavia non sembra molto dissimile da quello che oggi vive l’Unione Europea.
Il risorgere dei nazionalismi, le tendenze centrifughe di alcuni Paesi della Comunità, le istanze di indipendenza di alcune minoranze e la crisi economica configurano una “balcanizzazione” anche dell’Europa.
“ C’era una volta l’Unione Europea” potrebbe non essere l’inizio di un racconto di fantascienza.
_________ ottobre 2018 _______