di Mario Setta
L’AQUILA – Introdacqua, paese natale, si impegna da anni, a livello istituzionale, a far conoscere e valorizzare la personalità e l’opera di un suo degno figlio, il poeta e scrittore Pasquale D’Angelo. Un autore che costituisce un “caso”, come da molti è stato rilevato (cfr. G. Prezzolini, Scrittori italiani nel mondo. Voci di poeti nostri negli Stati Uniti). E come lui stesso dice, a conclusione del suo libro, Son of Italy: “mi trasformai in un caso di incredibile interesse”.
Il “caso Pascal D’Angelo” può essere analizzato secondo due aspetti: letterario e sociologico. Sotto il profilo letterario si tratta di un caso intrigante e, per molti aspetti, ancora fitto di interrogativi dalle molteplici risposte. Se applicassimo alla sua opera, estremamente ridotta, le categorie che Italo Calvino espresse nelle Lezioni americane, pubblicate postume, ne verrebbe fuori un quadro interessante. Calvino presenta alcune “proposte per il prossimo millennio”. Sono le linee fondamentali da conservare e tramandare per il millennio che abbiamo iniziato.
Della prima, la leggerezza, pone in rilievo “la funzione esistenziale della letteratura, e la leggerezza come reazione al peso di vivere”. E cita Lucrezio e Ovidio, mossi dal bisogno di liberarsi dalla precarietà dell’esistenza. In D’Angelo c’è la stessa esigenza: la fuga verso la letteratura per liberarsi dalla sua condizione di emarginato, di escluso, (“dago”, “wop”). Altra proposta di Calvino, la rapidità: “Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile”. Aggettivi che si adattano perfettamente al libro di Pascal D’Angelo.
Quanto all’esattezza, il libro di D’Angelo non può essere considerato totalmente “perfetto” (il compianto e grande esperto dell’opera di D’Angelo, Rino Panza, ha spulciato varie inesattezze!). Ma se Leonardo poteva definirsi “omo sanza lettere”, a maggior ragione Pascal D’Angelo può ben ritenersi, con sincera modestia, “uomo del piccone e della pala” (“pick and shovel man”). Per la visibilità, Calvino ricorre a Balzac e scrive: «Balzac nella Commedia umana infinita dovrà includere anche lo scrittore fantastico che lui è o è stato, con tutte le sue infinite fantasie; e dovrà includere lo scrittore realista che lui è o vuol essere, intento a catturare l’infinito mondo reale nella sua “Commedia umana”». In D’Angelo, i due aspetti sono coesistenti e coessenti: realtà e fantasia s’intrecciano in una continua dialettica. Forse per questo sente il bisogno di integrare, nella sua autobiografia, la prosa con la poesia.
Trattando, infine, della molteplicità, Calvino scrive: «Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili». A questi interrogativi di Calvino, ecco gli interrogativi di Pascal D’Angelo, nella lettera all’editore di The Nation: «Io sono uno che arranca con fatica per emergere dal buio dell’ignoranza e portare il suo messaggio di fronte ad un pubblico, di fronte a voi. Voi la cui missione è di difendere l’immensa causa degli oppressi. Questa lettera è il grido di un’anima che si è arenata sui lidi tenebrosi lungo il suo disperato viaggio verso la luce […]» E, a conclusione dell’autobiografia, annota: «Per gli ambienti letterari mi trasformai in un caso di incredibile interesse, divenendo oggetto di grandi festeggiamenti, curiosità e attenzione. […] Ma, fra tutte, le parole più sentite e sincere che mi scaldarono il cuore, furono quelle dei miei compagni…».
Queste parole conclusive riportano il “caso Pascal D’Angelo” da quello letterario a quello sociologico. Perché si tratta soprattutto di “caso sociologico”. Pascal D’Angelo, descrivendo la sua vita di emigrante, descrive la vita degli emigranti italiani negli Usa, ai primi decenni del ‘900. Nella sua vita di emarginazione, di stenti, di maltrattamenti c’è la vita delle migliaia di abruzzesi e dei milioni di italiani che emigrarono per le terre scoperte da Colombo. La sua opera non è solo una descrizione, è anche una denuncia. Non un libro politico, ma un grido di rivolta in nome dei valori umani, universali. Jean Paul Sartre, nella prefazione al libro di Frantz Fanon, I dannati della terra, ha scritto: “Le bocche s’aprirono da sole; le voci gialle e nere parlavano ancora del nostro umanesimo, ma era per rimproverarci la nostra inumanità”. Il libro di Pascal D’Angelo si pone su questo filone, che sta tra l’inchiesta e la denuncia, tra l’arte e il messaggio, tra l’intuizione e la ragione. Un’opera che può ben definirsi: “libro di vita”. Una vita che si “radica” su due terreni: Introdacqua e New-York, Càuze e Mulberry Street.
“Càuze”, un agglomerato di poche case, allora come oggi. Il nome, ha rilevato Rino Panza, deriva forse dalla parola “gelso”, in dialetto “céuze”, albero allora diffuso e di cui ancora oggi rimane nella zona qualche esemplare. Vi abitano due o tre famiglie, circa dieci persone. Ai tempi di Pasquale D’Angelo le famiglie che vi abitavano erano una dozzina. Poco meno di cinquanta persone. Si viveva di agricoltura e con l’allevamento del bestiame: pecore, capre, maiali, mucche, galline, ecc. Nella prima parte del libro (un terzo circa), Pascal D’Angelo si sofferma a descrivere la vita che si svolgeva in paese (Introdacqua) e nella contrada (Cauze): la casa, il paese, le montagne, la scuola, il lavoro, le streghe, ecc. È un’indagine dal taglio antropologico, una descrizione da osservatore partecipante (participant observer).
Passa poi a presentare le motivazioni di fondo dell’emigrazione: «La nostra gente è costretta ad emigrare, ad allargare i confini di un’esistenza stretta nella morsa di uno spazio angusto. In quelle terre ci sentiamo in trappola. Ogni centimetro appartiene a pochi privilegiati che la fanno da padroni. Col finire dell’inverno buona parte dei campi della nostra valle viene data in affitto o messa stagionalmente a disposizione dei contadini che pagano pigioni altissime a tassi d’usura, vale a dire, beneficiando solo della metà o addirittura di un quarto del raccolto, a seconda delle necessità che dipendono dal proprietario o dalle condizioni disperate del contadino in cerca di terra» (Son of Italy, p. 65)
La soluzione al problema dello sfruttamento in casa è la partenza per il Nuovo Mondo: «Cos’è allora che trae l’uomo in salvo impedendogli di rimanere schiacciato sotto il peso di quella inesauribile necessità? Il Nuovo Mondo!» (Son of Italy, p. 65)
Si ricrea e si rafforza la solidarietà paesana: «Qui gli immigrati che arrivano dalla stessa città formano gruppi compatti tra loro, e simili ad uno sciame d’api dello stesso alveare, vanno a lavorare laddove il loro caposquadra o ‘boss’ gli trova qualcosa. Così noi che ci eravamo riuniti quasi per caso diventammo come una vera famiglia fino al giorno in cui la morte e altre calamità non ci costrinsero a separarci». (Son of Italy, p. 80)
Ma anche qui, la vita non è meno dura: “Ovunque era ammazzarsi di fatica…”; “Ovunque era lavoro e fatica, sotto una cappa di sole incandescente o sotto le sferzate della pioggia, lavoro e sempre lavoro: continuo e inarrestabile”. Le pagine sulla sua condizione di lavoro, sulla sua sopravvivenza precaria, sul suo disagio di vivere sono tra le più toccanti e sconvolgenti. Ma la soluzione non viene ricercata nella politica o nel sindacato. È strettamente personale: il piacere dello scrivere, del comunicare, dell’elaborare un pensiero poetico. Percy Bysshe Shelley, un poeta noto e amato da Pascal D’Angelo, ha scritto: “cibo dei poeti è l’amore e la fama”. Pascal D’Angelo ha cercato di nutrirsi di questi due alimenti. Durante la vita non c’è riuscito. Ed anche “post mortem”, purtroppo, sembra essere ancora uno sconosciuto.