di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta
SULMONA – Abruzzese, nata a Campo di Giove il 6 dicembre 1906, era una donna di paese, una di quelle donne del passato, che dovevano lavorare come gli uomini per “mandare avanti la casa”, perché i mariti stavano in guerra. Il marito di Maria, Matteo Di Marzio, era stato infatti richiamato. Avevano 4 figli, un maschio e tre femmine. Maria doveva lavorare la campagna, pascolare le pecore, eseguire le incombenze domestiche. Nell’autunno del 1943 incontra i prigionieri fuggiaschi.
«Venivano dalla montagna e arrivavano alla mia casa, – racconta – perché si trovava fuori dal paese, in cima al colle. Una volta vennero in sette. Dovetti trovare sette vestiti e dar da mangiare a sette bocche affamate. Li feci sistemare nella soffitta, dove c’era una terrazzina da cui potevano affacciarsi. Gli zaini che portavano li abbiamo nascosti sotto terra. Al mattino portavo loro il latte e si facevano la zuppetta. Stettero a casa quaranta giorni. Eravamo, a volte, una ventina a mangiare, perché arrivarono anche altre persone, che però volevano essere servite e riverite. Mi dicevano di mandar via i prigionieri, ma io rispondevo: “questi non li posso proprio cacciare”. Fu così che una di queste persone va a Sulmona e fa la spia. Il podestà, don Ciccio Puglielli, mi fa dire di allontanare i prigionieri. Mio figlio però li accompagna in una capanna, vicino a Fonte Romana e portavamo loro da mangiare. Arrivano i tedeschi e mi chiedono dove sono i prigionieri. Io rispondo che non so niente. Mi danno tre giorni di tempo per consegnarli. Vengono di nuovo e questa volta mi puntano in petto il fucile dicendomi di parlare e di dire dove sono i prigionieri. Mi dicono che bruceranno la casa e che mi ammazzeranno. Mentre mi tengono ancora il fucile puntato sul petto, rispondo: “ammazzatemi pure, ma io non ho visto nessuno”. La gente che stava vicino si era impaurita. Ma io continuavo a dire di non conoscere nessun prigioniero. Alla fine i tedeschi non spararono e mi lasciarono, andandosene via. Noi allora fummo costretti a sfollare e andammo alla “difesa”, una zona poco distante da Campo di Giove, dove restammo per tutta l’invernata. Feci poi un augurio a quei prigionieri: che tornassero a casa sani e salvi. Finita la guerra mi hanno dato un premio di quattromila lire. Non so se fosse quella la somma che mi spettava. D’altra parte io non so molte cose. I’ sacce fa’ sole la firme pe’ jì ‘ngalere (io so fare solo la firma per andare in galera)».
Maria Di Marzio ha ricevuto un attestato di benemerenza “perché fiera figlia della generosa terra d’Abruzzo durante l’occupazione nazista 1943-1944 con rischio della incolumità personale aiutò, incoraggiò e difese dal tedesco invasore sette ufficiali alleati evasi dal campo di concentramento di Fonte D’Amore”. Le è stata inoltre conferita la Médaille de la Reconnaissance Française, perché gran parte dei prigionieri salvati erano di nazionalità francese. Alcuni prigionieri sono tornati a rivederla.
(Terra di Libertà, a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta)