Giovanni Zambito
All’Opera di Gent fino al 6 dicembre “Il duca d’Alba“, con la direzione musicale di Andriy Yurkevych narra la lotta all’oppressione politica religiosa e culturale della Spagna sul popolo fiammingo. Due livelli durante la messa in scena sono costantemente presenti: il piano lugubre e oppressivo della potenza spagnola e il piano della sofferenza del popolo fiammingo oppresso.
La scena iniziale, dove esplode una statua di una Madonna rappresentata secondo gli stereotipi dei santini (inconsapevole analogia con Het varken van Madonna film del regista Frank Van Passel), si manifesta la rabbia e la voglia di uscire dalle catene di una dominanza politica che è anche conformismo. La regia di Carlos Wagner e la scenografia di Alfons Flores lavorano all’unisono restituendo all’opera di Donizetti una lettura corale, dove il confronto politico diventa scontro culturale, bisogno di un popolo minoritario di preservare una propria identità, e forse l’origine catalana di Flores ha permesso di rendere appieno il carattere a volte opprimente del potere politico centrale. Belli i costumi che sembrano risentire nella loro significativa semplicità delle finezze stilistiche delle Fiandre.
Nel ruolo di Henri de Bruges il tenore siciliano Enea Scala, che ritroviamo a distanza di due anni un po’ cambiato: “ero un po’ più grasso – ci dice – ero quindici chili in più”.
Ma non influisce questo sulla voce?
Influisce in positivo: non devi essere ovviamente pompato ma se sei asciutto e tonico, il tuo corpo è più leggero e ci si muove meglio in scena e anche a livello di supporto fisico i muscoli sono più pronti a reagire in momenti di difficoltà, quando manca il fiato per esempio. Più sei sportivo e salutare, più canti meglio: è la mia opinione, ma un artista, un cantante è un atleta.
Perché prima gli artisti erano tutti più grassi?
Perché prima c’era una cultura diversa: i registi non erano così esigenti come oggi nel volere i cantanti come gli attori di cinema, infatti oggi noi recitiamo come in una scena cinematografica; in ogni performance facciamo un’espressione come se la camera ci stesse inquadrando in primo piano. I cantanti generalmente sono persone pigre perché dormono fino a tardi quando ci sono le recite intendo, mangiano tardi dopo le recite cose pesanti, si beve e si va a letto tardi, quindi tutto contribuiva a un appesantimento. Poi molti cantanti non avevano la cultura di tenersi in forma ed erano belli gonfi, ma essere grassi non significa avere più voce, anzi a volte è il contrario.
Mi confermi l’impressione che l’opera si è trasformata in qualcosa di più completo con performance più dinamiche…
Io mi considero un artista moderno e per me non esiste l’opera in cui posso solo cantare senza pensare il personaggio: le due cose vanno insieme e sicuramente con la grazia e la recitazione miglioro la prestazione canora e grazie alla tecnica del canto miglioro la recitazione. Devi trovare le tue posizioni, il tuo regista te le può cambiare se eventualmente non andassero bene per te senza che ti comprometta l’appoggio e con il regista Carlos Wagner è stato sempre così: ogni giorno mi veniva incontro.
Nel Duca d’Alba c’è molto pathos e il tuo personaggio si presta molto alle cose che stai dicendo: c’è molto movimento anche interiore. Che ne pensi?
Per me è un personaggio ideale perché ha tutto: c’è l’eroicità e l’infantilismo del rapporto con un padre che scopre per la prima volta di avere, cosa per me molto forte e romantica perché è una cosa nuova nel ruolo tenorile. Nel “Guglielmo Tell” per esempio Arnold si commuove per la morte del padre che non ha potuto aiutare. Qui, invece, c’è la commozione e l’emozione nello scoprire che lui ha un padre; purtroppo non è il padre che voleva, è un padre assassino, tiranno, che lui stesso ha combattuto per anni e combatte perché vuole vendicare la morte dei fiamminghi, quindi è ovvio che è una situazione molto ambigua, ma per come la sento io Henri de Bruges, essendo combattuto, non ha comunque fatto una scelta bella, nel senso che alla fine è stato neutro, o certamente non ha scelto Hélène. Alla fine si sacrifica lui stesso.
A proposito di Bruges, siamo in Belgio, l’opera è ambientata in Belgio: tu torni spesso qui?
Questa è la mia seconda volta all’Opera Vlandereen e verrò ancora per la Juive del 2019: di recente a Bruxelles ho cantato Tancredi in concerto e mi piace lavorare molto in Belgio; i teatri si prestano benissimo alle opere che sono ideali per me, il pubblico è assolutamente accogliente con il mio tipo di personalità vocale e scenica, il teatro mi supporta perché evidentemente vede in me una personalità artisticamente solida e scenicamente valida, un artista moderno senza falsa modestia. Uno non dice di essere il nuovo Pavarotti o Del Monaco, ma almeno dice i suoi pregi. L’Opera Vlandereen si fa valere e per me è importantissimo tornarci.
E cantare in francese…?
Per me è la terza volta che canto in francese per un pubblico che conosce bene la lingua, quindi esigente, per cui ho lavorato molto con coach francesi ma sono abituato ad affrontare questa lingua senza tralasciare raffinatezze: si può sempre migliorare, ovvio, ma sono sicuro che la mia ricerca va per la giusta direzione e non approssimativa.
La tua famiglia che ruolo ha avuto nel tuo percorso?
Mio padre ha sempre avuto un ruolo importantissimo sicuramente più negli ultimi anni. Quando ero adolescente lui per motivi di lavoro era sempre fuori e non eravamo uniti, era un rapporto distante e quando lui tornava non ci consoscevamo fondamentalmente. Poi, sono andato via da casa per l’università e il conservatorio e lui, dopo che andò in pensione, fu quello in casa che mi appoggiò più di tutti nel mio percorso perché lui è un musicista autodidatta, suona tanti strumenti. Lui mi ha supportato fin dal primo momento in cui ho scelto questa strada anche quando non ero in carriera: purtroppo, oggi è il mio primo critico perché avendo un orecchio da musicista nota tutte le imperfezioni e mi riporta le critiche negative che magari io non leggo. Capisco che lo fa perché è contento e vuole sempre stimolarmi.