55 ANNI FA: IL CONCILIO VATICANO II. Per innovare la Chiesa e il suo ruolo nella società.

9 Ottobre 2017
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Mario Setta

This is a general view of the central nave of Saint Peter's Basilica, transformed into the "hall" of the Roman Catholic Ecumenical Council, during the opening ceremony of the Council on Oct. 11, 1962 in Rome.  All the Council Fathers have taken their seats in the stands erected left and right, while Pope altar, under Bernini's huge bronze canopy, is seen in far background.  (AP Photo/Leslie Priest)

This is a general view of the central nave of Saint Peter’s Basilica, transformed into the “hall” of the Roman Catholic Ecumenical Council, during the opening ceremony of the Council on Oct. 11, 1962 in Rome. All the Council Fathers have taken their seats in the stands erected left and right, while Pope altar, under Bernini’s huge bronze canopy, is seen in far background. (AP Photo/Leslie Priest)

L’11 ottobre 1962, verso le otto di sera, in via della Conciliazione, davanti alla basilica di S. Pietro, si snoda una processione di migliaia di persone con le torce in mano che confluiscono sulla piazza. Dall’alto, si vedrà poi per televisione, la massa di gente forma una croce di fuoco. E’ la festa per l’apertura del Concilio Vaticano II.

Il papa, Giovanni XXIII, quella sera si affaccia dalla finestra e pronuncia parole semplici e spontanee che hanno fatto il giro del mondo: «Tornando a casa, troverete i bambini; date loro una carezza e dite: questa è la carezza del papa.  Troverete qualche lacrima da asciugare. Abbiate per gli afflitti una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il papa è con i suoi figli specialmente nelle ore di mestizia e di amarezza».

E’ il “discorso della luna” perché, iniziando a parlare, il papa aveva rivolto lo sguardo al cielo e, scorgendo la luna, l’aveva fatta partecipe dell’eccezionalità dell’evento: “Si direbbe che persino la luna si è affrettata questa sera”.

Dal 25 gennaio 1959, giorno in cui nella basilica di S. Paolo il papa ha annunciato la convocazione di un Concilio Ecumenico si è parlato moltissimo ed è stata prodotta una gran quantità di materiale dalle commissioni preparatorie.  Oggi, finalmente, l’inaugurazione. Circa tremila vescovi, da tutti i continenti, sono a Roma. Stamattina hanno celebrato la Messa in S. Pietro, predisposta come una immensa aula magna. Sbirciando attraverso qualche pertugio, appare lo spettacolo: maestoso, impressionante.

Forse anche l’Assemblea degli Stati Generali nella Francia del 5 maggio 1789, a Versailles, doveva offrire la stessa imponenza. E il raffronto tra gli Stati Generali e il Concilio Vaticano II non sembra del tutto improprio, alla luce di come procederanno i lavori. Se nell’Assemblea degli Stati Generali il primo momento di contrasto avviene sulla questione del voto, anche nell’Assemblea Conciliare il primo contrasto si verifica sulla votazione per l’elezione dei membri delle dieci commissioni. In seguito si parlerà di “tumultuosa apertura dei lavori”.

Il 13 ottobre si apre la prima congregazione generale. Si deve votare. Tutto dovrebbe svolgersi in poco più di un’ora. Ma c’è sconcerto, indecisione tra le migliaia dei padri. Il cardinal Liénart di Lilla chiede la parola. Il cardinale Tisserant, che presiede, risponde di non potergliela dare perché il regolamento non prevede la discussione sull’argomento. Liénart prende ugualmente la parola e chiede che la votazione sia rinviata di qualche giorno, per dar modo ai padri di conoscersi meglio e informarsi sui candidati da proporre. Un lungo applauso corona l’intervento dell’anziano porporato francese. Interviene il cardinal Frings, tedesco, a nome anche di Döpfner e König, in appoggio alla richiesta di Liénart. Il consiglio di presidenza accoglie la proposta: la votazione verrà rinviata di tre giorni. Lo stesso Liénart ha poi raccontato che Giovanni XXIII lo aveva elogiato per il suo intervento, affermando: “Per questo ho convocato i vescovi al concilio”.

Emerge, da subito, l’esigenza di ridiscutere i grandi temi ecclesiali su tutti i fronti, senza il vincolo dei documenti già predisposti. Pur non partecipando fisicamente ai lavori dell’assemblea, Giovanni XXIII segue le riunioni attraverso un circuito televisivo interno e decide per la via dell’apertura, del dialogo.

Nel 1789 il re Luigi XVI si oppose al dialogo e l’assemblea procedette al giuramento della pallacorda, un escamotage col quale la borghesia francese tentava di rispondere alla questione posta dall’abate  Sieyès: “Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa rappresenta? Nulla. Che cosa vuol essere? Qualche cosa”. L’assemblea degli Stati generali diventerà subito Assemblea Nazionale Costituente.

Anche per la Chiesa del XX secolo il Concilio avrebbe dovuto dare la risposta alla domanda: “Che cos’è la Chiesa per sé e per il mondo?” Una domanda alla quale bisognava dare risposte adeguate.

Purtroppo il 3 giugno 1963, dopo una lunga agonia, vissuta sotto i riflettori della televisione, col fiato sospeso di milioni di credenti e non credenti, muore Giovanni XXIII. Centinaia di migliaia di persone, giorno e notte, sfilano davanti alla salma.  Se n’era andato un amico, un uomo che aveva parlato col cuore.

I lavori del Concilio continueranno con Paolo VI e i documenti conciliari offriranno una nuova immagine della Chiesa: Popolo di Dio. Un rinnovamento che non sempre ha visto la Chiesa rinnovarsi all’interno. Soprattutto ai vertici, tanto che si è parlato di “tradimento del Concilio”.  È rimasta una Chiesa troppo legata alle strutture di tipo statale (Stato Città del Vaticano). Il Potere non è diventato collegiale, l’Autorità non è diventata servizio.

Oggi, dopo più di mezzo secolo dai tempi del Concilio, la situazione ecclesiale sembra assumere i toni della tragedia. Con Papa Francesco il vento del Concilio è arrivato come un impeto. E c’è molta parte del clero che ricalcitra o addirittura mette il pontefice sotto accusa. D’altronde anche il cosiddetto “basso clero” non respira l’aria di rinnovamento. In una recente inchiesta sociologica sulla crisi della Chiesa in Italia di Marco Marzano, dal titolo “Quel che resta dei cattolici” si rileva: “Per ammissione praticamente unanime, i nuovi preti, quelli degli ultimi due decenni, sono tendenzialmente molto conservatori, attentissimi a tutti gli aspetti liturgici ed esteriori legati al ruolo, ai paramenti, alle vesti, ai formalismi, ai tridui e alle novene, all’ossequio della tradizione”. Soprattutto i preti stranieri, che in certe diocesi come quelle abruzzesi raggiungono il 30% e in altre come nel Lazio superano il 40%, avulsi dal contesto culturale locale concentrano la loro attività sulla distribuzione dei sacramenti, la pastorale liturgica, le forme devozionali. E tutto ciò a scapito della presentazione d’un Annuncio più rispondente alle esigenze dei fedeli.

Resta, tuttavia, obbligatoria e urgente la missione per la Chiesa di realizzare per gli uomini e tra gli uomini il comandamento di Cristo, suo Fondatore: “Amatevi gli uni e gli altri”.

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