di Goffredo Palmerini
E’ notte fonda quando partiamo dall’Aquila verso il Friuli Venezia Giulia. Attraversato il tunnel sotto il Gran Sasso, alle spalle la maestosità del Corno Grande, la vetta più alta degli Appennini, scendiamo verso l’Adriatico. Viaggio tranquillo, Morfeo ha subito ghermito i miei compagni di viaggio. In autostrada solo una sosta, si fila verso il mattino. Nei pressi di Venezia, a levante, un’enorme palla di fuoco incendia l’orizzonte. Sono quasi le 8, si scorre fluidamente verso Trieste. Ancora un’ora ed usciamo al casello di Sistiana per la strada costiera, il mare è imperlato di riflessi. Si va al Castello di Miramare, prezioso tesoro d’architettura situato sulla punta del promontorio di Grignano. Una posizione magnifica per apprezzare il panorama del golfo. Voluto nel 1855 dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo per sé e sua moglie Carlotta, fu progettato dall’architetto austriaco Carl Junker. Immerso in un enorme parco ricco di specie arboree, questa splendida dimora principesca in pietra bianca d’Istria, anche dopo la tragica morte di Massimiliano in Messico, dov’era andato imperatore, ospitò più volte il fratello, re Francesco Giuseppe con sua moglie Sissi, nelle numerose visite a Trieste, importante città portuale del Mediterraneo e sbocco al mare per il Regno d’Austria e Ungheria.
Ammaliante la visita a Miramare. Oltre la bellezza architettonica, vi si ammirano la ricchezza degli arredi, dei dipinti e degli arazzi, la raffinatezza delle suppellettili, in un contesto che fa sognare. Riprendiamo la via per Trieste, l’antica Tergeste di probabile origine illirica, poi colonizzata dai Romani, della quale parla Giulio Cesare nel De bello gallico. Una lunga storia quella della grande città giuliana, che per ora tralasciamo di raccontare. Bella la vista sul lungomare. Poi sfarzosi palazzi fanno da quinta verso Piazza dell’Unità d’Italia. E’ il salotto della splendida città adriatica, una delle più grandi piazze aperte sul mare. Forse la più vasta in assoluto. Contornata su tre lati da stupendi edifici, schiera da sinistra il magnificente Palazzo della Luogotenenza austriaca, il Palazzo Stratti, al centro il Palazzo Modello dov’è il municipio, l’antico Palazzo Pitteri, a destra il Palazzo Venoli e il Palazzo del Lloyd Triestino, ora sede del Governo regionale. Al centro della piazza la settecentesca Fontana dei Quattro Continenti con le sue allegorie. Di fronte alla piazza, allungato sul mare, il Molo Audace, così chiamato quando la prima nave italiana – l’Audace, appunto – dopo la fine della Grande Guerra entrò nel porto di Trieste, tornata finalmente italiana. Gustate le bellezze del centro storico, crogiolo di culture con segni di nobiltà civica, ci infiliamo nel dedalo di vie che arrancano sulle le colline disposte ad anfiteatro attorno alla composizione urbana. Ricordiamo la Risiera di San Sabba, lager di sterminio nazista in terra italiana, e la Foiba di Basovizza, luogo di martirio d’italiani sotto il regime di Tito, mentre si va al Santuario di Monte Grisa. Erto a 330 metri sul mare, sul punto più alto dei colli che coronano la città, mostra una vista sul golfo davvero mozzafiato. Il Santuario è un’imponente costruzione in cemento armato a struttura triangolare. Progettato dall’architetto Antonio Guacci, dopo la fine della Seconda Guerra fu voluto dall’arcivescovo Antonio Santin per onorare un voto, promesso per proteggere la città dai bombardamenti. Dedicato a Maria Madre e Regina, fu completato nel 1965 e nel ‘92 visitato da Giovanni Paolo II.
Riprendiamo il nostro viaggio verso Gorizia, tra campi conquistati tra le rocce e il vento, dove ordinati vigneti donano nettare per i sapidi vini del Carso: terrano, refosco, verduzzo, vitovska e malvasia. Una sosta a Redipuglia, dove arriviamo nel primo pomeriggio. Il Sacrario militare è immenso. Un’interminabile scalea disegna la saliente prospettiva fino al culmine, dove svettano tre grandi croci. Il motto “presente”, ripetuto all’infinito, campeggia sui frontoni dei gradoni in pietra lungo la scalinata monumentale, confinata tra due filari di cipressi. Sulla sommità dominano le tre croci, come su un doloroso monte Calvario. “Presente” è scolpito per ricordare ogni caduto di quell’enorme Memoriale, un cimitero per 100mila soldati italiani, parte degli oltre 600mila caduti nella Grande Guerra. Sono riportati in rigoroso ordine alfabetico, a ciascuno la sua lastra di bronzo. 35mila sono conosciuti con i loro nomi, 65mila sono militi ignoti. Qui nei dintorni combatté la sua guerra anche Giuseppe Ungaretti, lasciandoci struggenti liriche di sofferenza e di dolore. Nei pressi scorre infatti l’Isonzo, il fiume che fu rosso del sangue dei soldati morti in battaglia, poco distante da Caporetto, laddove il 24 ottobre 1917 il fronte cedette all’assalto dell’esercito austriaco, nella “rotta” diventata la più grave disfatta per l’esercito italiano, della quale parlò anche Ernest Hemingway nel suo celebre romanzo Addio alle armi. Ne seguì la dolorosa ritirata oltre il Piave, dove si preparò la riscossa per la vittoria finale a Vittorio Veneto, il 4 novembre 1918, immortalata nel famoso proclama del generale Diaz.
«Comando Supremo, 4 novembre 1918, ore 12 – Bollettino di guerra n. 1268
La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d’Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.»
(Armando Diaz, Comandante supremo del Regio Esercito)
Proprio in questi luoghi del Carso operò la Terza Armata del gen. Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosta, onorato con il grande parallelepipedo di marmo verde ai piedi della scalinata. Visitiamo pure i resti delle trincee, lì accanto, e il vicino museo, dove armi, divise militari, attrezzi vari ed equipaggiamenti raccontano la terribile vita in trincea. Partiamo per Gorizia, non lontana. La città confina ad oriente con il Sabotino e il Montesanto, colli cruenti nella Grande Guerra. Il sole va tramontando quando arriviamo nella città di confine, incrocio di genti e culture. Una bella città, con una lunga storia.
Dove oggi Gorizia si distende, dal I secolo a.C. sorgevano due villaggi romani, Castrum Silicanum e Pons Aesontii, come indica la Tavola Peutingeriana, copia d’una carta romana con le antiche vie militari dell’Impero. Lì, sulla via Gemina, nel punto in cui veniva attraversato l’Isonzo, c’era una stazione di posta che il governo romano riservava a dignitari e ufficiali, in viaggio per ragioni di stato. Intorno a tali strutture sulle vie consolari e militari romane si sviluppavano solitamente centri abitati. Appunto queste le prime origini dell’attuale Gorizia, allora confine con l’antica provincia romana del Norico. Ma per trovare la prima citazione della città bisogna aspettare l’anno 1001, quando Gorizia compare in una donazione dell’imperatore Ottone III con la quale si cedeva in parti uguali il castello di Salcano e la villa denominata Goriza a Giovanni, patriarca di Aquileia, e a Guariento, conte del Friuli. Dal 1090 la città venne governata dapprima dai Mosburg, poi dai Lurngau, sviluppandosi ed accrescendo la sua popolazione, costituita da friulani, giuliani, tedeschi e sloveni. La potenza militare dei Conti di Gorizia, unita ad una saggia politica matrimoniale, permise alla Contea, nel periodo di massimo splendore tra il Duecento e la prima metà del Trecento, d’estendersi su gran parte del nordest italiano, comprese le città di Treviso e Padova, parti dell’attuale Slovenia, dell’Istria, del Tirolo e della Carinzia.
Gorizia ottenne il rango di città durante il regno di Enrico II (1304-1323). Nei primi decenni Quattrocento, con l’assorbimento alla Repubblica di Venezia del Principato patriarcale di Aquileia, i conti di Gorizia chiesero al Doge l’investitura feudale, riconoscendosi vassalli della Serenissima. Nel 1500 Leonardo, ultimo conte rimasto senza discendenti, alla sua morte lasciò la contea in eredità a Massimiliano I d’Asburgo. L’atto, non valido per il diritto internazionale del tempo – per il fatto che la Contea aveva vincoli di vassallaggio alla Repubblica veneta -, spinse la Serenissima a denunciare la violazione per canali diplomatici. Ma ogni tentativo veneziano di riappropriarsi della città, anche mediante la forza, risultò tuttavia vano. Occupata militarmente nel 1508 per sedici mesi, fu abbandonata dalla guarnigione veneta dopo la disastrosa sconfitta subita dai Veneziani ad Agnadello, ad opera dei Francesi. Da allora Gorizia farà parte dei domini asburgici, come capitale della Contea, entrando a metà dell’Ottocento a far parte del Litorale Austriaco. Suoi Conti saranno gli stessi imperatori asburgici, fino al 1918.
Durante la Prima Guerra mondiale, con enormi sacrifici di vite umane, le truppe italiane entrarono una prima volta a Gorizia nell’agosto del 1916. Nella cruenta battaglia del 9 e 10 agosto, sul monte Podgora – nella quale si segnalarono sopra tutto i Gialli del Calvario, così chiamati per il colore delle mostrine e per gli atti di valore – persero la vita quasi 52mila soldati italiani e dalla parte austriaca ne morirono circa 41mila. Fu uno dei più grandi massacri di quella sanguinosissima guerra. Persa nel 1917 a seguito della rotta di Caporetto, la città venne definitivamente ripresa dall’esercito italiano il 7 novembre 1918. Fu teatro di scontri sanguinosi anche durante la Seconda Guerra mondiale. Al termine del secondo conflitto, con il trattato di pace, Gorizia dovette cedere alla Jugoslavia tre quinti circa del proprio territorio, ma il centro storico e gran parte dell’area urbana restarono in territorio italiano. Dovette subire l’oltraggio del muro che la separava dalla Jugoslavia oltre-cortina, così diventata con la divisione per aree d’influenza scaturite dal trattato di Yalta. Insomma, Gorizia divenne una “piccola Berlino” ante litteram. Il confine attraversava una zona della città, lasciando nella parte non italiana anche molti edifici e strutture di pubblica utilità, tra cui la stazione di Gorizia Montesanto, sulla linea ferroviaria Transalpina che collegava la città all’Europa Centrale. La piazza davanti la stazione, divisa tra le due nazioni, dal 2004 è tornata liberamente visitabile con l’abbattimento della rete confinaria dopo l’entrata della Slovenia nell’Unione Europea. L’eliminazione del “muro” divisorio ha consentito anche di “liberare” le relazioni in territorio sloveno con la moderna città di Nova Gorica, costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso.
Dal 21 dicembre 2007, con il trattato di Schengen, le città di Gorizia e Nova Gorica sono finalmente senza interposti confini. Il legame sempre più forte che le unisce ha consentito alle due città d’avviare un significativo processo di sviluppo, nel segno della reciproca collaborazione fra Italia e Slovenia. Sicché negli ultimi anni Gorizia sta conoscendo una progressiva rinascita. Vi si respira l’atmosfera sospesa, tipica d’una città di confine, con un grande fermento economico e sociale, orgogliosa di mostrare le sue tante bellezze. Il Castello medievale, con l’incantevole borgo, è un vero gioiello. Dai suoi spalti la vista può spaziare sulle dolci distese di colli e sull’intera città dove in modo armonioso convivono architetture medievali, barocche e ottocentesche. La borghesia asburgica amava Gorizia per il suo clima mite: era chiamata la “Nizza austriaca”. Il clima e il contesto ambientale ne fanno dunque un luogo ameno. Incantevoli i suoi parchi: il Parco Piuma sul fiume Isonzo, il Parco del Palazzo Coronini Cronberg e il Parco Viatori. Grandi gli spazi dedicati alla cultura, con tanti musei, come il Museo della Moda, il Museo della Grande Guerra, la Collezione Archeologica, il Museo del Medioevo Goriziano e la Pinacoteca di casa Formentini. Fra i molti palazzi storici della città emergono il Palazzo della Torre, Palazzo Attems Petzenstein e Palazzo Werdenberg. La storia della comunità ebraica di Gorizia è raccontata nel Museo Sinagoga Gerusalemme sull’Isonzo. Sulle alture della città si trova infine l’Ossario di Oslavia. Raccoglie le spoglie di soldati italiani ed austro-ungarici caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Il Centenario della Guerra 1915-18 dovrebbe davvero essere occasione per far riflettere sulla tragedia di tutte le guerre e sull’insipienza umana.