MONS – E’ una bella città Mons. Vi arrivo in treno da Charleroi nel primo pomeriggio di metà dicembre, il sole splendente e un insolito cielo color turchese. Arrivo in albergo. Mi appare tutto singolare. L’ingresso copre parte della facciata d’una antica chiesa, adorna d’un bel rosone vetrato e un timpano a vela. Ma è solo l’inizio, perché dalle evidenze interne constato che l’hotel Dream è proprio realizzato all’interno d’una chiesa, forse un complesso monastico nel centro della città. Restano ancora in vista i basamenti delle colonne ed altre tracce della primitiva destinazione intorno alle strutture portanti in acciaio che supportano l’attuale disposizione alberghiera. Al terzo piano, mentre cerco la mia camera 309 “Art nouveau” – tutte le stanze hanno un nome – m’imbatto nella vetrata policroma interna al rosone della facciata. Fa da sfondo al lungo corridoio dove sono distribuite le stanze. La camera è ampia, con bagno arricchito da una finestra ogivale ornata da stipiti in pietra grigia a foggia gotica, propria delle antiche chiese di questa parte d’Europa. E’ la prima sorpresa d’una città sorprendente come Mons, il cui antico centro storico non rivela sbavature nell’armonia delle architetture di palazzi, case e chiese, con l’intrico di vie tutte pavimentate in selci e bordature in pietra grigio chiaro e ambra. Oggi è il 15 dicembre. Non ho impegni e questa mezza giornata è utile per conoscere un poco questa città che l’anno scorso è stata Capitale europea della cultura.
Il cuore della città è la Grand Place. E’ poco distante. La raggiungo godendomi i graziosi negozi e le vetrine ben addobbate con i simboli del Natale incipiente. Rue de la Triperie conduce direttamente nella piazza maggiore, la strada lievemente in salita. L’ingresso nella piazza, salotto della città, è salutato dal canto dell’acqua che sgorga da quattro bocchette d’una fontana. La Grand Place, un vasto rettangolo irregolare, appare nella sua bellezza, contornata com’è di magnifiche facciate. Vi spicca quella del Municipio, l’Hotel de Ville con i pennoni imbandierati e ghirlande a cascata di luci natalizie. Animata di voci la grande piazza, di gente, di colori. Piccole casette bianche di legno del mercatino vendono prodotti tipici, cucina pronta e bevande a chi va godendosi il tepore del sole calante e un anticipo d’aria natalizia. Animatissimo il palaghiaccio all’aperto, dove ragazzi e bambini piroettano sui pattini, in gare dal breve respiro. Mi piace annusarla, questa città. E scoprirla pian piano, anche per l’orgoglio di sentirvi tracce d’Abruzzo. Ne è sindaco, infatti, il figlio di un’umile famiglia d’emigrati abruzzesi, Elio Di Rupo, personalità politica di grande rilievo in Belgio, e in Europa, per essere stato più volte parlamentare, uomo di governo e, dal 2011 per tre anni Primo Ministro. Giro per il centro storico facendomi guidare dai campanili. Le chiese, se si ha pazienza di guardarle con attenzione, raccontano la storia d’una città, l’arte, l’anima e persino l’indole degli abitanti, meglio d’ogni altro monumento.
Mons ha la sua nascita nel Medioevo, il suo insediamento urbano sul luogo dove Giulio Cesare, arrivandovi nel primo secolo a.C., fece edificare un castrum, proprio sul colle che domina ora la città. Proprio da questa particolarità, l’essere nata su un rilievo presente in un ampio territorio pianeggiante, gli deriva l’attuale nome che richiama il termine latino. Nel VII secolo, proprio nei pressi di quel monte, la figlia di Clotario II, Waltrude, andata in moglie ad un signorotto del luogo, fece edificare un oratorio dove poi si ritirò in santità fino alla sua morte, nel 688. La santa Waltrude (Sainte Waudru) è patrona della città. Intorno a quel primo nucleo altomedioevale si cominciò a sviluppare un aggregato urbano, cresciuto fortemente nel XII secolo sotto l’impulso del conte Baldovino IV di Hinault, che ne fece una città fortificata. La popolazione aumentò notevolmente e fiorirono i commerci, con numerose attività che si disposero man mano intorno alla Grand Place, centro della vita civile e mercantile. Gli abitanti si dedicarono al commercio e all’artigianato, tanto che Mons diventò la più importante città della Contea di Hinault nella produzione di grano, birra, nell’industria laniera e nella gioielleria. Ancor oggi, come allora, la Grand Place – una delle più belle del Belgio – è il cuore della città, dove si svolgono le tradizioni più care ai cittadini di Mons, come la festa della Ducasse de la Trinité, con il combattimento del Lumeçon che ricorda la lotta di San Giorgio contro il drago, e la processione del Car d’or, quando la statua della Santa Waudru viene portata per le vie del centro sull’antico carro di legno, scolpito e dipinto di bianco e oro. Nel Quattrocento i cittadini di Mons (montois) costruirono in stile gotico l’Hotel de Ville, la casa comunale dove nel 1515 l’imperatore Carlo V – il sovrano sul cui regno non tramontava mai il sole – prestò giuramento in quanto anche Conte di Hinault. Nei due secoli successivi prima gli spagnoli poi i francesi occuparono la città e il grande Sebastien Vauban la munì d’una solida cinta muraria. Le mura fortificate seicentesche sono ora solo un ricordo storico, perché smantellate nel 1864 per essere sostituite dagli ampi viali alberati che contornano come un perfetto ovale l’antica capitale degli Hinault.
Il mio giro nel centro città inizia appunto dalla Grand Place, ammirando l’imponente palazzo municipale, impreziosito da bifore ogivali. Accanto al portone la celebre scimmia in ferro battuto, portafortuna della città e di chiunque le carezzi il capo. Poco distante, sulla Rue de Nemy, la chiesa tardo-gotica di Santa Elisabetta. Ne ammiro l’interno a tre navate, con ampie finestrature vetrate e belle opere pittoriche nelle cappelle, con l’altare maggiore e coro in legno lavorato. Arrancando su stradine lastricate salgo fino al colle più alto della città, al Parco dei Conti, dove gli Hinault avevano il castello. Del complesso resta la Beffroi, torre barocca con grande orologio dalla quale si ammira tutta la città e i dintorni. Lì accanto la Cappella di San Callisto, risalente all’XI secolo, le cui volte ostentano lacerti di affreschi bizantini. Da lassù si può avvistare la corona delle cappelle absidali della Collegiata di Sainte Waudru, che raggiungo percorrendo la Rue de Clercs. E’ un tempio magnificente di stile gotico brabantino, opera di Matheus de Layens, edificata a metà Cinquecento e completata nel 1686. L’interno è a tre navate, imponente l’altezza degli archi e delle vetrate dell’abside principale circondata da cappelle con raffinate sculture, mentre nei bracci del transetto stupiscono i preziosi rilievi cinquecenteschi in alabastro, opera di Jacques Dubroeucq, artista del Rinascimento. La chiesa custodisce il Car d’Or, il bianco carro ligneo processionale della Santa Waudru, finemente decorato con putti e oro zecchino. Ultima visita alla chiesa di Saint Nicholas, anch’essa imponente, con tutti gli altari in legno cesellato arricchiti con dipinti seicenteschi. Il tempo tiranno non consente di visitare i musei della città. Mons è molto viva in campo culturale, non a caso ha avuto il privilegio d’essere per un anno capitale della cultura europea. Lo deve alle sue sensibilità umanistiche, alla sua storia, al suo patrimonio artistico e architettonico. Lo deve anche alla presenza d’una prestigiosa università. L’Umons è nata nel 2009 dalla fusione dell’Università di Mons e dell’antica Facoltà Politecnica, fondata nel 1837. Attualmente la città, che conta 95mila abitanti, ha 22mila studenti, di cui 7mila provenienti da una quarantina di Paesi e ospitati nel campus dell’ateneo.
Passata pressoché indenne attraverso due guerre mondiali, Mons ha chiuso da molti anni l’attività estrattiva che aveva richiamato migliaia di immigrati italiani per il lavoro nelle miniere, in base all’Accordo italo-belga del 1946. Di quell’intesa tra Italia e Belgio – braccia contro carbone – ricorre quest’anno il 70° anniversario, come pure ricorre il 60° della tragedia di Marcinelle, dove nella miniera di Bois du Cazier l’8 agosto 1956 persero la vita 262 minatori, 136 dei quali erano italiani. Nel corso del 2016 numerose manifestazioni si sono tenute in Belgio per l’Anno commemorativo, che si chiude con il Convegno del 16 dicembre a Hornu. Siamo qui per questo, per partecipare all’evento promosso dai Comites del Belgio, d’intesa con l’Ambasciata d’Italia a Bruxelles e in collaborazione con le associazioni storiche dell’emigrazione operanti nel Paese, quali ANFE, ITAL-UIL, INCA-CGIL, FILEF, ACLI, USEF, ASBL. La scelta di Hornu per la manifestazione di chiusura dell’Anno commemorativo non è casuale. C’erano qui diverse miniere di carbone. E il Grand Hornu, villaggio industriale realizzato nel 1810 dall’imprenditore francese Henri De George, grande quartiere urbanisticamente integrato, comprendente il complesso minerario, le abitazioni di minatori e operai, l’isolato degli impiegati. Questo straordinario complesso, esempio d’archeologia industriale, restaurato su progetto di Pierre Habbelinck, dal 2002 ha ripreso a vivere come Museo delle Arti Contemporanee (MAC’s), dove si tengono esposizioni, eventi culturali e concerti.
Raffaele Napolitano, presidente del Comites di Bruxelles e coordinatore dell’Inter-Comites del Belgio, insieme agli esponenti delle associazioni promotrici, per il convegno ha scelto il Centro Culturale italiano di Hornu. In agenda sono previsti gli interventi dello stesso Napolitano, di Michele Schiavone, Segretario Generale del CGIE, dell’on. Gianluca Miccichè, Assessore all’Emigrazione Politiche sociali e del lavoro della Regione Sicilia, del Consigliere d’ambasciata Giovanni Maria De Vita, del Ministero degli Esteri – Direzione Generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie, di Gaetano Calà, Direttore nazionale dell’Associazione Nazionale Famiglie Emigrati (ANFE) e componente del CGIE, e di Goffredo Palmerini, Presidente dell’Osservatorio Regionale Emigrazione dell’Abruzzo. Nel pomeriggio di venerdì 16 dicembre sono arrivati a Mons, da Bruxelles, Raffaele Napolitano e Gaetano Calà. Giusto il tempo per sistemarsi in albergo e si parte. Arriviamo intorno alle 6 di sera ad Hornu. All’ingresso del Centro Culturale c’è Tindaro Tassone, stretto collaboratore di Elio Di Rupo, consigliere alla presidenza del Partito Socialista belga. Abbiamo passato con Tindaro e la splendida moglie Maria una bella serata in amicizia, il giorno precedente, insieme a cena al Tocco d’Italia, un ottimo ristorante di Mons gestito dai coniugi Claudio e Carmela, coppia d’origine siciliana che ci ha regalato il meglio della loro sapienza culinaria. Un grande abbraccio tra Tindaro e Gaetano Calà, sono entrambi siciliani e grandissimi amici. Hanno collaborato e condiviso importanti iniziative dell’ANFE in Belgio. Nel Centro Culturale da oltre mezzo secolo la comunità italiana tiene i suoi incontri di socialità, le iniziative culturali e ricreative, i corsi di lingua italiana per gli emigrati. La grande sala si va già riempiendo. Ezio D’Orazio, abruzzese, project manager della Siemens e una vita nel sindacato e nell’associazionismo in Belgio, sta sistemando il tavolo dei relatori con le bandiere d’Italia e Belgio. Alle 18:30 è previsto l’inizio dei lavori. Qualche minuto prima arriva il sindaco di Mons, Elio Di Rupo, accolto calorosamente ed affettuosamente dal pubblico. Ha un impegno a Bruxelles, ma volentieri è venuto a portare il suo saluto, anche se dovrà lasciare l’incontro. Raffaele Napolitano gli dà subito la parola, non prima però che la Corale Multiculturale abbia cantato l’inno d’Italia, tutti in piedi e la mano sul cuore, e un altro brano tradizionale. Proprio sulle note di questo canto tradizionale è l’incipit del Presidente Di Rupo. “Quando ho sentito il coro cantare mi sono commosso – ha dichiarato Di Rupo – perché mi ha ricordato mia madre. Oggi ricordiamo 70 anni dell’Accordo tra Italia e Belgio. In base a quell’accordo vennero qui dall’Abruzzo mio padre, mio zio, i miei fratelli. Sono venuti a lavorare nelle viscere della terra, in condizioni molto difficili, e hanno resistito perché venivano dalla miseria. Hanno vissuto nelle baracche, in condizioni che non si possono scordare. Fino a quel giorno terribile del 1956. Il mio primo ricordo è quello della tragedia, delle donne che piangevano e gridavano ai cancelli della miniera. Avevo 5 anni. Da quella data tragica i minatori sono stati finalmente accettati e rispettati in Belgio. La mia vita è incredibile. All’università, in politica fino a diventare Primo Ministro. I giovani non debbono scordare da dove veniamo, le nostre radici che hanno forgiato il nostro carattere”. Ancora qualche parola di saluto, poi Di Rupo si congeda.
Raffaele Napolitano richiama il valore delle manifestazioni commemorative, ringraziando per l’impegno profuso tutto l’associazionismo italiano in Belgio e i Comites. Scusa poi l’assenza del Segretario generale del CGIE, Michele Schiavone, trattenuto a casa da problemi di salute. E considerando che l’on. Miccichè è ancora in viaggio da Bruxelles, dà la parola a Gaetano Calà che parla delle condizioni dei nostri emigrati e del ruolo significativo svolto dall’ANFE dal 1947, quando la deputata costituente Maria Federici fondò l’associazione. E soffermandosi sulla tragedia di Marcinelle, che portò al cambiamento radicale delle condizioni di sicurezza delle norme sul lavoro nelle miniere, Calà reca una straordinaria testimonianza storica con la lettera a Maria Federici scritta da una testimone presente a Marcinelle una settimana dopo il disastro, sulla gravità dei problemi che vivevano le famiglie delle vittime e degli altri minatori. E ancora altre testimonianze scritte, tratte dal ponderoso archivio centrale dell’ANFE. Diventeranno, promette Calà, materiale d’archivio da condividere nei luoghi della Memoria in Belgio. Chiude poi il suo intervento ricordando Domenico Azzia, il presidente dell’associazione Sicilia Mondo, un pilastro del mondo dell’emigrazione, scomparso recentemente.
Chi scrive, nel suo intervento, ha ringraziato gli emigrati per il servizio e l’onore che hanno reso all’Italia con il lavoro, la serietà e la dignità dei comportamenti, con il prestigio e la stima guadagnati sul campo contro ogni pregiudizio. Il rispetto conquistato in anni di sacrifici, i successi in tutti i settori della società e in ogni Paese raggiunti dagli 80 milioni di emigrati italiani e loro discendenti – un’altra Italia più grande dell’Italia dentro i confini – sono il tributo più importante reso alla Patria, perché attraverso le loro testimonianza di vita i nostri emigrati hanno dimostrato quanto valgano davvero gli italiani, in talento, creatività e capacità d’impresa, ma anche in politica, nei Parlamenti e nei Governi, come il caso di Elio Di Rupo insegna, rendendoci orgogliosi della sua opera e dei traguardi raggiunti. Eppure, questo grande patrimonio di storia della nostra emigrazione è poco conosciuto, in Italia talvolta trattato con superficialità dalle istituzioni e dalla classe dirigente. Dunque, ogni iniziativa che tenda a valorizzare la Memoria è importante, come questo Anno commemorativo in Belgio. Ma sarà necessario che la storia dell’emigrazione italiana diventi materia da studiare nelle scuole italiane, che diventi patrimonio di conoscenza di tutti gli italiani, entrando finalmente nella Storia d’Italia. Questo deve essere l’obiettivo a cui tendere, anche per onorare degnamente la memoria delle 136 vittime italiane dell’8 agosto 1956 e di tutte le vittime della tragedia di Marcinelle.
Il Consigliere Giovanni Maria De Vita nel suo intervento in rappresentanza del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale per gli Italiani all’Estero, riprendendo l’intervento precedente, annota come non solo la classe dirigente abbia scarsa conoscenza della storia dell’emigrazione, ma il fenomeno è latamente diffuso. E’ una situazione che deve preoccupare. E deve essere risolta, facendo diventare la storia dell’emigrazione un patrimonio comune per tutti gli italiani. Dunque, ogni iniziativa utile a diffonderne la conoscenza è vista dal Ministero con interesse e favore. Come il progetto che fra poco verrà illustrato, con la realizzazione di una storia dell’emigrazione a fumetti per le scuole, è un’iniziativa importante che va in questo senso, avvicinando i ragazzi alla conoscenza del fenomeno migratorio italiano che per un secolo e mezzo ha toccato tanti milioni di connazionali. Il sostegno del Ministero vuole essere un segno di doverosa attenzione al progetto e alle sue finalità.
Napolitano invita quindi a parlare Gianluca Miccichè, Assessore all’Emigrazione e al Lavoro della Regione Sicilia. L’uomo di governo siciliano tratteggia con spunti molto interessanti la vicenda migratoria siciliana, quella storica e anche l’attuale, che porta all’estero tanti giovani per ragioni certamente diverse che nel passato. Illustra quindi le politiche che la Regione sta seguendo nel settore e, con riferimento ad un recente convegno tenutosi a Palermo con la partecipazione delle maggiori associazioni operanti nel campo dell’emigrazione, ha tenuto a ribadire gli impegni assunti in quella sede specie per ridare all’associazionismo l’attenzione che merita, in termini di risposte e di politiche mirate. A cominciare dalla Consulta dell’Emigrazione siciliana che presto sarà convocata, dopo anni di inattività. Con la stessa Consulta, e con le associazioni, sarà inoltre valutato come modificare al meglio la legge 55 del 1980, che regola il settore. Viva soddisfazione suscita l’intervento tra gli esponenti dell’associazionismo siciliano presenti.
Dopo gli interventi dei relatori l’artista Antonio Cossu, figlio d’un emigrato sardo, presenta il progetto dell’opera a fumetti “Storia dell’immigrazione italiana in Belgio”, illustrando gli studi dell’opera, i bozzetti, il linguaggio comunicativo, il più adatto ai ragazzi e giovani studenti. Sicuramente ha fatto colpo la qualità e l’espressività del disegno, cifra dell’artista e del suo valore. Il progetto si svilupperà nell’arco di due anni. Dopo la consegna dei riconoscimenti alle associazioni dell’emigrazione operanti in Belgio – una stampa autografa di Antonio Cossu con un’immagine che simboleggia l’essenza del progetto -, una festosa conviviale intrattiene i presenti. Alla mescita gli Alpini di Hornu e dintorni. Nel corso della serata sono stati raccolti fondi da destinare alle zone terremotate del centro Italia, colpite dai sismi del 24 agosto e del 26 e 30 ottobre 2016.
Sabato mattina, 17 dicembre, Tindaro Tassone ci porta con la sua auto a Marcinelle. Non può mancare l’omaggio alle vittime della tragedia. Gianluca Miccichè, Gaetano Calà e chi scrive compongono la delegazione. Alle 11 ci attendono alla miniera di Bois du Cazier. Arriviamo puntuali. Il cielo è plumbeo, sebbene non piova. L’accoglienza al Bois du Cazier la fa Alain Forti, Soprintendente (Conservateur) del complesso minerario ora diventato un grande museo patrimonio dell’Unesco. E’ grazie alle lotte degli ex minatori se la miniera di Marcinelle non è diventata un centro commerciale, come s’intendeva trasformarla. Dal loro impegno generò la proposta all’Unesco per il riconoscimento come Patrimonio dell’Umanità, concesso nel 2012. Il dr. Forti ci illustra la storia del tragico evento dell’8 agosto di 60 anni fa. Arrivati dai dintorni sono presenti anche alcuni esponenti dell’associazionismo italiano. Ci fermiamo davanti al Monumento alle vittime, un enorme parallelepipedo di marmo bianco con incisi i 262 nomi dei morti nel disastro. Lo ha donato la città di Carrara. C’è con noi in divisa da lavoro Uberto Ciacci, originario di Pesaro, ex minatore 81enne scampato per un caso al disastro. L’Assessore Miccichè, insieme alla delegazione, depone un mazzo di fiori tricolore, bianco rosso e verde, sotto il cippo marmoreo delle vittime. Uberto Ciacci ci racconta la miniera, le terribili condizioni di lavoro, il caldo infernale e il pericolo di grisù. Si scavava supini, talvolta in cunicoli non più alti di 40 centimetri. Ci guida, ci spiega tutte le fasi operative nella miniera, quando si entrava al lavoro e quando neri di carbone se ne usciva esausti a fine turno, avendo magari lavorato a più di mille metri di profondità. La visita è una via Crucis, con la stazione più dolorosa nella stanza del Memoriale, con le foto dei 262 minatori morti nella tragedia. Ce li indica, Urbano Ciacci, con le lacrime agli occhi. Ora, come altri suoi compagni dell’Associazione ex Minatori di Marcinelle, Urbano sente ogni giorno l’obbligo morale di guidare i visitatori, spiegare e raccontare, perché la terribile storia della tragedia della miniera di Bois du Cazier – una delle pagine nera dell’emigrazione – sia sempre presente nella Memoria degli italiani e dell’intera umanità. Mi fermo a meditare sulle vittime, sul tributo di 136 italiani, di cui 60 abruzzesi. Grande la dimensione del sacrificio abruzzese. Le vittime in gran parte originarie di Manoppello, Lettomanoppello, Tuttivalignani, Roccascalegna, Farindola. Una tragedia sul lavoro che denunciò la sommarietà se non l’assenza delle condizioni di sicurezza in miniera, la lacunosità della previdenza e dell’assistenza ai lavoratori, il vergognoso contratto tra i due Stati, per il quale i lavoratori destinati in miniera avevano rilevanza solo per assicurare le forniture di carbone all’Italia.
Quella data e quella tragedia sono ora riconosciute nella memoria collettiva del nostro Paese come Giornata del Lavoro italiano nel mondo. Tante cose sono cambiate da quegli anni per i nostri emigrati in Belgio. Oggi il figlio d’un emigrato abruzzese di San Valentino, in provincia di Pescara, è stato Primo Ministro del Belgio ed è una figura istituzionale di primo piano in Europa. Elio Di Rupo è motivo d’orgoglio per l’Italia e per l’Abruzzo, terra dei suoi padri. Nel locale delle testimonianze, adiacente al Memoriale, sono apposte molte targhe commemorative. Ci soffermiamo davanti a quelle apposte dalla Regione Sicilia, dalla Regione Abruzzo e dall’ANFE che tanto operò nei giorni della tragedia in aiuto alle famiglie delle vittime. La nostra visita si conclude, con un abbraccio collettivo e liberatorio dell’emozione. Ognuno prende la sua destinazione. Ho il volo per Roma a tarda sera, dall’aeroporto di Charleroi. C’è tempo di passare il pomeriggio con un coetaneo e compagno di scuola: Francesco, emigrato giovanissimo da Paganica (L’Aquila) qui nei pressi di Charleroi. Con lui e sua moglie Clelia raggiungiamo Dino e Giovina, altra coppia di amici aquilani. Si festeggia con un’agape fraterna il compleanno di Dino. Partito da Camarda, un paesino alle falde del Gran Sasso, Dino venne qui a lavorare. Fino a realizzare una catena di distributori di benzina “Scipioni” e un florido commercio di vari altri combustibili. Un’impresa condotta ora dai figli. Passiamo in allegria un magnifico pomeriggio. Poi il volo, quasi in orario. E l’arrivo all’Aquila, a notte inoltrata. Gelida, ma con un cielo puro, trapunto di stelle splendenti.