Maria Letizia Balsamo e Daniele Catalano, due educatori in Istituti Penitenziari a Palermo, con Lupo editore hanno pubblicato il romanzo “Malae Spinae” (pagg. 307, €15,00), “storia a due voci: quella di un adolescente palermitano destinato a finire male e quella della operatrice sociale Federica che incontra”. A loro andrà il premio Kaos 2016 intitolato alla memoria di Salvatore Coppola, editore trapanese scomparso nell’ottobre 2013: un premio sulla legalità attribuito a un libro in concorso che meglio racconta di una Sicilia che ha voglia di riscattarsi. Il Festival dell’editoria, della legalità e dell’identità siciliana si svolgerà a Racalmuto il 28-29-30 ottobre. L’intervista a Maria Letizia Balsamo e Daniele Catalano.
Possiamo spiegare ai non Siciliani il gioco di parole di “Malae Spinae”?Daniele: Malae Spinae è latino ed è di semplice traduzione: Spine cattive. Per assonanza fonetico/lessicale può richiamare il nome dell’Istituto Penale per i Minorenni di Palermo; ossia il carcere minorile “Malaspina”. Il nostro romanzo si può considerare soltanto un lontano tributo alla predetta struttura in quanto la storia si dipana tra il quartiere Ballarò (foto copertina), alcune comunità per minori e il fantomatico carcere minorile di Bagheria.
Con il titolo volevamo in primo luogo sintetizzare il concetto che esiste un universo di persone che per i più si caratterizza quasi come una sorta di pianta infestante: zeppa di aculei dolorosi e inutili.
Eppure quella pianta infestante, quella Mala Spina, come si vedrà leggendo il libro, può essere capace di riscattare una storia di marginalità e devianza.
L’idea di scrivere il libro com’è nata?
Letizia: L’idea, in origine, era quella di scrivere un saggio sul mondo della devianza minorile e sulle sue opportunità pedagogiche, ma ad un certo punto, una sincrona ispirazione ha preso il sopravvento e, quasi circolasse un flusso energetico ci siamo ritrovati tacitamente e simultaneamente a narrare di ragazzi devianti e di operatori che li hanno in carico. Abbiamo provato a sdoganare un universo parallelo che, in gergo tecnico, definiamo “subcultura deviante” e nel farlo ci siamo serviti di un linguaggio altro, talvolta quello di strada; la strada dov’è nato e cresciuto Giacomino Mimosa; tal altre è emersa la voce dell’educatrice Federica che ha puntato lo sguardo su un arcobaleno di sentimenti e di emozioni.
Quali sono state le fasi che hanno accompagnato lo sviluppo e la pubblicazione?
Beh, in qualche misura, le fasi sono sovrapponibili a quelle del lavoro di équipe a cui siamo abituati. Inizialmente i personaggi hanno urlato le loro storie e noi li abbiamo sostenuti e abbiamo scritto al loro posto. In un secondo momento ci siamo incontrati, confrontati, riveduti e corretti vicendevolmente.
È più facile per voi lavorare insieme o scrivere insieme?
Letizia: Scrivere non è semplicemente un esercizio tecnico-stilistico o un lavoro di pura creatività, ma implica una connessione con le molteplici parti del sé che, nella vita quotidiana, rimangono intrappolate o assopite, quando non anestetizzate. Lavorare insieme, per certi aspetti, può risultare meno complesso giacché talune mansioni, e i rapporti gerarchici che ne derivano, sono definite dall’organizzazione, dalle sue regole e dai suoi fini istituzionali. Talora l’intesa è stata massima, altre volte si è sfiorata la lite.
Come vi siete organizzati praticamente nel lavoro: avete suddiviso i compiti oppure tutto è stato gestito a quattro mani?
Daniele: non c’è stata una vera programmazione a monte: come ha detto Letizia, originariamente avevamo pensato ad altro. Solo che, ad un certo punto, Giacomino e Federica si sono fatti strada tra le leggi, le teorie e le masturbazioni psicologiche. In linea di massima io mi sono dedicato a Giacomino, il ragazzo deviante protagonista della prima parte e della parte finale.
Letizia: Io ho curato la narrazione di Federica e dopo, aver completato la parte, si è lavorato a quattro mani per dare un tocco di Federica a Giacomino e viceversa.
Daniele: si noterà leggendo, che il personaggio del ragazzo deviante all’inizio è tumultuoso e iperbolico come lo sono tutti gli adolescenti e i nostri in particolare. Poi, verso la fine, diventa più pacato e riflessivo. In buona sostanza è ciò che succede quando un ragazzo difficile incontra un adulto significativo. Un adulto, cioè, che riesce, in qualche modo, a dare ordine al guazzabuglio di emozioni frutto delle tempeste ormonali di quella difficile età e delle sopraffazioni che fungono da moltiplicatore.
Letizia: Federica attraversa un percorso evolutivo inversamente proporzionale rispetto a quello del ragazzo. Inizialmente impettita e rigida, riesce, anche grazie alla relazione educativa con Giacomino, a prendere contatto con parti di sé stessa fino ad allora sconosciute. Oppositiva rispetto a un sistema che vorrebbe burocratizzare e ingabbiare la più nobile delle missioni: quella di educare.
Chi in particolare vi piacerebbe leggesse il libro?
Daniele: In primo luogo vorremmo lo leggessero i laureandi in Scienze sociali. O chi si appresta a cimentarsi nell’universo delle professioni di aiuto. Può essere utile per chi si vuole approcciare ad un mondo così complesso, vedere qual è il punto di vista di chi ci vive dentro o di chi lo bazzica per lavoro o vocazione. Ma siccome ha i tempi del film o della pièce teatrale, ci piacerebbe anche che arrivasse nelle mani di un regista o di un produttore cinematografico. Sarebbe bello vedere Giacomino e Federica prender vita.
In che misura e maniera avete “romanzato” i personaggi del libro per non allontanarvi dalla realtà e, allo stesso tempo, per renderli narrativamente attraenti?
Letizia: I personaggi che vivono in Malae Spinae non esistono realmente; sono il frutto della fantasia dei loro autori. La realtà circostante ci pone quotidianamente a confronto con decine e decine di persone con le quali interagiamo; le loro azioni, i lori atteggiamenti, persino le loro parole spesso echeggiano in noi, si sviluppano e si sedimentano fino a dare forma e vita a quelli che oserei definire: “i nostri personaggi interiori”- Non diamo mai loro modo di esprimersi, ma quando lo facciamo il risultato è quello che leggiamo in taluni racconti come questo.
Il tono semiserio che accompagna la narrazione forse è un segno distintivo del tipo di approccio alla realtà che hanno i personaggi o forse è semplicemente un meccanismo di difesa che consente di stemperare la tragicità di talune vicende umane;
A fine ottobre riceverete il premio intitolato a Salvatore Coppola nell’ambito del festival Kaos: un commento…
Daniele: è una gran bella soddisfazione. Sia perché avete dato un riscontro ai nostri sforzi sia perché Salvatore Coppola è un punto di riferimento per chi cerca di arginare il fenomeno mafioso. Nel nostro libro c’è un legame con i suoi famosi “pizzini della legalità”. Mi riferisco a quando Giacomino passa a Federica i foglietti, lui li chiama, appunto, pizzini, sui quali scrive i suoi pensieri e quel che gli capita e che poi, nella fantasia narrativa, diventano il libro stesso. Quei pizzini sono l’espediente che Giacomino usa per non prendere a “timpuluni” veri la “tintaria”con il rischio di farsi male. Analogamente ritengo che, nelle intenzioni di Salvatore Coppola, i pizzini della legalità servissero proprio a quello: a prendere a schiaffoni la mafia senza farsi ammazzare!
In base alla vostra esperienza, negli anni a Palermo è cambiata la percezione del termine e del concetto di “legalità”? Come?
Daniele: Palermo è una stupenda città. Come direbbe Giacomino <<è una città biddicchia. Ma in questa città biddicchia capitano un futtiu di sconzature!”>>
Troppe sono le cose che non vanno. Sempre di più, oserei dire. I tagli alle politiche sociali, la crisi, la disoccupazione, la stessa riduzione delle risorse assegnate alle forze dell’ordine… Tutto questo ha lasciato ampie praterie al mondo della sottocultura criminale.
Così diventa sempre più difficile per gli educatori, gli assistenti sociali, gli insegnanti, i poliziotti e i servitori dello stato, magistrati e quant’altro, riuscire a strappare nuove anime ad un’Idra sottile e malefica che si nutre di dolore, rancore e fame e che ha contro uno Stato latitante e indifferente. Uno stato la cui unica occupazione sembra essere, al momento, il Referendum Costituzionale che a Palermo quasi nessuno, almeno nei quartieri popolari, andrà a votare, perché farlo non modificherà di un pelo la vita di chi vive al margine. Ecco com’è cambiato il concetto di legalità. La legalità è diventata qualcosa di astratto che non dà da mangiare. Qualcosa da addetti ai lavori.
Letizia: Sarebbe oltremodo complesso definire esaustivamente i mutamenti del concetto di legalità intervenuti in questi ultimi anni in una città come Palermo o in un paese quale l’Italia. E risulta estremamente difficile perché la legalità non è soltanto “lotta alla mafia o alla criminalità organizzata”. Per esempio, è arduo affermare che una diminuzione dei reati corrisponde ad una maggiore consapevolezza della legge perché talvolta quella contrazione dei reati testimonia proprio il contrario, ossia un maggior controllo del territorio da parte delle organizzazioni criminali ed un arretramento delle forze dell’Ordine. Il concetto di legalità ingloba quello di uno stile di vita improntato al rispetto delle regole della civile convivenza, quello di una forma mentis che possiede un naturale sguardo verso l’altro e verso il proprio ambiente di vita, che sia naturale o artificiale.
Non si può tuttavia rinnegare lo sforzo della comunità e dell’associazionismo sociale, tradotto in concreti impegni e non soltanto in convegni organizzati per gli addetti ai lavori. Le campagne quali “Addio Pizzo”, le aste dei terreni e degli immobili confiscati alla mafia utilizzati per la collettività. Queste ed altre iniziative simili sono senz’altro l’indice di un lento cambiamento ma costante cambiamento culturale, sebbene il traguardo di una morale autonoma che non richieda cioè la presenza fisica del poliziotto municipale sia ancora piuttosto lontano.
Nel romanzo viene risaltata una parte della realtà che pure esiste; la legalità dei mille maestri, dei mille educatori, dei mille poliziotti, dei preti di periferia come Don Pino Puglisi. Di quelle persone, cioè, che fanno quel che è giusto fare solo perché è giusto farlo e non soltanto perché c’è qualcuno dietro che Te lo impone e ti controlla! Giovanni Zambito.