di Domenico Logozzo *
Un altro grande della cultura calabrese ed italiana dimenticato da tutti. Tre anni dopo la morte, avvenuta a Genova il 22 giugno 2012, un ingiusto silenzio avvolge la figura e l’opera di Vincenzo Guerrazzi, protagonista delle lotte operaie del Novecento e di inizio Duemila. La penna e il pennello del Sud che non si arrende. Con le sue opere, libri e dipinti straordinari, ha dato voce ai senza voce, agli sfruttati, agli emarginati. Ha denunciato i soprusi dei “Potenti della Terra” e si è attirato le ire di tanti “Uomini di Potere” italiani. Il suo libro più famoso “Nord e Sud uniti nella lotta”, ispirato ai sanguinosi moti di Reggio Calabria degli anni Settanta, fu sequestrato dalla magistratura. Controcorrente. Mai si è sottomesso. Calabrese tosto. Ha lasciato una grande eredità culturale, che nessun colpevole oblio potrà mai cancellare. Ricordare è un dovere. A cominciare dalla Calabria, dalla quale è partito ragazzino per cercare ciò che la sua terra non poteva dargli: la dignità del lavoro. Una esperienza dura. Ragazzino aveva perso il padre ucciso dai nazifascisti nell’eccidio della Benedicta. Ancora minorenne è entrato in fabbrica, alla Ansaldo. Sacrifici e voglia di mettere a frutto le sue doti culturali. La scrittura e la pittura. Per il riscatto. Ha lasciato gli ingranaggi infernali della catena di montaggio. E’ diventato un caso letterario nei primi anni Settanta con il libro “Nord e Sud uniti nella lotta“. Poi la pittura, il suo secondo amore. Anche in questo campo fuori dai consunti schemi.
“Ha articolato tra letteratura e pittura un originale percorso culturale”, ha scritto Stefano Bigazzi. Un percorso che non può e non deve essere ignorato. Purtroppo la serie dei “grandi dimenticati” si allunga con Guerrazzi. Questo nostro Paese è purtroppo senza memoria. Scriveva Indro Montanelli: “Come diceva Ojetti, l’Italia è un Paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria di se stesso. E un Paese – mi permetto di aggiungere – senza memoria di se stesso non è un Paese; è solo un conglomerato di bastardi accampati sulla più bella terra del mondo, come lo sono le cavallette quando scendono a devastarla”.
La notizia della morte venne comunicata dalla figlia con una mail inviata agli amici (ed io ho avuto l’onore ed il privilegio negli ultimi anni di essere uno di questi ). Ci ha scritto Marika: “La presente per comunicarvi che questa notte lo scrittore Vincenzo Guerrazzi è morto. Domani si terrà un incontro per un ultimo saluto nella camera mortuaria dell’Ospedale Galliera di Genova alle ore 15.00. Sua figlia Marika Guerrazzi”. Sapevo del terribile male che l’aveva colpito, perché l’amico e collega Gianfranco Sansalone me ne aveva parlato e mi teneva costantemente informato. Risposi subito alla figlia: “Marika carissima, questa notizia tristissima mi arriva mentre mi trovo in Canada. Sono addoloratissimo. Ho avuto l’onore di godere dell’amicizia di tuo padre in questi ultimi anni, ma io conoscevo il suo impegno civile, la sua onestà intellettuale, la sua energia culturale senza compromessi fin dai primi Anni Settanta, quando come Capo Redattore del Giornale di Calabria ho seguito le vicende legate al suo libro Nord e Sud uniti nella lotta. Passione civile. Difesa dei diritti dei lavoratori. Forte come una quercia. Ha lottato. Non si è mai arreso. Un galantuomo, senza pari. Un figlio della Calabria che la Calabria non ha saputo onorare per quello che meritava. E’ una grave perdita. Per tutti quanti credono nei sani principi per i quali Vincenzo si è battuto. Per tutta la vita. A viso aperto. Fiero. Con la schiena sempre dritta. Uomo giusto, per difendere i giusti principi. Non posso dimenticare, non dimenticherò mai i colloqui che ho avuto con lui, le comunicazioni attraverso mail e facebook. Conserverò gelosamente questi pensieri. Per sempre. Un caro amico, un altro grande della cultura se ne è andato. E non deve cadere nell’oblio Marika carissima, ti sono vicino in questo triste momento. La Calabria ed il mondo della cultura italiana debbono essergli grati per i contributi propositivi ed innovativi, come scrittore e come pittore. Vincenzo è morto, ma le sue lezioni sono vive. Il suo cuore si è fermato. Le sue idee debbono camminare. Per un mondo migliore. Mi inchino davanti alla figura di un grande sostenitore dei grandi ideali. Un forte abbraccio. Mimmo”.
Per ricordare Guerrazzi, voglio riproporre un suo scritto che risale al 6 agosto del 2010, dal titolo “L’Eroe, il Palazzo dei Giganti e i Meridionali del Mondo”. Rileggiamolo assieme: “Poche migliaia d’individui hanno il controllo totale dei sei miliardi, tra donne e uomini, che abitiamo sul pallone chiamato Terra. Siamo tutti nati dalla stessa fessura e tutti, o quasi tutti, abbiamo gli stessi organi vitali. Tutti nasciamo con un orifizio molto importante, volgarmente chiamato buco del culo, il quale ha la funzione vitale di farci evacuare le scorie del carburante che ingoiamo per mantenerci in vita. Montesquieu scriveva che dietro ogni fortuna c’è più di un delitto. Questa è un’assoluta verità. Se la merda avesse un valore, i disperati della terra nascerebbero tutti senza l’orifizio. Gli imperatori e i regnanti egizi, romani, inglesi, portoghesi, spagnoli ecc. erano dei poveracci rispetto a questi pochi fetenti-potenti che controllano il pianeta. Questi dominatori della Terra, siedono al tavolo delle decisioni e mentre mangiano crema d’aragosta annaffiata con vini pregiati, s’inventano l’eroe da dare in pasto alle masse. I loro pensieri aleggiano come materiale radioattivo sopra la testa dei meridionali del mondo, nel profondo della loro coscienza sono come quel padrone di casa persiano che assassinò i suoi ospiti per arrivare al potere assoluto. Sussultano e sbuffano come muli impazziti che senza tregua scalciano sulla testa e sulla fatica del dolore umano. Occupano e massacrano interi popoli e così s’inventano e creano gli eroi per mantenere sempre più saldo il loro potere. Quell’eroe ingenuo che alla fine della battaglia ritorna a casa carico di visioni di morte. Lo festeggiano, lo “monumentano” e per un giorno si sente felice, potente…Ma dopo la festa si rende conto della sua solitudine e così riprende in silenzio il suo posto a reggere la trave. I meridionali del mondo, muoiono e diventano eroi. Ma cos’è un eroe di fronte ad un cavallo che libero, galoppa nella prateria? Vale di più un eroe o una gazzella guizzante nella savana? Dagli angoli più remoti del Pallone giungono a noi le grida disperate dell’eroe che non vuole essere tale. Urlano il grano e le margherite, piange il papavero e stridono gli insetti, urlano il ventre della madre e la primavera che l’eroe non vedrà mai più. Mi viene in mente un discorso che qualche anno fa fece un industriale illuminato: «La fabbrica dev’essere quello che il Foro fu nell’antica Roma, quello che la Cattedrale e il Mercato rappresentarono nel Medio Evo».Le fabbriche oggi non sono come l’Antico foro e la Cattedrale. Ci auguriamo che nel prossimo futuro le fabbriche non produrranno più morte e come antichi senatori gli operai facciano lunghe discussioni e preghino anche: pregare non costa fatica. Finalmente gli schiavi moderni che vivono del loro lavoro avranno accesso al Tempio degli Avi e potranno investigare sui grandi misteri, pregare e vendere indulgenze. Ma intanto, per ora, nelle officine si sente solo il ronzio del tornio che lavora la bocca del cannone e i calcolatori elettronici che forniscono dati per nuovi “mini conflitti” mentre i bianchi ghiacciai e le sabbie dorate dei deserti si colorano di rosso. Gli eroi sono sempre serviti ai potenti, sia che essi fossero forti e belli nel loro vigore fisico come i Bronzi di Riace, che intelligenti e tecnologicamente preparati come quelli della nostra società. Quand’ero bambino e passavo davanti al palazzo del potente del mio paese, mi fermavo a guardare gli uomini di pietra che reggevano l’architrave e sentivo per essi un grande senso d’oppressione; la gente del borgo li chiamava i Giganti. Ora so che in ogni città del mondo c’è il palazzo dei Giganti. L’oppresso, il separato, regge sempre la trave e i potenti della terra lo scoprono quando devono mandarlo a morire per farne un eroe per le masse”.
Così il 3 settembre 2010 commentai questa riflessione del grande uomo di cultura calabrese: “Il lucido ed articolato ragionamento di Guerrazzi, ancora una volta provocatorio, pungente e incisivo, risulta utile per addentrarsi in una società dove i deboli sono sempre più deboli e i forti sono sempre più forti. Il divario si allarga. Il Palazzo dei Giganti è fortificato dagli interessi torbidi che mettono in ginocchio le legittime aspirazioni di rinascita dei Meridionali del Mondo. Il dibattito che si è aperto, l’attenzione e la preoccupazione che emergono negli interventi finora pubblicati, stanno a dimostrare che lo scrittore-pittore ha saputo scrivere e dipingere con efficacia una drammatica realtà: l’Eroe dei poveri che viene dato in pasto alle masse, mentre i ricchi banchettano. E più mi addentro nella lettura, più mi convinco che l’Eroe è il figlio della Calabria che lotta contro quell’oppressione che Guerrazzi, negli Anni Quaranta, aveva intelligentemente colto nell’amara realtà della sua Mammola: “Quand’ero bambino e passavo davanti al palazzo del potente del mio paese, mi fermavo a guardare gli uomini di pietra che reggevano l’architrave sentivo per essi un grande senso d’oppressione; la gente del borgo li chiamava i Giganti. Ora so che in ogni città del mondo c’è il palazzo dei Giganti. L’oppresso, il separato, regge sempre la trave e i potenti della terra lo scoprono quando devono mandarlo a morire per farne un eroe per le masse”. L’Eroe, il Palazzo dei Giganti e i Meridionali del Mondo Ha ragione Guerrazzi nel denunciare che “poche migliaia d’individui hanno il controllo totale dei sei miliardi, tra donne e uomini, che abitiamo sul pallone chiamato Terra”. I fetenti-potenti in Calabria hanno provocato immani disastri. Hanno negato il futuro alle giovani generazioni. Hanno distrutto il passato. Il grido d’allarme che in questi giorni si è alzato, prepotentemente, dal piccolo borgo di Cavallerizzo di Cerzeto, preoccupa ed indigna. C’è una donna che, con coraggio, ha sfidato i Potenti. La grande stampa non ne ha parlato. Il Manifesto ha invece rotto il muro del silenzio e dell’omertà. Sì, signori Potenti, l’omertà dei colletti bianchi è pari a quella delle connivenze mafiose che hanno tolto allo Stato il ruolo di tutela degli interessi generali dei cittadini buoni e onesti, per dare all’anti-Stato il predominio illegale e paralizzante. La Calabria è diventata terra di conquista.
“Qui la criminalità organizzata “assicura” il lavoro, lo Stato no”. Alcuni anni fa, poco prima di morire, Fabrizio De André a Roccella Jonica, durante uno dei suoi ultimi concerti, fece questa provocatoria affermazione. Scattarono le reazioni “indignate”. La verità purtroppo non piace. E brucia,quando viene detta con molta franchezza, a viso aperto. Si rischia non solo il linciaggio morale, ma la solitudine. La solitudine degli Eroi, che Guerrazzi mette in evidenza. Ma quando si ha ragione non si è mai soli. Ne sa qualcosa proprio lo stesso Guerrazzi che per il fatto di non essersi mai piegato al Potere, ha subito tante, troppe ingiustizie. Ma con l’onestà intellettuale e con le solide radici che ha, è riuscito a non farsi sopraffare. Non un Eroe al servizio dei Potenti, ma un Giusto al servizio della gente buona e onesta.
Giustizia. Onestà.Verità. Tre aspirazioni per i calabresi, che hanno sofferto e soffrono e che non vogliono costruire Eroi da mettere al servizio dei Potenti. Bombe e minacce: contro i giudici, contro i giornalisti, contro i politici. E mentre il frastuono delle intimidazioni sconvolge la vita della regione più schiaffeggiata e abbandonata del Sud del Sud, in silenzio si consumano altre gravi ingiustizie e i cittadini vengono umiliati ed estromessi dai luoghi decisionali dai Giganti. Dicevo del caso di Cerzeto. Penso che rappresenti un’altra scandalosa tappa dell’arroganza del Potere. Conoscere per capire. Piccole realtà, grandi “affari”. Scrive Il Manifesto: “In principio fu Cavallerizzo di Cerzeto. Non c’è solo L’Aquila, infatti, nei progetti di new town che la ditta Berlusconi & Bertolaso vuole disseminare su è giù per lo Stivale. Anzi, sotto certi aspetti, la vicenda di questo borgo arbereshe del cosentino è ancor più grave del caso aquilano. Perché di Cavallerizzo ormai nessuno parla più. Tranne il Manifesto e pochi altri, il resto dei media ha steso il velo della censura su una storia che è la più eloquente narrazione del degrado istituzionale e dello sfascio ambientale di un’intera regione. Una frana disastrosa e spettacolare cinque anni orsono. Che però mantenne intatto il centro storico di Cavallerizzo. E, poi, una gestione disinvolta della ricostruzione. Si è scelta la delocalizzazione in luogo del pieno recupero del vecchio abitato. Non la rinaturalizzazione, la preservazione e la riqualificazione ambientale delle antiche case ma un nuovo agglomerato urbano da costruire a larga distanza. Una deportazione di un’intera comunità fondata su un allarmismo che trova pochi consensi nella maggior parte dei geologi nazionali. Gli abitanti di Cavallerizzo, però, non ci stanno, non si rassegnano e nutrono la speranza di vedere rinascere il loro borgo. Come un tempo, sulle stesse pietre e negli stessi luoghi. La gente non ci sta. E protesta.
Riferisce ancora Il Manifesto: “Almeno duecento persone sgomberate cinque anni fa, si sono ritrovate domenica 30 agosto per manifestare all’esterno della zona rossa che le separa dalla loro vita. Vogliono riprendersela. Puntano il dito verso la procura di Cosenza: «Hanno aperto un’inchiesta, ma non se ne sa più nulla». Sono certi che nella soluzione amara della loro drammatica vicenda pesano gli interessi dei medesimi personaggi visti in campo a L’Aquila, in Sardegna, Toscana e altrove. E dall’Abruzzo infatti è giunta la solidarietà del Comitato 3,32. Lì come qui si lotta contro la shock economy. Da una parte chi vorrebbe tornare ad abitare il centro storico. Dall’altra il progetto di New Town che dovrebbe essere consegnata entro il 2011. In mezzo 70 milioni di euro spesi per affrontare l’emergenza. Piangono gli arbereshe di Cavallerizzo, uno dei 26 centri abitati dalle comunità che nel basso medioevo immigrarono in provincia di Cosenza. Seicento anni fa furono le armate ottomane a scacciare gli albanesi dalle loro case. Oggi è la Protezione Civile a sbarrare la porta d’ingresso ai discendenti di quel popolo in fuga. «Scusi, posso andare un attimo a casa mia? Voglio recuperare un ombrellone. Se mi lascia entrare, lo piantiamo qui e potrà ripararsi anche lei. Non sente questo caldo?». La signora Chiara chiede il permesso con materna dolcezza. Secca e meccanica la replica del carabiniere: «Non è possibile, signora. Abbiamo ordini precisi». La prefettura di Cosenza è stata categorica: la gente non deve oltrepassare il cancello. Che nel frattempo s’è trasformato in bacheca parlante. Quelli dell’associazione “Kajverici Rron” (Cavallerizzo Vive) lo hanno ricoperto di documenti. C’è l’interessante lavoro di Stefania Talarico, originaria di Cavallerizzo, emigrata in America dove cura un blog tematico. Fa nomi e cognomi. Ricostruisce una fitta trama di interessi. Spiega qual è la filosofia che ha portato alla delocalizzazione e alla costruzione della new town. Al suo fianco c’è Antonio Madotto, segretario dell’associazione: «La costruzione di un nuovo paese ci è stata imposta. Non ci hanno dato scelta. L’antico abitato di Cavallerizzo, in realtà, non è mai scivolato interamente a valle, altrimenti sarebbe finito proprio sull’area dove tuttora è in fase di costruzione l’orrenda “new town”. È un progetto che annienta il nostro modo di vivere. Mancano una strada di collegamento e diversi altri servizi, non c’è una Chiesa e neanche una scuola. È un quartiere popolare dormitorio di cui la Protezione Civile Nazionale si vanta, fingendo di non sapere che rappresenta la fine della nostra identità”.
Non c’è rassegnazione. La reazione è forte contro i Giganti. Ancora Il Manifesto: ”Rabbia contro Guido Bertolaso e quanti hanno deciso che bisognasse ricostruire Cavallerizzo di Cerzeto in un altro sito. Qui la gente conosce benissimo questa terra e i suoi mal di pancia. Sa che la frana del 2005 non si sarebbe mai verificata se nel secolo scorso l’abusivismo edilizio non avesse deviato i canali naturali. Ricorda che lo smottamento danneggiò soltanto l’11% dell’abitato, ma il restante centro storico è ben solido sulla collinetta. Non può franare più. L’inverno scorso, mentre l’intera Calabria smottava, l’antica Cavallerizzo non s’è mossa d’un millimetro. Lo certifica pure la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Calabria: nel luglio 2009 ha vietato qualsiasi opera di demolizione, sollecitando un restauro del vecchio centro abitato. Davanti al cancello ci sono anche dirigenti della Cgil, Italia Nostra e Controinvasioni. Tutti ascoltano con ammirazione la storia di Donna Liliana e dei suoi familiari: un anno fa, incuranti dei divieti, sono tornati a vivere nella vecchia casa. Le autorità hanno tagliato acqua e luce? «Che me ne importa? – spiega la signora – Ho comprato un generatore ed abbiamo incanalato una sorgente. E ho pure mandato un fax a Bertolaso. Voglio vedere se ha il coraggio di venirmi a sgomberare».
Donna Liliana, una donna calabrese forte, contro il Potere. Un esempio. Da seguire. Potrebbe rappresentare l’inizio del riscatto. Non più Eroi al servizio dei Potenti. Ma il Potere costretto ad indietreggiare, a non opprimere più una popolazione da secoli sottomessa ai saccheggi ed alle dominazioni. Utopia? No. Può e deve divenire realtà. Per dare concretezza all’ottimismo della volontà degli uomini illuminati e a menti proficue, come quella di Vincenzo Guerrazzi, contro il pessimismo paralizzante dei conservatori che hanno un solo obiettivo: “conservare” il loro Potere. Sono meschini mascalzoni che, in quanto tali, vanno espulsi e buttati via: “merda senza valore”.
*già Caporedattore del TGR Rai
Vincenzo Guerrazzi (Mammola, 8 novembre 1940 – Genova, 22 giugno 2012) è stato un operaio, pittore e scrittore italiano. Nasce in un piccolo paese dell’entroterra calabrese e, perduto il padre (vittima dei nazifascisti nell’eccidio della Benedicta) in tenerissima età, dopo l’infanzia e l’adolescenza vissute in una Calabria rurale e primitiva, si trasferisce a Genova, dove, ancora minorenne, viene assunto alla Fabbrica Ansaldo, Meccanica Varia, e vi resta per diciotto anni. Nel 1975 si licenzia per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e alla pittura, attraverso le quali compie un percorso di impegno civile, sociale, politico. La sua arte, sia narrativa che pittorica, è legata alla realtà che tratta e che rappresenta. Nelle sue opere ogni estrosità figurativa o letteraria è funzionale alla comunicazione del messaggio che contiene; ossia, prima di come esprimere è importante cosa esprimere, per aprire gli occhi alle società del proprio tempo, scuotere le coscienze, fare luce su ciò che viene iniquamente tenuto nel buio. Guerrazzi “fonda” così il primo quotidiano-murale: “L’urlo della notte” nei gabinetti della fabbrica, luogo dove gli operai scrivono sui muri frasi e pensieri, che saranno poi raccolti e pubblicati all’interno del primo romanzo completo di Guerrazzi, Nord e Sud uniti nella lotta, libro spregiudicato nel linguaggio, censurato, discusso, ma poi finalista al Premio Sila nel 1975. Scrive e pubblica settimanalmente sui quotidiani locali, Il Secolo XIX e Il Lavoro dei racconti inerenti alla condizione operaia negli anni ’60 e ’70, e anche questi saranno poi riuniti nel romanzo Le ferie di un operaio del 1974. Dopo avere curato un’inchiesta all’interno (e dall’interno) del contesto operaio, intitolata L’altra cultura (1975), ne realizza altre due, I Dirigenti nel 1976, e Gli Intelligenti nel 1978; entrambi denuncia di superficialità, disimpegno, incompetenza, malcostume, goffaggine, tracotanza delle classi dirigente e “intellettuale”. È il punto di vista che Guerrazzi esprime anche in pittura: quadri storico-politici, ambientati nella fabbrica. Tiene svariate mostre in Italia (nel 1996 anche in Germania) a partire da quella svoltasi a Roma, a Palazzo dei Congressi nell’ottobre 1977. Nel 1978 la televisione svizzera e la Rai gli dedicano due programmi, quello della Rai condotto da Stefano Satta Flores. È scomparso nel 2012 all’età di 71 anni.
(da Wikipedia)