Sentenza della Corte Costituzionale N 70/2015 sul blocco della Perequazione.

19 Giugno 2015
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Enzo Ruggieri

Sulla Gazzetta Ufficiale 1^ serie speciale – Corte Costituzionale – n. 18 del 6 maggio 2015 è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale n. 70 del 2015, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214.

 In particolare, la suddetta sentenza ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 24 comma 25 del citato decreto, nella parte in cui prevede che “in considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”.

A riguardo, l’INPS, con il messaggio n. 3135/2015, ha comunicato che, in applicazione di quanto previsto dall’articolo 17, comma 13 della legge 31 dicembre 2009 n. 196, non potrà definire eventuali richieste di ricostituzione relative ai trattamenti pensionistici interessati dalla sentenza, fino all’adozione delle relative iniziative legislative.

I. Con sentenza n. 70/2015 del 10/03/2015 (depositata il 30/04/2015 e pubblicata in G. Uff. 6/5/2015 n. 18) la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto – legge 6 dicembre 2011 n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento INPS, nella misura del 100%».”

La Corte ha disatteso numerose argomentazioni portate dai giudici rimettenti, tra cui quelle che definivano il blocco della perequazione un prelievo fiscale mascherato (e non diretto a tutti i cittadini contribuenti indistintamente) e quelle che rilevavano una violazione delle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Con approfondita ed articolata motivazione i Giudici costituzionali hanno inteso ripercorrere quanto storicamente accaduto nel corso degli anni relativamente al problema del mantenimento del potere d’acquisto delle pensioni, con la previsione del meccanismo della perequazione automatica.

Tale meccanismo ha subito più volte dei temperamenti con l’introduzione di una graduazione proporzionale al crescere dei redditi o il blocco, sempre per redditi superiori a determinati livelli, al presentarsi di particolari contingenze economiche.

Spesso la Consulta si era espressa favorevolmente circa la legittimità costituzionale di provvedimenti di graduazione, a patto che salvaguardassero le pensioni più basse e introducessero aliquote di rivalutazione progressivamente decrescenti, prevedendo, cioè, una copertura decrescente a mano a mano che aumentava il valore delle prestazione.

Con tali interventi la Corte aveva chiarito quali fossero i principi che il Legislatore doveva rispettare al presentarsi di esigenze improcrastinabili di risparmio per lo Stato e gli Enti previdenziali.

Così aveva stabilito che, in subiecta materia, vengono in rilievo le norme di cui agli articoli 36 e 38 secondo comma della Costituzione dalle quali si ricavano i principi di proporzionalità ed adeguatezza dei trattamenti pensionistici, intesi quale retribuzione differita.

La perequazione automatica viene, quindi, definita come uno strumento di natura tecnica volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza, ma anche ad “innervare” il principio di sufficienza della retribuzione.

Da ciò, la sentenza in commento, ricava che la tecnica della perequazione si impone (e non può, quindi, essere soppressa) sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il “quantum” di tutela di volta in volta necessaria.

Tali interventi devono ispirarsi ai principi costituzionali sopra menzionati, tra loro strettamente interconnessi.

La perequazione è, quindi, garantita di per sé dalla Costituzione ed il Legislatore si deve limitare a graduarla in relazione a specifiche ineludibili esigenze.

Giudicando legittime norme che, in occasione di determinati eventi, non incidendo su trattamenti di importo meno elevato, limitavano e graduavano in concreto la perequazione su fasce di importo più elevato in modo progressivo, la Corte aveva ritenuto che i principi di proporzionalità ed adeguatezza fossero rispettati.

Più che di blocco poteva parlarsi, in questi casi, di graduazione, cioè di tecnica per definire in concreto in quale modo trattamenti pensionistici appartenenti a fasce di importo diverso (da quelle modeste a quelle più alte) potessero mantenere il loro potere d’acquisto nel rispetto del principio di adeguatezza e proporzionalità.

La sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a penalizzarlo, invece, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità.

In passato l’azzeramento è stato ritenuto legittimo quando limitato al solo momento dell’intervento (un solo anno), per trattamenti decisamente superiori al minimo (fatta salva la garanzia di esigenze minime di protezione della persona) e giustificato da particolari, specifiche e dichiarate esigenze finanziarie (ad esempio contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità per compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino dell’età minima per l’accesso alla stessa, c.d. abolizione dello scalone; oppure in favore di particolari norme in materia di lavoro e previdenza sociale).

In altre parole deve trattarsi di esigenze finanziarie verificatesi in un determinato momento e queste debbono essere illustrate in dettaglio nel relativo provvedimento.

La norma dichiarata incostituzionale, invece, opera il blocco integrale della perequazione “per le pensioni di importo superiore a Euro 1.217,00 netti” (3 volte il minimo INPS) e quindi incide anche su trattamenti di basso importo e su tutti i trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo progressivamente delineate.

Si tratta di una sospensione e non di una tecnica di graduazione del meccanismo perequativo, di durata biennale e quindi non legata ad una particolare esigenza contingente ed il diritto costituzionalmente fondato risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio.

Se si vaglia la norma sotto i profili della proporzionalità ed adeguatezza del trattamento si può a ragione ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità con conseguente pregiudizio per il potere d’acquisto del trattamento stesso e con “irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività”.

Il Legislatore “ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa” può soltanto “proporre un corretto bilanciamento … nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo” onde evitare gli interventi della Corte.

 

II. Passando a trattare del D.L. 21/05/2015 n. 65 si osserva, in primo luogo, che esso interviene, dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale, con un meccanismo inedito e cioè quello della modifica (“sono apportate le seguenti modificazioni”) mediante sostituzione del comma 25 dell’art. 24 del D.L. 201/2011, cioè proprio della norma dichiarata costituzionalmente illegittima.

Ora, se una norma è stata espunta dall’Ordinamento a seguito di un intervento della Consulta, non può più essere modificata, ma semmai dovrà essere emanata una norma del tutto nuova per coprire l’eventuale “vuoto legislativo”.

Tale norma potrà, conseguentemente, avere validità soltanto per il futuro.

Il decreto in questione incide, invece, sul passato e precisamente sugli anni 2012 e 2013, per i quali la Corte Costituzionale ha eliminato ogni limitazione al meccanismo di perequazione delle pensioni.

Il Governo si esercita a rispettare il monito della Consulta a graduare la perequazione, ma incide con gravose limitazioni anche su pensioni di importo relativamente modesto, mantenendo la misura del 100 per cento per le sole pensioni di importo fino a tre volte il minimo INPS, così che più che di legittima graduazione può parlarsi di sospensione, pur parziale, del meccanismo perequativo, riconosciuto progressivamente per percentuali inferiori al 50 per cento.

Si tratta di un meccanismo volto sostanzialmente ad eludere quanto deciso dalla Consulta.

Per trattamenti oltre sei volte il minimo INPS il blocco integrale rimane, senza che siano state valutate le osservazioni della Consulta circa la limitazione di tali provvedimenti nel tempo (un solo anno, cioè una sola perequazione annuale, mentre nel caso di specie la previsione riguarda due anni) ed il monito ad illustrare in dettaglio, per rispettare un ineludibile vincolo di scopo, le esigenze finanziarie che richiedono il sacrificio o che lo avevano richiesto (trattandosi di norma che incide sul passato).

Per la verità il vincolo di scopo non è illustrato in dettaglio neppure per giustificare “la modifica” poiché il decreto si limita a dichiarare il fine di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte.

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