“Lingua e Migrazioni. Le parole definiscono la realtà?”

2 Marzo 2015
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Annotazioni sul Convegno “Comunicare l’Immigrazione”

Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale – La Sapienza Università di Roma

di Tiziana Grassi

Ieri. Quando eravamo noi italiani, tra Otto e Novecento, ad emigrare oltreconfine. In Francia ci chiamavano babis (rospi), in America Latina eravamo burros (asini) o polpettos, per richiamare la carne povera usata dai nostri connazionali. Negli Stati Uniti eravamo mangiamaccaroni o greaseball, ‘palla di grasso’, riferito alla scarsa igiene, ed era frequente essere associati al termine scabs, ‘crumiri’, in quanto noi italiani, collocati agli ultimi posti nella scala sociale, ci accontentavamo di qualsiasi lavoro a compensi modesti. Corsi e ricorsi storici. Nel gergo urbano di New York, fuggedaboutit, deformazione di forget about, ‘lascia stare, non fa niente’, ironizzava sull’accento e la parlata italo-americana, in Germania ci definivano ithaker (da Itaca, ovvero eterni vagabondi senza patria), nella Svizzera tedescofona eravamo etichettati come bolander-schlugger, ossia ‘inghiotti polenta’, prima che la polenta fosse soppiantata, anche sul piano simbolico, dagli spaghetti. Nel solco degli stereotipi, nei Paesi tedescofoni diventammo spaghettifresser, ossia ‘sbrana spagetti’ per ridicolizzare la presunta voracità dell’italiano affamato dinnanzi a un altro piatto-simbolo nostrano, in Brasile eravamo stigmatizzati come carcamano con il significato di ‘imbroglione’, riferendosi a chi premeva con la mano per alterare il peso della bilancia e vendere a prezzo più caro il prodotto. Un vasto panorama di termini dispregiativi, nomignoli gergali, appellativi e soprannomi con cui nel passato gli italiani sono stati designati all’estero e che esprimono il vasto bagaglio di pregiudizi che hanno accompagnato il nostro migrare nei diversi Paesi di ‘accoglienza’. Un repertorio lessicale desolatamente ampio che fa meditare su come lo stare a casa d’altri fosse – e continua ad essere – una sfida difficile. “La lingua è, in fondo, soprattutto un luogo. Una casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare – annotava lo scrittore portoghese Vergìlio Ferreira -. Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire. Si pensi, ad esempio, ai suoni e alle parole in cui abita la nostra identità collettiva, veri e propri luoghi dove si radica il sentimento di appartenenza a quel territorio dell’anima che chiamiamo ‘patria’. Oppure alle barriere, spesso invisibili, che quegli stessi suoni e quelle stesse parole innalzano all’interno – oltre che all’esterno – della nostra ecumene linguistica, trasformando la distanza e la differenza in esclusione. Comunque la si intenda, la lingua è essenzialmente una questione di spazio: fisico, storico, relazionale. Non solo portatore di una visione del mondo, ma anche oggetto dello sguardo sul mondo”.

 Oggi. Quando dai nostri giacigli caldi, un calore che offusca la Memoria quale tracciante storico-identitario, siamo diventati Paese di ‘accoglienza’. Dimentichi che un tempo, le traversate per mare, le facevamo noi. Clandestini, extracomunitari, vu cumprà, irregolari, stranieri, immigrati, migranti, viaggi della speranza, respingimenti. L’alfabeto delle migrazioni – nell’essere specchio e riflesso del proprio tempo – con il suo controverso repertorio linguistico si inscrive nella profonda crisi di valori condivisi, in un passaggio epocale che vive uno dei suoi più stridenti paradossi: da una parte la globalizzazione e gli orizzonti transculturali a fronte di accaniti e tragici nazionalismi e localismi. L’Uomo e i confini, non solo geografici, sono diventati categorie in contrapposizione sul crinale di una straniante liquefazione di riferimenti umanistici e valoriali, destituiti di senso nell’atomizzazione dei legami sociali. Demolita la concezione solidaristica dell’esistenza – confermata dalle quotidiane stragi di migranti al largo delle nostre coste – lo scenario migratorio è intrinsecamente connesso alla sua rappresentazione mediatica, agli aspetti linguistici della narrazione, consapevoli che il rapporto tra autoctoni e stranieri si costruisce anche attraverso l’uso – corretto o improprio – delle parole con cui definiamo la realtà attorno e dentro di noi, con cui individuiamo/etichettiamo/confiniamo i cittadini immigrati. Come il termine “extracomunitario”, spesso attribuito ad individui provenienti da Stati oggi appartenenti all’Unione europea, che evidenzia tutta la scarsa consapevolezza geografica di chi lo utilizza.

 Ma nella costruzione della coscienza individuale e collettiva, nell’ interpretazione e gestione della complessità, che ruolo hanno le parole, le definizioni, se l’utilizzo di un vocabolo, di per sé neutro, può assumere significati connotativi, spregiativi e razzisti? Quanto incide, nella rappresentazione mediatica delle migrazioni, la potenza seduttiva del sensazionalismo? Su questi temi nevralgici – nella compagine di uno scenario geopolitico particolarmente doloroso, in pieno dibattito su libertà di espressione e di parola verso conoscenza e rispetto dell’Altro, o sul termine ‘orango’ che, attribuito ad una donna italoafricana, qualcuno recentemente avrebbe sostenuto far “parte del linguaggio politico” – nei giorni scorsi si è svolto il Convegno “Comunicare l’Immigrazione”, presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (Coris) dell’Università “La Sapienza” di Roma diretto dal prof. Mario Morcellini. Un momento necessario di riflessione critica e di forte spessore scientifico e culturale, per sollecitare nuove consapevolezze sulla possibile ambiguità del linguaggio nella trattazione delle migrazioni e il verosimile uso manipolatorio delle parole. Ma anche un’occasione per focalizzare le enormi potenzialità che possono scaturire da una lettura profonda dei termini e delle trattazioni mediatiche legati a dinamiche e processi. Ricercatori, giornalisti ed esperti si sono confrontati sull’argomento convinti che, senza una dialettica tra prospettive diverse, non sia possibile penetrare in un fenomeno estremamente denso di implicazioni e conseguenze sulla società. Tra le finalità del Workshop, contribuire alla definizione di un quadro sugli stili di comunicazione e informazione dominanti, tematizzare la complessità del rapporto esistente tra linguaggio e migrazioni e analizzare la narrazione delle migrazioni a partire dai dati sulla rappresentazione mediale e loro relativa percezione sociale per avviare una riflessione pragmatica e positiva sui cambiamenti in atto.

 All’ interno della giornata di lavori – a cui hanno partecipato Mario Morcellini, Fabrizio Melorio dell’Istituto Sturzo, Roberto Natale, portavoce della Presidente della Camera dei Deputati, Giovanni Maria Bellu, presidente dell’Associazione ‘Carta di Roma’, Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus, Marco Bruno, ricercatore in Sociologia dei Processi culturali e comunicativi, Valeria Lai, dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione alla Sapienza – è stato presentato il nuovo portale per cittadini stranieri ‘Migrando.it’, realizzato dal Coris in collaborazione con l’Istituto “Luigi Sturzo”, In Migrazione Onlus, Provincia di Roma e Be Free Cooperativa. Una piattaforma digitale – finanziata dal FEI-Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di Paesi Terzi – che rientra nelle azioni previste dal progetto “Rights and responsibilities 2.0”. Fabrizio Melorio ha aperto i lavori presentando il progetto: “Un portale che ha l’obiettivo di coinvolgere le associazioni straniere e i mediatori culturali attraverso uno sportello virtuale, una piattaforma web multidisciplinare e multilingua (in inglese, arabo, hindi, cinese e italiano) quale strumento efficace per raggiungere i cittadini di Paesi Terzi presenti in Italia, con particolare riferimento a quelli che vivono una situazione d’isolamento culturale e un mancato accesso all’informazione e ai servizi. Un progetto che intende sostenere e migliorare la percezione che spesso si ha delle associazioni straniere: da elemento di chiusura a motore d’inclusione nella società d’accoglienza. Perché la comunicazione – ha concluso Melorio – è un caposaldo per lavorare attivamente all’integrazione dei migranti”.

 Ha poi preso la parola il prof. Mario Morcellini, che ha subito inquadrato il tema dei lavori, riflettendo sull’importanza della dimensione comunicativa, sottolineando che “i migranti sono un aspetto decisivo del welfare e del Pil nazionale (secondo dati aggiornati ai primi mesi del 2014, la ricchezza complessiva creata dal lavoro degli oltre 2,4 milioni di ‘nuovi italiani’ – tra piccoli imprenditori, domestici e operai – è pari all’8,8% del Pil nazionale, con un ‘tesoro’ di 123 miliardi di euro immesso ogni anno nel sistema circolatorio del Paese, ndr), eppure sono due elementi in secondo piano rispetto agli aspetti della cronaca nera”. Sulla questione migratoria, spesso affrontata dai media in un’ottica emergenziale e sensazionalistica, attraverso semplificazioni quotidianamente trasmesse all’opinione pubblica, Morcellini ha proseguito rilevando l’ “assurda competizione fra poveri, dove si mette in contrapposizione il dettaglio sui soldi dati ai migranti in confronto alle marginalità dei residenti, costruendo così una miscela sociale esplosiva. L’immagine della realtà viene spesso costruita senza approfondimento, senza confronto, senza argomentare: è anche così che si forma il populismo. Noi ci impegniamo da anni nella ricerca su questi temi, collaborando con tantissimi enti, associazioni, Ordine dei Giornalisti, Federazione della stampa, Ministeri, Rai, ecc. Abbiamo dato esempio di un’Università che si rende conto di non poter lavorare da sola nel dover offrire un contributo sulle tematiche dei migranti, e abbiamo dato prova di grande apertura. Purtroppo però si producono incrementi troppo lenti in termini di cambiamento. Ma fondamentale è la scoperta del potere della rappresentazione: il tarlo della modernità e il punto critico dei media, anche nel fornire esperienza narrata, è il potere che ha rispetto alla realtà vera. Se non correggeremo la distanza tra mondo rappresentato e mondo reale, non riusciremo ad intervenire sulla cattiva rappresentazione delle migrazioni”.

 Collegandosi al pensiero dell’insigne sociologo, Simone Andreotti ha condiviso l’importanza della comunicazione, “elemento imprescindibile quando si parla di integrazione. I migranti fanno tanto per il nostro Paese – ha sottolineato il Presidente della Onlus In Migrazione – lavorando, vivendo, frequentando le nostre scuole. L’inclusione sociale certamente si fa con le norme e i servizi, ma se questi poi non vengono poi comunicati, è tutto inutile. Per questo diventano centrali sia la rappresentazione dell’immigrazione sia la comunicazione rivolta ai migranti. Diventa importantissimo spiegare loro cosa possono fare, di quali servizi possono usufruire, e non con semplici traduzioni di un testo dall’italiano all’arabo, ma con un sistematico lavoro di mediazione culturale. Il lavoro sulla comunicazione per i migranti e quello di ricerca che svolge da anni il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza sono fondamentali se non vogliamo creare sacche di esclusione”.

Rispetto ai principali risultati delle ricerche condotte dal Dipartimento della “Sapienza”, Valeria Lai ha descritto l’immagine prevalente e stereotipizzata dell’immigrazione nei media italiani: “Oltre ai rapporti di ricerca curati per l’Associazione “Carta di Roma” e quelli sviluppati all’interno del Progetto Mister Media, il Dipartimento si caratterizza per un gran numero di collaborazioni con enti diversi. La stampa e la televisione – ha osservato la ricercatrice – sono spesso attente ad affrontare il tema quando diventa notizia di cronaca nera, utilizzando il linguaggio dell’emergenza, alternandolo poi a quello del ‘pericolo di invasione’ quando si deve raccontare la tragedia dei tanti morti in mare lungo le coste italiane. In pochi casi, e spesso solo sullo sfondo, è possibile leggere un racconto diverso: quello riguardante, ad esempio, le naturali interazioni di lavoro o di vicinato tra persone di culture e provenienze diverse in Italia. Perché nel nostro Paese è così difficile raccontare i diversi volti dell’immigrazione? La narrazione è caratterizzata da uso indifferenziato dei termini, diffusione di stereotipi e pregiudizi negativi, eccessiva semplificazione, sensazionalismo e spettacolarizzazione, superficialità nella tematizzazione, ovvero immigrazione/sicurezza, immigrazione/criminalità, immigrazione/cronaca nera. Troppo spesso l’immigrazione viene raccontata come problema da risolvere, con poco spazio all’approfondimento. Si assiste alla tendenza di diffusione di informazioni potenzialmente lesive della dignità delle persone coinvolte direttamente, o meno, in fatti di cronaca. I flussi migratori sono raccontati dai media quasi esclusivamente attraverso il fenomeno degli sbarchi. L’enfasi sul momento dell’arrivo relega in un cono d’ombra la storia dell’immigrato e il suo percorso migratorio, è così che i protagonisti sono di volta in volta immigrati, migranti, clandestini, profughi e, raramente, richiedenti asilo e rifugiati. Facilmente dal tema dell’arrivo si passa a quello dell’ ‘invasione’. Tra le novità e gli aspetti positivi della rappresentazione – ha concluso Lai – possiamo segnalare che nel 2012 hanno trovato spazio nei media italiani le storie dei figli di immigrati attraverso i racconti di persone o associazioni (“L’Italia sono anch’io”). I servizi Rai e Mediaset si sono concentrati sulla biografia dei ragazzi, che legittima le loro richieste e li accomuna con i coetanei autoctoni: figli di immigrati come protagonisti delle notizie che raccontano le loro multiple appartenenze e la loro esperienza di vita in Italia. Un racconto diverso è dunque possibile”.

 Il potere delle parole, l’uso del linguaggio, il (buon) giornalismo. Roberto Natale ha affrontato la questione nodale dalla sua prospettiva: “L’immigrazione è il tema della comunicazione ed è il tema della politica italiana ed europea. I raggruppamenti populisti si stanno avvicinando tra loro sul tema dell’immigrazione. Altro che ‘accademia’!, questa è la sede più rilevante nella quale si affrontano con professionalità le questioni decisive. Ci sono delle responsabilità, come quelle di coloro che, nel nostro Paese, maneggiano in modo populistico i temi dell’immigrazione, alimentando le distanze. Alle riflessioni del prof. Morcellini e a quelle di Valeria Lai aggiungo l’importanza e l’urgenza delle cose. O affrontiamo con la dovuta urgenza questo tema, gli accademici da parte loro, i buoni giornalisti dall’altra, o faremo l’azione inutile di svuotare il mare con il secchiello. E aggiungerei l’importanza di dare spazio alle belle notizie, perché solo con la cronaca nera – credendo che sia l’unico modo per fare audience – non si aiuta a fare un servizio al pubblico”.

 Una prospettiva che ha richiamato gli imprescindibili aspetti etici e deontologici del fare comunicazione. Giovanni Maria Bellu, a questo proposito, ha ricordato il fondamentale ruolo della ‘Carta di Roma’ (approvata il 12 giugno 2008) in questi anni, nata per dare attuazione al Protocollo deontologico che pone l’attenzione sulla necessità di sostenere un’informazione responsabile che prenda le distanze da comportamenti non corretti e superficiali e dalla diffusione di informazioni alterate o generalizzate, quando non imprecise. Nello specifico, tale strumento chiede al giornalismo italiano di trattare gli argomenti con la massima accortezza, soprattutto per quanto riguarda l’impiego di termini corretti dal punto di vista giuridico, allegando al documento un fondamentale glossario che riporta le specifiche di ogni status, rifugiato, richiedente asilo, migrante irregolare ecc. Una Carta che richiama sostanzialmente i dettati deontologici presenti nella Carta dei Doveri del giornalista, con particolare riguardo al dovere fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per l’appartenenza etnica, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche.

 Marco Bruno, da anni impegnato nello studio del rapporto mass media-immigrazione, ha ricordato che “nel lavoro Fuoriluogo. L’immigrazione e i media italiani (M.Binotto, Pellegrini ed., Cosenza, 2003) c’era un paragrafo dal titolo ‘Mai più Novi Ligure’ (il delitto di Novi Ligure fu un caso di cronaca nera particolarmente noto, avvenuto il 21 febbraio 2001. Erika De Nardo, che all’epoca aveva 16 anni, con il concorso dell’allora fidanzato Mauro “Omar” Favaro, di 17 anni, uccise premeditatamente a colpi di coltello da cucina la madre Susanna “Susy” Cassini e il fratello undicenne Gianluca De Nardo. Erika De Nardo narrò, con vistosi errori e contraddizioni, di una rapina ad opera di extracomunitari finita in tragedia, fornendo una descrizione di due malviventi che a suo dire ne sarebbero stati responsabili. Due extracomunitari: “il colpevole perfetto” – secondo i più consunti stereotipi – generò manifestazioni di protesta contro gli immigrati in tutta Italia, Novi Ligure compresa, ndr), a conferma che negli anni, come puntualmente osservava Morcellini, non si assiste a grandi cambiamenti nel tipo di narrazione, se vediamo la frequente esposizione di casi di cronaca nera spesso collegati a cittadini immigrati. Tutto ciò si ritrova nei grandi come nei piccoli casi mediatici, aizzando e lavorando sugli istinti nei confronti dell’Altro. A volte avvengono dei ritorni all’indietro: erano anni che non mi occupavo delle questioni dell’Islam, eppure oggi si ritorna a parlare di <guerra santa>. Il potere della rappresentazione rispetto ai fatti è fortissimo. C’è ancora tanto da fare – ha osservato lo studioso – probabilmente si deve tornare a riflettere sulla qualità del giornalismo, dobbiamo segnalare la non accuratezza dei termini. E lavorare molto sulla formazione”.

 Il ruolo centrale dell’informazione, la necessità di un giornalismo di qualità, di un uso corretto delle parole e delle definizioni/denominazioni, sono spesso evidenziati negli studi e nelle ricerche di Flavia Cristaldi, docente di Geografia umana e di Geografia delle migrazioni all’Università di Roma “La Sapienza”: già nel convegno dal titolo “Le parole per dirlo. Migrazioni, Comunicazione e Territorio”, che la studiosa organizzò nel 2008 (Le parole per dirlo. Migrazioni, Comunicazione e Territorio, Atti del Convegno a cura di Cristaldi F., Castagnoli D., Morlacchi ed., Perugia, 2012), suggeriva ai giornalisti di inserire nei loro articoli le carte geografiche “per localizzare anche visivamente gli eventi narrati e sviluppare una consapevolezza spaziale del Pianeta Terra e dei suoi abitanti”. La geografa, estendendo e storicizzando il campo delle riflessioni sul tema migratorio, osservava che “a volte basta l’uso di un termine per etichettare una persona e rinunciare a conoscerla nella sua individualità e specificità. Nei giornali, nei programmi televisivi, ma anche in alcuni articoli scientifici, il linguaggio utilizzato per indicare i migranti rientra nello stereotipo e finisce per alimentare la mappa della paura piuttosto che la conoscenza reale del fenomeno. Le migrazioni hanno da sempre caratterizzato la specie umana, ne hanno influenzato l’evoluzione e la geografia, ed oggi rappresentano uno degli elementi costituenti dell’essere sul pianeta, delle fughe dagli eventi catastrofici naturali, così come dalle guerre e dalle carestie, ma anche l’elemento di riscatto per vite compresse in società che non offrono opportunità lavorative o sociali. Le motivazioni che hanno spinto e spingono gli essere umani allo spostamento, alla migrazione in una terra diversa, sono da sempre molteplici e poliedriche. Nei secoli singoli individui, famiglie o interi popoli si sono spostati, hanno attraversato i confini per creare nuovi territori che portano ancora i loro segni nella storia e nel paesaggio. (…). Il pericolo di una confusione terminologica, di un etichettamento e di una stereotipizzazione del fenomeno migratorio e degli individui coinvolti viene scientificamente studiato da un gruppo di ricerca del prof. Mario Morcellini: (…) l’analisi dimostra come gli organi d’informazione facciano più spesso disinformazione lanciando allarmi che alimentano la paura e rafforzano gli stereotipi negativi (…). La presenza multietnica è ormai un elemento strutturale del Sistema Italia e va quindi riconosciuta, studiata e governata affinché nel prossimo futuro, attraverso un processo di educazione e d’istruzione, tale presenza possa essere trasformata in interculturale”.

 In un’ottica metacomunicativa, il ruolo della parola e dei registri linguistici nelle interazioni umane, la funzione performativa e sociale del linguaggio hanno, oggi, fondante cittadinanza nella complessificazione della realtà, implicando e sollecitandone l’intrinseco senso di responsabilità. Se l’informazione è ‘avariata’ e fuorviante – tra i molti focus di riflessione della giornata – se è solo denuncia di ‘nera’ senza il substrato di una prospettiva ermeneutica, se è al servizio del populismo e non chiarisce informazioni inesatte, concorre a creare uno spazio pubblico esacerbato seminando stille tossiche di invidia sociale che serpeggia sotto la crisi economica che ha accartocciato il nostro Paese in un mantra dell’austerity senza visione. Se i giornalisti, invece che rivendicare i valori migliori della nostra democrazia e resistere alle tentazioni demagogiche, scelgono di cavalcare un certo malessere xenofobo con una insistente informazione di tipo emergenziale, da salotto televisivo, a cui non seguono analisi e approfondimenti contestualizzanti, rischiano di rendere confusi i diversi piani della realtà, alimentando rabbia ed esasperazione. Un giornalismo di approccio antropocentrico sembrerebbe dunque l’antidoto al rischio della non-informazione, o peggio, della disinformazione, come si è verificato per la narrazione della violenta protesta anti-immigrati a Tor Sapienza, il quartiere alla periferia di Roma che nello scorso novembre si è ribellato contro immigrati-sindaco-e-governo. Il segno di un malessere, di una miscela sociale esplosiva – come sottolineava Morcellini nel suo intervento – che esprime il dolorosissimo conflitto ai piani bassi della piramide sociale. Un malcontento che, intrecciandosi con la società multietnica, in realtà deriva da altri problemi che investono l’Italia, come il diffuso senso di marginalizzazione, di esclusione, solitudine e destabilizzante paura del futuro.

 Temi che – sollevati nell’incontro alla Sapienza – offrono e necessitano di molteplici e trasversali prospettive di osservazione demandate a chi opera nel campo della comunicazione e tratta le dinamiche migratorie. E può costituire una grande opportunità, l’occasione di un sostanziale cambio di passo, il modo in cui raccontare i processi in corso: da molti anni il (buon) giornalismo ha perso il contatto con il dato esperienziale diretto, con la verifica ‘dal vivo’ delle fonti, quale l’ascolto dei soggetti protagonisti della migrazione, spesso sostituto da un amalgama generalizzante, dalla notizia-spot-del-giorno, da risse televisive che diventano rumore mediatico. Una superfetazione comunicativa che non contribuisce a dispiegare i necessari strumenti di decodifica interpretativa da parte dell’opinione pubblica che, come è noto, può essere facilmente plasmabile. Uno scenario performativo che rischia di coltivare derive populiste e stereotipizzate, specie se stampa e tv – nel già aspro melange di ingiustizie sociali e marcate asimmetrie al ribasso – continuano a non sgomberare il campo da equivoci e falsi messaggi mediatici che, come virus, intossicano la coscienza collettiva. Messaggi lasciati ripetere a cittadini esasperati senza chiarire e smentire mai, in diretta, i tanti luoghi comuni; come l’assai frequente e sommaria ‘argomentazione’ – che all’occorrenza punteggia lo scontro tra i ceti più bassi degli italiani e gli immigrati – secondo cui “mentre gli italiani non hanno lavoro, ai rifugiati diamo quaranta euro al giorno per non fare nulla”. Di fronte a questi focolai di disinformazione che alterano la percezione della realtà e, di conseguenza, la pacifica gestione delle relazioni con l’Altro, un buon giornalismo dovrebbe prendersi in carico di spiegare dettagliatamente all’opinione pubblica che, nello specifico, esiste una quota di 35 euro al giorno di rimborso spese per ogni ospite, quota che non viene data all’immigrato – come erroneamente credono in molti – ma che va alle cooperative, alla Caritas e alle associazioni i cui piani sono approvati da una commissione formata da rappresentanti di enti locali, Ministero dell’Interno e Agenzia Onu per i rifugiati. E spiegare che con questi 35 euro a immigrato, le associazioni devono coprire i costi per vitto, alloggio, pulizia e manutenzione dello stabile, mediazione culturale, assistenza legale, visite mediche e, in alcuni casi, l’iter burocratico per diventare rifugiati. E ancora, spiegare che agli immigrati in quanto tali, è destinato (solo) il ‘pocket money’, ovvero un buono per le spese quotidiane da due euro e cinquanta al giorno. Ma quanti italiani lo sanno?  Su queste informazioni di base che riguardano tanti cittadini stranieri – i ‘nuovi italiani’, per restare in tema di uso dei termini – e il Paese in cui vivono, sarebbe opportuno – verso un’informazione di servizio e di alfabetizzazione ad una matura coabitazione dei plurimi universi culturali – fare una apposita campagna di comunicazione, depotenziando così ingiustificate tensioni.

 Dalla forza delle parole a quella dei numeri. Anche un’analisi del fenomeno migratorio basata su cifre esatte e statistiche potrebbe incentivare una visione maggiormente condivisa dell’immigrazione in Italia e quindi, senza nascondere le criticità, favorire una maggiore apertura e un maturo atteggiamento di inclusione. Così, in una dimensione di servizio e di comunicazione responsabile, per prendere pienamente in carico i fenomeni in corso, sarebbe opportuno ricorrere alle informazioni di contesto date dai numeri, con i loro paradossi: da recenti ricerche sul campo è emerso, infatti, che in Italia “pensiamo” di avere il 20 per cento di musulmani, quando questi sono solo il 4 per cento della popolazione. Ed ancora più ampia è la forbice sull’immigrazione: gli italiani sono convinti di convivere con un 30 per cento di immigrati, quando invece sono solo il 7 per cento. Come dire che l’immigrazione “percepita” è di gran lunga più ampia di quella reale. Sono dati probabilmente riconducibili all’idea che abbiamo dello ‘Straniero’ quale perturbante dei nostri panorami noti e costituiti (e per ciò rassicuranti), al quale attribuiamo – proiettandone le responsabilità – la diminuzione di servizi, di stato sociale e di opportunità nel nostro Paese. Un calo di qualità della vita dovuto, invece, a tutt’altre cause. In tempi di iper-comunicazione-in-tempo-reale – va ricordato, in uno scenario dai tanti interrogativi aperti – diventa difficile per il giornalismo vendere prodotti di qualità per la necessità di farsi “ascoltare”, qui e ora. E così si ricorre alla notizia “gridata”, urlata, che espone i cadaveri. Un voyeurismo mediatico che ci riporta a tanti decenni orsono, quando furono create le prime scuole di giornalismo, e i professori, quelli del mestiere, predicavano la legge delle tre S: sesso, soldi e sangue, i tre argomenti che all’epoca facevano vendere i giornali, aumentare le tirature e la pubblicità. Mutatis mutandis, con buona pace di quel pubblico che deve attendere le ore notturne per assistere a programmi televisivi di qualità, quelle tre S sembrano tirare ancora.

 Come è stato sottolineato nelle conclusioni dei lavori a cui, siamo certi, dovranno seguire altri momenti di riflessiva focalizzazione, la questione etica della comunicazione è problema ampio, e non solo nazionale: la retina sensibile dell’eterogenesi dei fini attraversa la responsabilità del come fare informazione, che avanza sulla realtà, la plasma, la riflette, la narra, ma può anche deviarne la percezione. Per andare oltre l’ ‘emergenza’, verso il disteso riconoscimento della presenza stabile di cittadini stranieri o di origine straniera nel nostro Paese, il complesso delle modalità comunicative richiama a diverse consapevolezze: che la satira può ledere la dignità delle persone al pari delle nostrane espressioni politiche razziste, che il concetto di libertà di espressione può essere equivocato, che le tensioni dello scenario geopolitico contemporaneo necessitano di approfondimento giornalistico, di confronto, di una linea di moderazione del dibattito, di commenti, dell’utilizzo di termini giuridicamente appropriati, pensando, a tal proposito, all’improprio e ricorrente uso della definizione di ‘clandestino’, uno sconfinamento indotto da ignoranza, disinformazione o provocazione.

 Ieri come oggi, è materia delicata e complessa, la parola, quando si trattano le questioni migratorie, il vissuto migratorio degli individui, gli universi valoriali dell’Altro da noi, le sfaccettate variabili di decodifica culturale. Mentre sullo sfondo delle riflessioni che interpellano il nostro essere al mondo, c’è un’ultima, necessaria parola da evocare con l’auspicio che il nostro Tempo ritorni a considerarne il portato. Solidarietà. Una categoria fragile quanto nobile, che ritorna nell’era delle stridenti e indegne disuguaglianze sociali. Un principio che, dopo essere stato a lungo esiliato dalla sfera del discorso pubblico, riaffiora con rinnovata attualità in una fase in cui il lessico freddo della scienza econometrica – insieme all’uso fuorviante di alcune parole dell’alfabeto migrante – sembra oramai insufficiente a raccontare le nostre vite.  Migranti? Immigrati? Clandestini? Irregolari? Extracomunitari? Richiedenti asilo? Rifugiati? Stranieri? Cittadini italiani di origine straniera? Nell’urgenza di un’epoca alla ricerca di nuovi ancoraggi ontologici, questi interrogativi non sono mere raffinatezze terminologiche quanto – sul filo rosso di una meta-semantica – significanti attraversamenti, ineludibili fondamentali. Visioni del mondo.

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