Di Luigi Casale
I libri che aprono il Nuovo Testamento della Bibbia cristiana sono quelli dei quattro evangelisti: Matteo, Marco, Luca e Giovanni. I quattro autori sono certamente personaggi storici; ma quello che non si sa è se sono stati veramente essi gli autori degli scritti loro attribuiti. I testi di cui disponiamo furono scritti in lingua greca: quindi di letteratura greca si tratta. Anche se si può tranquillamente supporre che alla base di ognuno dei quattro testi letterari ci sia stata una fonte orale in una delle lingue ebraiche: tradizione locale di singole comunità, consolidatasi nel libro istitutivo di quella stessa chiesa locale.
In seguito la necessità di tradurre in greco il testo dei racconti evangelici, come pure il libro degli Atti degli apostoli, fu dovuta al clima di universalità del contesto culturale, cioè l’ellenismo, in cui la nuova religione andava diffondendosi, caratterizzato da un essenziale bilinguismo: latino in occidente, greco in oriente. Con le classi dotte, a Roma e ad Atene, come a Gerusalemme o ad Antiochia, in grado di dominare le due lingue principali.
Successivamente – ma già siamo oltre l’editto di tolleranza emanato da Costantino nel 313, e ancora più avanti, dopo quello di Teodosio che del cristianesimo aveva fatto l’unica religione riconosciuta – la Bibbia fu tradotta anche in latino (da San Girolamo), a mano a mano che la nuova religione si espandeva da oriente ad occidente, quando ormai era divenuta un’importante realtà sociologica e morale. Perciò ci piace leggere i testi sacri ancora in latino, o richiamare idee e concetti in lingua greca, per avvicinarci dove possibile al testo originale.
Nel racconto di Luca così si legge l’episodio della nascita di Gesù: “Gloria in altissimis Deo et super terram pax in hominibus bonae voluntatis”. (Lc. 2, 14)
Dopo che gli angeli se ne tornarono in cielo, i pastori dicevano tra di loro:
“Transeamus usque Bethlehem et videamus hoc verbum, quod factum est, quod Dominus ostendit nobis”. (Lc. 2, 15)
“Et venerunt festinantes et invenerunt Mariam et Ioseph et infantem positum in praesepio”. (Lc. 2, 16)
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“Gloria a Dio nelle sfere più alte; e, sopra la terra, pace in mezzo agli uomini di buona volontà”.
È l’annunzio che i pastori ascoltarono dagli angeli. Come risposta, essi furono solleciti ad andare a vedere:
“Passiamo da Betlemme, a vedere questo annuncio, che è successo, che il Signore ci mostra”.
E andarono in fretta, e trovarono Maria e Giuseppe, e il bambino adagiato sulla mangiatoia.
Basterebbe un’attenta lettura del brano evangelico per capire il senso pieno del Natale, il nucleo stesso degli auguri che, davanti al Presepe – rappresentazione plastica della scena raccontata da Luca – in questi giorni ci scambieremo. L’onore (doxa) a Dio, la pace (eirene) in mezzo agli uomini di buona volontà (eudokia) e la corsa a Betlemme, a vedere che cosa ci mostra il Signore. E incontrare infine la santa famiglia e il Bambino della mangiatoia.
In questa scena così descritta – in maniera essenziale e soprattutto completa nei suoi particolari – dove si colloca ognuno di noi? Due certezze: Dio è in alto, e noi non siamo gli angeli. Noi siamo o i pastori destinatari dell’annuncio i quali subito si affrettano, o forse piuttosto ci troviamo in mezzo agli uomini, presumendo di essere tra quelli di buona volontà, per i quali i messaggeri di Dio fomentano la pace.
E se fossimo gli altri, gli esclusi, i sofferenti, quelli di cattiva volontà? Ma anche se ci trovassimo nella terza ipotesi c’è speranza di salvezza. Saremmo comunque quelli per i quali il Bambinello la notte di Natale sorride dalla mangiatoia, perché per tutti noi è venuto a compiere la sua missione: il sacrificio della Croce. Ognuno troverà risposta nell’intimo della sua coscienza.
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Il racconto di Luca è unico e originale. Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto; Marco inizia direttamente con la predicazione di Giovanni il battista; Giovanni, l’evangelista, invece fa una profonda disquisizione filosofica. Noi, intanto, atteniamoci alla funzione pedagogica dei simboli (credo che questa sia la finalità dei testi sacri).
Antropologicamente parlando, la fede è un cammino … incontro a Dio: è la nascita in noi dell’uomo nuovo che ha bisogno, per crescere, di speranza. La certezza ci dovrebbe venire da altro. Se è vero quello che si racconta, Galileo diceva che la sua bibbia era il cielo stellato. E noi, non potremmo, anche noi, vedere la presenza di Dio nelle nascite, nelle morti, nell’amore, nella bellezza, nel creato, in tutto ciò che ci meraviglia? E, se vogliamo, anche nel travaglio quotidiano.
Perciò, nell’anelito di salvezza, collochiamoci davanti al presepe con l’atteggiamento dei pastori, uomini tra gli uomini, e andiamo a vedere a Betlemme. Poi, se pensiamo di essere di buona volontà, aspettiamoci il dono della pace. Non credo che saremmo così ingrati da pensare di essere di una volontà mal disposta. Che non siano vani i nostri auguri!
Il Natale è una festa nel senso pieno della parola, non una formalità. E che lo sia, veramente, per tutti. Auguri ! E allora, contestiamo pure il consumismo; ma teniamo vivi nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, i valori della festa e del dono centrali in questa ricorrenza.