Articolo tratto da “InformaSaggi” n° 7 di luglio 2014 –
Newsletter dell’Università dei saggi “Franco Romano”
di Danilo De Masi
Male inglese è una definizione critica, rivolta agli inglesi alla fine di quella che è tutt’ora chiamata “Età Vittoriana”.
L’Inghilterra dell’epoca di Giorgio III aveva tratto i benefici della Rivoluzione Industriale ed avviato quella economia “globale” che portò – oltre che all’unità d’Italia (necessaria per poter realizzare la ferrovia Londra – Brindisi) – alle nuove invenzioni e tecnologie sulle quali “l’anglo (Isac Newton) tanta ala vi stese”, come scrisse l’esule Ugo Foscolo.
Quella che venne chiamata “officina del mondo”, tra l’epoca di Giorgio III e la terza fase del Regno di Victoria Alexandrina, portò a Londra oltre duecentomila domestici dal resto del Regno Unito e, soprattutto, dalle colonie.
Se già nella fase finale del lungo Regno (1837-1901) dell’Imperatrice delle Indie, l’Inghilterra aveva iniziato una fase recessiva, fu all’inizio del XX secolo che gli inglesi tardarono a scoprire che stavano vivendo ben al di sopra delle loro possibilità, in un’economia ormai “matura” e quindi non in grado di crescere ulteriormente anche in termini di pre “stato sociale”, che pur mandava a scuola metà dei bambini (quando nel resto dell’Europa si era lontanissimi da tale tappa) se non con una radicale trasformazione. Era frequente il caso, diffusissimo già nella Roma di Cicerone, di domestici (e schiavi resi liberi, i “Liberti”) “risparmiatori” i quali prestavano denaro ai propri padroni che si trovavano in dissesto finanziario o con la casa pignorata dai creditori. Qualcosa di simile, si ripeté in Inghilterra alla fine degli anni ’60 (del novecento, quando l’Italia era in pieno boom economico, con tassi di crescita del 5-6% annuo). Sara la giovane Margharet Thacher, ministro dell’Istruzione nel Governo Heath, di fronte al rischio di non poter pagare il riscaldamento nelle scuole elementari, ad affermare che “dobbiamo avere il coraggio di togliere la tazza di latte ai bambini … se vogliamo poter continuare a mandarli a scuola.
Nell’Italia di fine decennio 1950 e sul finire degli anni ’60 (Guido Carli alla Banca d’Italia), la crescita economica era tale da rendere possibile “salire” da Sud a Nord con i soldi in tasca per una settimana: tempo sufficiente a trovare un impiego e procurarsi un letto. Dopo alcuni anni di lavoro si poteva comprare casa “sulla carta” ed a “cambiali”. In Italia investivano le multinazionali dell’epoca; dall’inizio degli anni ’50 la provincia di Vercelli produceva energia elettrica dalla fissione nucleare, mentre Giuseppe Romita (figlio di povera gente laureatosi in ingegneria al Politecnico) lanciava il programma Autostrade. I grandi Gruppi industriali costruivano le case che i propri lavoratori avrebbero acquistato – pagandone l’affitto a riscatto – durante la vita lavorativa. Poi la crescita dell’Italia si ferma: si vieta alle aziende di costruire immobili per gli operai che non dovevano affezionarsi al padrone in quanto dovevano scendere in piazza contro la Guerra del Vietnam; si arriva al 1968 che segnerà la fine culturale del Paese per mezzo secolo, alle devastazioni di quello che verrà definito “Autunno caldo”. Se nei primi cent’anni di vita dello Stato Italiano era stato difficile ma possibile, per un figlio di famiglia povera, un “orfano di madre vedova”, un bambino abbandonato, meritarsi borse di studio, diplomarsi e laurearsi, salendo la scala sociale (come tutt’oggi è avvenuto per i Clinton e gli Obama negli States), dopo la “Rivoluzione dei mediocri” ciò in Italia è diventato impossibile. Erano pronte le premesse per gli “Anni di Piombo” e L’Italia diventerà un Paese dove non conviene investire. La “pace sociale” viene ricercata attraverso centinaia di migliaia di assunzioni “socialmente inutili” che disperderanno le risorse disponibili, bloccando la costruzione delle infrastrutture e degli investimenti produttivi che avrebbero potuto sviluppare una sana economia e creare posti di lavoro stabili.
Alla fine degli anni ’80 del 1900, gli economisti come Guido Carli ed i tecnici del Ministero del Bilancio ritenevano che gli Italiani stessero vivendo ad una volta e mezzo le proprie possibilità (al doppio quando – per nostra fortuna – si arrivò all’Euro, il 1° dicembre 2002). La capitale della Burocrazia italiana cresceva al ritmo di 20 mila abitanti all’anno, ingrossata dalle fila dei raccomandati che toglievano il posto ai “capaci e meritevoli”: centomila domestiche filippine vennero richiamate a Roma mentre andavano in pensione quelle venete dell’immediato dopoguerra (immancabilmente presenti nei films di De Sica, Rossellini e Antonioni); la competitività dei prodotti italiani nel mondo cominciava a perdere colpi e l’industria italiana cominciava a de localizzare all’estero. In una nota industria automobilistica italiana “Irizzata”, nello stabilimento del sud, si poteva essere pre-pensionati dopo vent’anni di lavoro costituito da una giornata di presenza ogni sei mesi di cassa integrazione. Siamo al secondo semestre 2014 e nonostante le migliaia di ”chiusure”, L’Italia ha il doppio dei bar, dei ristoranti e degli sportelli bancari rispetto all’Inghilterra, una volta e mezzo più della “Grande Germania” che ha un terzo in più della nostra generazione: entreranno in vigore le novità più stringenti del dopo Maastricht, il vero “guado” che consentirà (come dice il nome romano della città) di “guadare la Mosa” simbolico confine Nord-occidentale dell’Impero Romano e della mittleuropa alla quale (come affermava l’avvocato Agnelli) l’Italia dovrebbe aggrapparsi, scalando le Alpi.
L’Italia non ha bisogno di illusioni, ma di provvedimenti che consentano di pagare il riscaldamento nelle scuole. L’economia non potrà svolgere al meglio in pochi anni, senza liberarsi di quelli che Guido Carli chiamava “lacci e lacciuoli” (quotidianamente inventati da chi vive e migliora le proprie posizioni personali in danno della collettività cui eroga le norme). Nella fase di transizione – che credo e spero ci sarà – si può solo rendere più equo e meglio distribuito il sacrificio, meno rapace il fisco che si autoalimenta: condizione indispensabile perché il “contribuente” consideri accettabile la medicina amara per il “male italiano”.