di Angelo Fusari
Articolo-racconto di Angelo Fusari, fisico aquilano, appassionato di montagna.
Le emozioni, i valori, le suggestioni e la semplicità della gente di montagna.
L’ estate volgeva alla fine. Il colore sbiadito del verde nella valle dava a capire l’avvicinarsi dell’autunno con le sue giornate di luce ridotta, spesso accompagnate da venti, continui e non più caldi, provenienti dai monti circostanti. Era una sera d’inizio settembre. Il cielo terso, striato di colori del tramonto, appariva solcato da voli di rondini che, con il loro garrire, davano il presagio di una notte ancora mite; ravvivata dal biancore della luna. Lassù dai pascoli d’alta quota proveniva la voce insistente dell’ultimo pastore che, con cura e pazienza, indirizzava le sue bestie verso luoghi lontani dai pericoli del buio.
Come ogni anno la fine della calda stagione risvegliava in me il grande desiderio di tornare sulle Alpi; tra quelle montagne, seppure lontane, ma sempre vicine con il pensiero. Volevo rivivere, con attenzione, i molteplici aspetti naturali che esse offrivano solo nelle prime giornate autunnali: il colore dorato dei larici, l’avvistamento dei camosci, degli stambecchi, del gallo cedrone ed altro da rendere l’ambiente assai suggestivo. La voglia di evadere era tanta, a tal punto, che qualche giorno dopo, programmati i miei impegni di lavoro di famiglia e di studio, decisi di partire insieme a mio fratello Ezio. Arrivammo a Tarvisio nel tardo pomeriggio. Pernottammo e lasciammo i bagagli in una piccola pensione: base di appoggio per le nostre successive ascensioni sulle Alpi Giulie.
Sotto quei cieli, spesso coperti di nuvole grigie, ero già stato in anni precedenti. Avevo condiviso con amici del luogo i rischi nel salire sulle asperità delle pareti rocciose delle vette dominanti il sottostante paesaggio di radure e di boschi. Partendo da Sella Nevea il nostro primo contatto, avendo come riferimento il rifugio Corsi, avvenne con il gruppo dello Jof-Fuart e con quello del Montasio sovrastante il medesimo altipiano e la val Bruna.
C’era stato detto da alcuni alpinisti, di ritorno lungo il sentiero da noi seguito, di prestare attenzione nell’andare su in alto. In quegli impervi spazi, cosparsi di stelle alpine, era possibile trovare una mandria di stambecchi reinserita da poco tempo nella zona. Tra essi c’era un grosso maschio che, per gelosia dei suoi piccoli, poteva rendersi assai pericoloso.
Infatti salendo di quota in prossimità di un torrione calcareo chiamato “ il Campanile di Villaco”, tra lo scorrere lento dei filari di nebbie, notammo quella bestia. Appena avvistatici, seppure a distanza rassicurante per noi, iniziò ad avvicinarsi. Non ci restava che togliere gli zaini e le corde dalle spalle e sdraiarci su un piccolo spazio coperto da erbe e da sassi. Si presentò con un atteggiamento non buono, a pochi metri da noi. Per qualche minuto ci guardò in modo attento: poi, rassicuratosi della nostra indifferenza, tornò indietro per la stessa direzione da cui era venuto.
Dopo alcune salite sulle vette più importanti dei due gruppi facemmo un breve riposo.
Successivamente ci spostammo in direzione del monte Canino. Arrivammo al rifugio Gilberti quando il giorno volgeva alla fine, lasciando spazio alla notte che, con le sue tenebre, avvolgeva tutto in un immane silenzio. Era l’ora in cui l’aria tra le rocce sembrava come immobile. In alto agli ultimi bagliori del sole, che scompariva in lontananza, brillavano i cristalli di neve indurita del residuo vecchio ghiacciaio. Laggiù, verso l’Austria, la volta celeste si era accesa di colori evanescenti . Mentre dalle alture del Montasio diffondeva l’eco dei rintocchi, lenti e cadenzati, di una piccola campana. Erano quelli di una sperduta chiesetta alpina dislocata tra le praterie della valle Raccolana.
In quell’attimo, come già mi era successo altre volte, sentivo la montagna assai vicina con la sua quiete. Sembrava vederti come un figlio e dirti in segreto qualcosa. Raccontarti, seppure senza voce, il suo passato la sua storia la sua eternità. Sempre vissuta in solitudine tra continue e fredde bufere più volte da me affrontate e che, forse nel tempo, avevano delineato il mio carattere: il mio modo di essere. Proprio in quegli istanti si avvertiva la convinzione di appartenere ad un immenso creato di perfezione legato, giornalmente, a leggi e moti perpetui che non erano assoggettabili al volere dell’uomo.
Questo magico e inconsueto momento fu accompagnato dalle tenui e toccanti note provenienti dal rifugio del canto “La Montanara”: seguite da quelle di un altro canto “Benia Calastoria”. Non c’era cosa più significativa per un alpinista del vivere, seppure brevemente, una simile coincidenza di immagini così particolari seguite da voci che intonavano i versi più rappresentativi dei canti di montagna.
Richiamato dal sorprendente momento mi avvicinai a quel gruppo di persone. Erano venute da Udine per salire, l’indomani mattina come noi, sulla vetta del monte Canino. Nell’intonare, in modo armonioso, la seconda canzone mi accorsi che uno di loro, dal volto bruno e provato dagli anni, cercava di cantare ma non ci riusciva. Aveva gli occhi bagnati di lacrime: uno sguardo assente e sofferente. Qualcuno della comitiva mi confidò che quella persona non appena completato il servizio militare in quei luoghi, tra le file dei ragazzi della brigata alpina Julia, era partito emigrante in Argentina. Pur essendo passati tanti anni, pur avendo con sé la famiglia, non riusciva ancora a cancellare dalla mente il forte legame con la gente della sua terra nativa; con i suoi compagni di gioventù, con le sue indimenticabili montagne.
Tornava ogni anno tra le sue Alpi Giulie. Guardando quell’uomo ebbi un momento di intensa commozione. Non lo conoscevo, ma lo salutai come fosse un amico. Immaginavo la sua continua e provata sofferenza vivendo in una terra molto lontana dal suo Friuli. I versi di quella canzone gli erano stati dedicati dai suoi vecchi amici. Avevano, probabilmente, risvegliato in lui il grande desiderio di tornare per sempre. Cancellato, nello stesso tempo, dalla consapevolezza che ciò non avrebbe potuto più avverarsi. L’indomani mattina, assai presto, accompagnati da un debole vento di nord-est, salimmo sulla storica montagna. Osservammo le trincee della guerra (1915-18) immaginando gli enormi sacrifici e sofferenze sopportate da coloro che, pur non volendo, avevano dovuto combattere tra le intemperie continue ed avverse.
Ci spostammo fino a Sella Preva. Poi, tornammo in paese. Dopo un riposante sonno, riforniti gli zaini di scorte alimentari, ci trasferimmo con un mezzo pubblico, attraversando il passo del Predil, nella valle di Trenta. La valle che ci portava, seguendo il percorso del fiume Isonzo, al cospetto di un altro colosso montuoso: il Triglav, in territorio sloveno. La valle di Trenta: terra di nessuno. Terra dimenticata dal progresso e dal modernità dove le poche persone rimaste, di età assai avanzata, offrivano ai passanti la propria ospitalità ed amicizia in un vecchio museo pastorizio. Facevano ciò per sconfiggere la tristezza di una continua e depressiva solitudine. Una donna ci disse che i giovani erano andati in luoghi lontani in cerca di lavoro e di una vita diversa. Avevano lasciato i propri genitori nel pianto e nell’attesa di un loro ritorno che, sicuramente, non ci sarebbe mai stato, ponendo fine ad un rinnovo generazionale di quei piccoli paesi.
Quella gente, così umile e tanto indifesa, parlava bene la nostra lingua. Abitava in un lembo di terra che era stato, in tempi precedenti, territorio italiano. Poi, gli eventi storici avevano sancito il passaggio alla Jugoslavia. Eravamo in un piccolo borgo alpino dal nome “Na Logu”. Era adagiato su un pianoro di verde smeraldo: circondato da muraglie di pietre per la difesa dagli attacchi notturni degli orsi. Caratterizzato dall’ assenza di rumori all’infuori di quello dovuto allo scorrere lento delle acque del fiume, che si portava verso Caporetto e il monte Nero. Dal cielo azzurro, dall’aspetto autunnale, provenivano i versi di un solitario rapace che sorvolava i tetti delle case: alcune con le finestre chiuse.
Io ed Ezio avevamo un dislivello di duemila metri da superare per arrivare al rifugio “Trzaska-Koca “, situato sulla forcella Dolic, che ci avrebbe ospitato per due notti. Quasi dispiaciuti di dover lasciare quel posto e i suoi ospitali abitanti decidemmo, appena consumato un pasto leggero, di partire. Sapevamo che il tratto finale di quel sentiero avremmo dovuto superarlo, a causa del ritardo dovuto alla riduzione delle forze, con le lampade frontali. Speravamo di non imbatterci con le nebbie formatesi con la diminuzione della temperatura con l’altitudine. Nell’andare, raggiungemmo alcuni alpinisti venuti da Belluno con i quali arrivammo alla piccola dimora sperduta tra le ombre dell’oscurità. In essa pensavamo di riposare dentro un sacco a pelo in un angolo del soffitto. Ciò non fu possibile a causa del vociare, fino a tarda ora, nel sottostante locale di ristoro. All’alba se guente, tra i primi tremolanti chiarori, insieme ai nostri amici italiani salimmo sulla vetta.
Superammo passaggi di media difficoltà. Dall’alto si godeva una visuale spettacolare. Lo sguardo si perdeva lontano fino a Lubiana, rincompensando le fatiche precedenti.
Fatta una breve ricognizione andammo sulla seconda vetta più importante del Triglav.
Salutati gli alpinisti bellunesi, scendemmo nella valle di Vrata: per giungere, dopo un lungo percorso, nell’abitato di “Kranjsca-Gora”. Eravamo molto stanchi ed assonnati. Nonostante ciò bevemmo, in fretta, nel primo locale avvistato, un thè caldo alle prugne cercando di prendere, nel poco tempo rimasto a disposizione, l’ultimo mezzo di collegamento con Tarvisio.
Del nostro programma, tracciato alla partenza, restava un’ultima salita assai impegnativa da affrontare: la parete nord-est del Mangart. Trascorsa una giornata di sosta e la notte in quella cittadina di confine, allo spuntare del nuovo mattino ci portammo alla base di quel muro di roccia passando per i laghetti di Fusine. Le rive erano cosparse di candide brine.
Ricordo che al momento del fissaggio delle corde su quelle pietre ricoperte da un velo di ghiaccio, dovuto al freddo delle ore notturne, avevo un noioso mal di testa. Volevo rinunciare alla difficoltosa ascesa. Tale decisione veniva rafforzata dalla vista, in un angolo del luogo, di una piccola targa riportante i nomi di un nonno e del suo giovane nipote caduti durante la scalata. Furono Ezio e l’altro compagno di cordata di Fusine che, con insistenza, riuscirono a convincermi e quindi a partire facendo la prima sicurezza con i moschettoni.
Oltre al malessere ero pure consapevole che la non partecipazione mi avrebbe creato un di spiacere che non avrei dimenticato facilmente. Prima di mezzogiorno, avendo alle spalle vari metri di vuoto, ci trovammo sulla parte culminante dell’emergente montagna. Era contrassegnata da un cippo di confine, annerito dal tempo, con lo stato slavo. Restammo a guardare fino a quando un banco di nebbia, transitante lentamente, cancellò dagli occhi ogni immagine.
Tornammo alla base facendo un lungo giro. Nel mentre gli altri si liberavano di tutto il necessario utilizzato per la salita su quello strapiombo roccioso, a poca distanza da loro, io osservavo l’imponente parete. Era riscaldata dal tepore di una giornata serena. A piccoli ed impercettibili passi, per non disturbare, si avvicinò mio fratello. Per un attimo mi guardò con gli occhi ancora madidi di sudore. Poi, stringendomi la mano, mi disse: ”Sono molto orgoglioso di aver segnato ancora una volta , insieme a te, sulle vie dei ricordi di queste montagne, la continuazione della nostra storia alpinistica. Una storia che è stata di formazione di vita e di unione per noi e che racconteremo, un giorno lontano, a quanti inizieranno, con sacrificio e volontà, a segnare i loro passi su questi sentieri del nostro passato”.
Sapevo che i ricordi non tramontavano mai e che tanti dei nostri segreti erano racchiusi tra quegli ambienti. Legati ad una parte di vita trascorsa alla ricerca di una natura diversa tra angoli e spazi remoti dei monti europei. Sapevo che della conoscenza delle montagne, e dello studio delle teorie complesse della fisica, avevo fatto una scelta di vita. Camminavamo tra le vette di un mondo solitario: i cui eterni silenzi spingevano il pensiero ad una profonda meditazione sui tanti misteri della nostra esistenza. Mi rendevo conto di avere appagato un grande desiderio: ma, al contempo, avvertivo un senso di rimpianto del periodo precedente alla salita. Avevo esaudito un altro sogno di lunga attesa. Un sogno che mi aveva accompagnato per giorni e per notti e che difficilmente avrei potuto rivivere alla stessa maniera; con lo stesso entusiasmo nel lento e continuo, e a volte sofferente, cammino della vita.
A mio fratello Ezio, amico e compagno nelle difficoltose salite sulle vette alpine
Angelo Fusari è nato a Tornimparte, comune a pochi chilometri dall’Aquila, dove risiede. Laureato in Fisica, ha lavorato in un’azienda elettronica. Appassionato di montagna e discreto alpinista, conta oltre venti anni di attività, maturata sulle cime più alte delle Alpi italiane, francesi, svizzere ed austriache. Oggi ha di molto ridotto gli impegni in montagna, preso dagli studi nel campo della fisica. Ha però da qualche tempo iniziato a raccontare, sulla scorta dei ricordi e dei suoi appunti alpinistici, le esperienze vissute sulle cime delle Alpi e le emozioni d’un uomo di montagna.