La voglia di scrivere è così: o mi prende o mi lascia. Ma non mi assilla, non mi tormenta.
Quando trovo un argomento, intesto una nuova pagina, annoto il fatto che, come vissuto o come semplicemente pensato, già frequentemente mi è solito ritornarmi alla memoria; ne faccio un titolo come probabile capitolo da sviluppare di vista di un ipotetico romanzo, nella speranza, prima o poi, di affrontarlo, di parlarne, di svilupparlo, scrivendovi qualcosa. Da quel momento, mi capita di imbattermi, a tornate successive, in una delle tante pagine bianche già predisposte col titolo in testa e, se il momento è buono, tento un avvio. E se poi è particolarmente felice, riesco anche in un paio d’ore ad esaurire una trattazione completa da inserire nella virtuale raccolta di storie minime, che come sarebbe mia intenzione saranno destinate a costruire il romanzo della mia vita.
Memorie, solo memorie: arricchite da suggestioni, da particolari apparentemente vani ma pur sempre interessanti, da riferimenti a persone o da rimandi a situazioni di quel tessuto meraviglioso dell’immaginifica visione.
Solo se riposato, mi perdo in essa riuscendo a scrivere le quattro o cinque pagine che bastano a fissare l’essenziale di quell’ avvenimento, di quel ricordo, di quella riflessione, o anche studio, quando il discorso mi porta alla ricerca di dati, di testi, di fonti, di tutti quegli elementi che prima di essere fissati nella scrittura richiedono una verifica, e formale e sostanziale: la prima di coerenza, la seconda di veridicità. Ed ecco il testo: il mio tessuto e il mio vissuto.
Quante volte, però, mi fermo alla formulazione del primo periodo! Oppure arrivo solo a mezza pagina di scrittura, al massimo ad una pagina intera, e non più. Quante volte ho lasciato incompiuto il lavoro senza raggiungere lo scopo dell’intento prefissato!
Ma anche quando credo di aver esaurito l’argomento e di aver completato un nuovo capitolo, poi succede che rileggendolo a distanza di tempo, mi accorgo che andava migliorato nella forma, che qualche espressione aveva bisogno di essere adattata alla prosa, che alcune imprecisioni – o imperfezioni – sarebbe stato meglio eliminarle. Al pensiero segue subito l’azione (e la cosa è senza conseguenze trattandosi di cose non mai pubblicate), e la pagina si modifica, si rinnova, si rigenera, e non è più quella di prima, al punto che – grazie (o per colpa?) anche all’uso della scrittura elettronica, forse utilizzata male da me – se ne perde la forma originaria.
Intanto resto profondamente convinto che non riuscirò mai a fissare nella scrittura tutto ciò che mi passa per la testa. Eppure non mi dispero, anche se a dire il vero mi dispiace. D’altra parte penso anche che tante cose della vita, quelle dette e quelle fatte, hanno irradiato la loro azione nell’ambiente circostante: della famiglia, dei vicini, degli altri; talvolta anche dei lontani. Da lasciare un segno nella comunicazione, e nella società; e perciò potrebbero – o potranno – essere recuperate. Come, al contrario, sono gratificato quando posso constatare che parte dei miei pensieri, dei miei ricordi, del mio vissuto, di qualche intuizione, è affiorata nella pagina di scrittura.
E questo mi consola, mi alleggerisce: a ricompensa della drammaticità di un anonimato non voluto perché non liberamente scelto.
Luigi Casale