L’ INCERTEZZA LAVORATIVA DI OGGI SI TRASFORMERA’ IN POVERTA’ DOMANI
Vincenzo Ruggieri
Il primo gennaio 2014 è entrata in vigore l’ennesima riforma pensionistica che prevede i nuovi requisiti per essere collocati in quiescenza. Sono requisiti fissati con la legge “Fornero” che prende il nome dal ministro del Lavoro ai tempi del governo Monti. L’entrata in vigore della nuova legislazione ha costretto milioni di lavoratori a modificare le proprie aspettative. Si tratta di disposizioni più stringenti che aumentano l’età pensionabile: 66 anni e 3 mesi per lavoratori dipendenti e autonomi e per lavoratrici del settore pubblico, 63 anni e 9 mesi per lavoratrici del settore privato; 64 anni e 9 mesi per lavoratrici autonome. In merito alla pensione anticipata, per le persone in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, sono richiesti 42 anni e 6 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne.
Si tratta di un impianto ritenuto valido dal punto di vista economico, ma insoddisfacente, anzi disastroso, dal punto di vista sociale anche alla luce della precarietà dal punto di vista lavorativo. Non è un caso che il recente rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) abbia fortemente criticato la situazione italiana. A detta dell’organismo internazionale, di cui fa parte anche l’Italia, “l’incertezza lavorativa di oggi si trasformerà in povertà domani”. Le proposte di rendere più flessibile il sistema previdenziale e di rivedere in maniera organica il mercato del lavoro sono rimaste ferme per la mancanza della copertura finanziaria.
Le misure inserite nella legge di stabilità non sembrano andare in questa direzione. La più rilevante è stata la perequazione delle pensioni: fino a tre volte il minimo viene garantita al 100%; per quelle fino a quattro volte è pari al 95%. La quota di indicizzazione al costo della vita scende progressivamente con l’aumentare dell’importo mensile corrisposto.
Previsto (sempre se lo permetterà la Consulta) il contributo di solidarietà per le pensioni d’oro: 6% per la parte eccedente i 90.168,26 euro annui; il 12% oltre i 128.811,80 euro; il 18% per la parte eccedente i 193.217,70 euro annui. Un granello di sabbia portato via dal Sahara.
Per i trattamenti economici, che non ho difficoltà a definire “vergognosi”, è stato introdotto il divieto di cumulo per redditi da pensione e redditi da lavoro oltre la soglia di 303.000 euro l’anno. La novità è rappresentata dall’inclusione di chi percepisce vitalizi conseguenti a funzioni pubbliche elettive. In sostanza soggiacciono alla nuova disciplina anche i trattamenti economici degli organi costituzionali con autogoverno finanziario, parlamentari di entrambe le Camere e organi di governo delle Regioni.
E’ doveroso richiamare l’attenzione del lettore sulla cifra limite non cumulabile con altri redditi da lavoro o da pensione (con esclusione delle rendite immobiliari e finanziarie delle quali non se ne tiene conto nel cumulo). Sono trattamenti oltre misura, direi scandalosi, dei quali i percettori dovrebbero vergognarsi. Invece si appellano ai diritti acquisiti senza tener conto degli equilibri di bilancio. Per i quali, non è un mistero, da anni si fa leva solo sulla previdenza sociale.
Non può sfuggire a chi scrive che la cifra limite non cumulabile non è arrotondata alle “trecentomila”. Ma sono previsti anche i “rotti” di “tremila” euro. Un calcolo di cui il legislatore, non a caso, ne ha tenuto ben conto. Non ha voluto rinunciare, si fa per dire, nemmeno alle briciole.
Uno schiaffo alle vedove il cui cumulo con le pensioni di reversibilità è di 19mila euro. Salvo se il citato limite di € 303.000, sia valido e quindi estensibile anche per le pensioni di reversibilità di cui all’art. 1/42 della L. 335/1995 (Legge Dini).
Infine, entrano in vigore, perché previste dalla precedente finanziaria l’aumento delle aliquote previdenziali a carico dei lavoratori autonomi: dal 20 al 22% quella del 2014; al 23,5% quella del 2015; al 24% quella del 2016.
I lavoratori in esubero della pubblica amministrazione potranno andare in pensione con le regole precedenti a quelle stabilite con la riforma Fornero. A rendere noto tale possibilità è stato il Ministero della Funzione pubblica con un’apposita circolare emessa d’intesa con l’INPS e i ministeri del Lavoro e dell’Economia. Il provvedimento si inserisce nell’ambito della spending review spending del governo Monti, a cui si affiancano i decreti sulla decurtazione degli organici per 9 ministeri, 21 enti di ricerca, 20 enti pubblici non economici, 24 enti parco nazionali, INPS ed ENAC. Appare quindi difficile valutare le conseguenze di questa misura nel ragionamento più ampio della riforma delle pensioni.
Il percorso che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe portare al cambiamento del sistema previdenziale appare comunque, ad avviso di chi scrive, di difficile soluzione. Tant’è che quei lavoratori, nonostante il compimento di 61 anni d’età e il raggiungimento di 35 anni di contributi, non sono andati in pensione ed hanno perso il lavoro a causa dell’introduzione della riforma Fornero che non ha tenuto conto della peculiarità di un numero elevatissimo di lavoratori creando una nuova categoria di disoccupati (esodati).
Ancora una volta non si è voluto incidere sulle spese della politica, e per spese della politica intendo non solo i rimborsi elettorali ma anche gli emolumenti dei politici, dei gran commis e dei relativi apparati, non compatibili con le risorse del bilancio dello Stato. Classificati “scandalosi” o “fuori misura”.
Privi del più elementare senso del pudore, che avrebbe fatto impallidire un congolese, i politici tutti, sottolineo tutti, hanno inciso ancora una volta sulla previdenza dei comuni mortali e sul blocco delle perequazioni.
Non a caso il Presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno ha concluso: i sacrifici li facciano anche i politici. Un riferimento forte e chiaro ai trattamenti economici “fuori misura”