LUOGHI D’ITALIA, UN VIAGGIO NELLA PROVINCIA DEL BELPAESE. Amaseno: tra emigrazione, storia, religiosità e Genius loci

5 Novembre 2013
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di Tiziana Grassi e Goffredo Palmerini

AMASENO (Frosinone) – Nel viaggio fisico e interiore, materiale e psicologico, nei luoghi che custodiscono la storia della Grande Emigrazione italiana, scrigni d’uno straordinario patrimonio fatto di monumenti, tradizioni, culti, arte e culture, arriviamo ad Amaseno, il cui nome deriva dal fiume che placido scorre nell’ampia vallata delimitata dai monti Lepini e dagli Ausoni. Un fiume reso celebre dall’Eneide, il poema di Virgilio, che lo cita.  Antico borgo agricolo nel cuore della Ciociaria, in provincia di Frosinone, Amaseno si trova ad un centinaio di  chilometri da Roma. All’arrivo ci accoglie ed avvolge con l’abbraccio d’un paesaggio che rimanda al Genius loci ancora intatto, tutto da scoprire, nel dedalo di vicoli e piazzette, fino al Castello dei d’Angiò, da poco restaurato. Nella piazzetta del centro storico, raccolto dentro una cinta di mura turrite parzialmente ancora ben conservate, oltre a Luigi La Valle, maresciallo dei Carabinieri e preziosa memoria storica del luogo che ci farà da guida, ci dà a suo modo il benvenuto, incuriosito dai “forestieri”, il visionario artista del paese, Antonio Rotondi. Eccolo lì, l’artista amato da tutti, poeticamente bardato con le piume di pavone al vento come un cavaliere indomito. Già nel soma egli evoca, come d’altronde nel veemente tratto pittorico, il grande Ligabue. Antonio ci accoglie festosamente, saltellando con gioiose piroette in groppa al suo cavallo, amorevolmente sagomato e dipinto a cera su un umile cartone, mentre incede verso i riti della festa patronale di San Lorenzo Martire. Di San Lorenzo martire, ad Amaseno, nella Chiesa di Santa Maria Assunta – elegante esempio d’architettura gotico-cistercense del XII secolo, monumento nazionale – si conserva un’ampolla di sangue miracoloso. Non si sa con certezza come e quando la prodigiosa reliquia del Sangue di San Lorenzo martire sia arrivata in paese, ma il primo documento che ne rivela la presenza ad Amaseno è l’atto di consacrazione della chiesa, risalente al 1177, sancito in una preziosa pergamena custodita nella stessa Collegiata di Santa Maria Assunta.

 Senso della Religiosità, del Ritorno e di un incontaminato Genius Loci

A contatto con la natura il contadino sente nitidamente – osserva lo studioso di storia locale Enrico Giannettache l’universo è disceso da una Paternità che non può essere identificata né con il caso né con il nulla. Per la sua cultura essenziale, il concetto della Trascendenza, cioè di un Essere supremo, creatore dell’universo, è un dato di una intuitività quasi automatica […]”.  Trascendenza, devozione, religiosità. Diverse sono le feste religiose che ad Amaseno si celebrano nel corso dell’anno. La più importante è appunto quella di San Lorenzo, patrono del paese. Qui, come in numerose località italiane, il 10 agosto d’ogni anno San Lorenzo viene celebrato con solenni festeggiamenti, che richiamano sul posto anche parecchi amasenesi, residenti in patria e all’estero, che tornano a rivedere il paese natale per trascorrere le ferie estive con parenti ed amici. Nella gioia del Ritorno, ritrovarsi dopo lunghi periodi di lontananza in remote terre d’emigrazione, forte è il desiderio di rivivere le suggestive celebrazioni devozionali e rendere omaggio alla prodigiosa Reliquia, esposta per l’intera giornata di festa alla collettiva e commossa venerazione. La sera della vigilia della festa, quando ogni anno si compie il Prodigio della Liquefazione, ha luogo una toccante processione con la statua del Santo Patrono, portato a spalla dai membri delle Confraternite lungo la via della Circonvallazione, tutta illuminata a festa. In quegli stessi giorni di mezz’agosto altre due feste ricorrono: l’Assunta, titolare della Collegiata, e San Rocco, titolare della chiesa omonima, che realizzano un’appendice di festa delle celebrazioni patronali.

La Storia

Amaseno è terra d’antico retaggio storico, dove l’amicizia si vive come dono. Forti i legami interpersonali, così come il senso dell’ospitalità, ieri come oggi. Sono ancora un punto fermo nell’indole degli amasenesi, come fossero arcaiche radici. L’origine di questa accogliente località non è facilmente databile, per la mancanza di documenti scritti e di reperti archeologici anteriori all’anno Mille. Quanti si sono cimentati nell’impresa d’una sistematica indagine storiografica, hanno piuttosto ragionato attraverso ipotesi più o meno attendibili, mentre Amaseno, con il suo passato affascinante quanto complesso, ancora attende la ricostruzione d’un tracciato storico filologicamente certo. Alcuni studiosi del secolo scorso, che s’interessarono alla storia della regione, ritennero che Amaseno sorgesse sull’antica Artena, la fortezza del popolo italico dei Volsci espugnata dai Romani nell’anno 404 a.C., secondo quanto riferisce il grande storico romano Tito Livio. Altri studiosi ne attribuirono le origini all’epoca medioevale. Altri verosimilmente assegnarono l’origine di Amaseno intorno all’VIII secolo, dopo la costituzione dello Stato Pontificio avvenuta nel 752, in quel periodo storico quando pure venne avviata, con l’opera preziosa dei monaci benedettini e cistercensi, la colonizzazione di molte terre incolte. Terra d’antica storia, dunque, ma ancora tutta da meglio delineare e valorizzare.

Le prime notizie documentate risalgono intorno al Mille. Il borgo si chiamava allora San Lorenzo, come pure la valle, così registrata nel Tabularium Cassinense alla data del 1025. Dagli Annales Ceccanenses si apprende che nel XII secolo Amaseno era feudo dei Conti di Ceccano. Ma la storia seguente racconta numerosi conflitti feudali su quella terra e le conseguenze delle contese tra papato e impero, sfociate nel 1165 nella distruzione del paese ad opera delle truppe imperiali di Federico Barbarossa. Contesa nei secoli da varie famiglie, Amaseno passa tra varie vicende e turbolenze dai Conti di Ceccano ai Colonna, dai Colonna ai Caetani non senza alterni conflitti, fino a quando, nel 1501, papa Alessandro VI non lo confisca per attribuirlo al nipote Rodrigo Borgia. Ma i Colonna, alla morte del pontefice, due anni dopo lo recuperano. E tuttavia non finiscono le contestazioni, tanto che il feudo viene poi da Paolo IV assegnato ai Carafa, scatenando la rivalsa dei Caetani che, nel 1556, sottopongono Amaseno al saccheggio. Solo nel 1562 papa Pio IV ne riconosce la titolarità ai principi Colonna, e tale rimarrà fino alla generale soppressione dei feudi, nel 1816. Da allora, non si annotano vicende rilevanti, se non durante la seconda Guerra mondiale. A partire dall’autunno del 1943, infatti, Amaseno subisce per vari mesi l’occupazione dei Tedeschi, con soprusi e angherie. Poi, nel maggio 1944, dopo lo sfondamento della linea Gustav a Cassino, si aggiungono le violenze dei cosiddetti Alleati, quando il paese subisce il fuoco dei cannoni e il saccheggio, cui è sottoposto l’abitato dalle truppe alleate per più giorni, tanto da costringere gli abitanti ad abbandonare le case e ad andare sui monti, in preda al terrore, alla fame e alla disperazione, in cerca di salvezza. 34 le vittime amasenesi e diversi feriti. Segni indelebili dei gravi danni materiali restano impressi sulla pietra di molti edifici del paese, a perpetua memoria della guerra e a condanna della violenza.

 L’emigrazione da Amaseno, tra Ottocento e Novecento

 Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, soprattutto, ma anche nel secondo dopoguerra, vi fu da Amaseno una consistente emigrazione diretta particolarmente verso Canada e Stati Uniti. E’ negli Usa che si conta il maggior numero d’emigrati amasenesi: dal 1900 al 1971 vi si trasferirono ben 846 lavoratori seguendo varie ondate. Nell’ultimo dopoguerra il flusso migratorio crebbe notevolmente, trovando nuovi sbocchi in America Latina e Nord Europa, ma ancor più in Canada. Negli anni a cavallo della metà del secolo scorso altre colonie d’emigrati amasenesi s’insediarono in Francia, Germania, Svizzera, Belgio, Inghilterra, Venezuela, Brasile e Argentina. I pionieri della “prima emigrazione” amasenese negli Stati Uniti – come nel destino comune a molti italiani emigrati all’estero – inesperti del luogo di destinazione, lontani dalle famiglie, senza conoscenza della lingua del Paese ospite, privi della copertura d’una previdenza sociale allora del tutto inesistente, affrontarono con un coraggio non comune e con un radicato senso di solidarietà la difficile situazione iniziale, connotata da tutte le problematiche tappe dell’ambientamento e del radicamento nell’altrove. Nella complessa costruzione di nuove territorialità in luoghi strutturalmente diversi da quelli d’origine, gli amasenesi organizzarono per propria iniziativa una specie di mutua assistenza che già nello statuto precorreva le moderne legislazioni mutualistiche e previdenziali. “Nasceva così in mezzo a loro – osserva ancora lo studioso Enrico Giannetta – nel 1906 a Chicago la “Società operaia di mutuo soccorso di Amaseno”, con l’intento d’assicurare ai soci l’assistenza in caso di malattia, infortunio, invalidità, disoccupazione, vecchiaia e di provvedere inoltre, in caso di morte, alle onoranze funebri e ai superstiti del defunto”.

Numerose sono le testimonianze di amasenesi che, “attraverso sangue, sudore e lacrime”, emigrarono nel mondo e che sono state raccolte in un denso volume di Alberico Magni dal titolo “Amaseno e l’Emigrazione. Testimonianze di molti nostri concittadini che di quella tragedia storica furono i veri protagonisti” (2008). Nella Prefazione al volume Gianni Blasi lucidamente sottolinea: “Solo i superficiali e i disinformati possono scambiare per retorica il ‘sole d’Italia’.  Quando da operai dell’edilizia si è provato l’inverno mordente di Chicago o, peggio ancora, di Montreal, concetti elementari come il caldo e il freddo assumono ben altra valenza, altro che retorica. Ma le asprezze fisiche e climatiche che emergono dalle testimonianze costituiscono solo un aspetto dell’emigrazione. Assai più durature e difficili da superare sono state le implicazioni psicologiche e culturali che hanno richiesto tempi molto più lunghi. Dure esperienze psicologiche e talvolta fisiche che non trovano una formulazione linguistica adeguata. Sta proprio in questa difficoltà di formulare compiutamente la complessità della propria esistenza – prosegue Blasi nella sua attenta analisi – il grande dramma culturale dell’emigrazione, dramma in cui l’aspetto linguistico costituisce solo uno dei tanti ambiti da dover affrontare. (…) Nella maggioranza dei casi si trattava di persone che non disponevano dei mezzi per capire e valutare a pieno la nuova realtà in cui tentavano di inserirsi. La lingua del Paese che li accoglieva era di per sé un muro da superare e che in ogni momento della giornata definiva la loro inadeguatezza e quand’anche fossero riusciti ad impadronirsene sia pure a loro modo, continuava a riaffermare la loro provenienza, i loro limiti, la loro posizione sociale”.

Un altro aspetto peculiare del fenomeno migratorio italiano tra Ottocento e Novecento Alberico Magni lo coglie nella Partenza, quale archetipo legato al distacco, alla lacerazione dell’andare verso l’ignoto, alla lunga traversata dell’Oceano che, non a caso, alcuni studiosi hanno accostato al liquido amniotico, come dimensione legata alla nascita, o meglio alla ri-nascita verso il Nuovo Mondo, al momento in cui si percepiva nitidamente la propria condizione, il passaggio al nuovo status di migrante. “Le canzoni e la partenza, per troppo tempo considerati stereotipi o elementi da cartolina dell’emigrato. Per l’emigrato – si sottolinea nel volume di Alberico Magnila partenza era di fatto una morte perché lasciava il proprio mondo portandosi dietro quei pochi elementi che costituivano il proprio bagaglio di valori, ricordi e sentimenti. […] Certi eventi si colgono nella loro interezza solo quando si vivono in prima persona. Non risulterà quindi difficile capire il motivo per cui molti emigrati sono rimasti tenacemente aggrappati a tutti quegli elementi che rappresentavano il proprio, anche se scarno, patrimonio culturale. La ritualità delle feste patronali, il senso tradizionale della famiglia, il legame alle tradizioni culinarie e il rifiuto di assumere la cittadinanza del Paese che li ospitava, una palese limitazione delle proprie possibilità, rientrano tutti in questo contesto. Il momento della partenza, dunque: si pensi alla progressione del separarsi dalla propria casa, dai familiari, dagli amici, dal proprio territorio, era un continuo lacerarsi dentro anche se il peggio, la partenza dal porto, doveva ancora arrivare. Bene fa l’autore – osserva Blasi nella sua analisi fenomenologica – a sottolineare il mezzo di trasporto, la nave, che per la sua lentezza rendeva questo trapasso – parola emblematica per la semantica a cui rimanda – ancora più doloroso. Visto dalla nave, il congiunto sul molo era una persona, progressivamente diventava una sagoma tra tante, poi lentamente diventava un fazzoletto e poi un puntino bianco. Ribaltando la prospettiva, dal molo si assisteva alla medesima scomparsa lenta, troppo lenta e dolorosa. Si racconta che i familiari rimasti sul molo, dalla zona portuale di Napoli, corressero alla punta di Santa Lucia per guardare la nave fino a quando non scompariva dietro il promontorio di Posillipo. Questo stesso momento, però, anni dopo, quando le difficoltà erano state affrontate e superate, veniva e viene percepito come ‘una rinascita’ su cui si è innestato un nuovo percorso esistenziale nettamente distinto e separato dalla fase precedente. […] Solo in seguito, consolidata una certa agiatezza e raggiunta la consapevolezza dei diritti acquisiti in terra non più straniera, si ebbe la percezione certa che quel momento ormai lontano della partenza segnava un ‘prima’ e un ‘dopo’. Visto il fenomeno a distanza, l’etimologia dei sostantivi ‘partenza’ e ‘parto’ rappresenta una curiosità davvero singolare nell’esperienza degli emigrati”.

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