fra morte e leggerezza, ammazzatine e amicizia
Il 3 agosto 1982 a Casteldaccia (PA) viene ucciso il cognato del boss Filippo Marchese, uno dei più sanguinari uomini di Cosa Nostra. Nell’arco di 8 giorni moriranno 15 persone. A ricostruire i delitti e dare un profilo chiaro dei killer e delle vittime è un narratore insolito, un ragazzino di sedici anni, che mischia al lucido racconto degli eventi storici le esperienze di vita quotidiana, la cultura cinematografica e quella letteraria, ma soprattutto lo stretto legame che lo lega al suo amico Antonio.
Tutto questo nel libro “L’estate che sparavano” (pagg. 152, € 15,00) in cui l’autore Giorgio D’Amato, con un registro preciso ma semplice, racconta una giovane generazione che vive anni di modernizzazione consumistica, in cui però non tutti sono estranei alle sollecitazioni culturali e ai sogni ribelli dei due decenni precedenti, nonostante il pressante contesto ad alta concentrazione mafiosa. Lo abbiamo intervistato: il volume concorre alla terza edizione del Premio Letterario “Torre dell’Orologio” di Siculiana.
Intervista
Perché hai deciso di “affidare” la narrazione a un adolescente? che punto di vista permette di offrire al lettore?
Affidare l’io narrante ad uno dei due ragazzi è stato spontaneo, c’è una certa coincidenza tra me e lui, così come l’altro adolescente – il co-protagonista Antonio – è l’amico con cui cazzeggiavamo durante l’estate del 1982, Antonio è il suo vero nome. I fatti dell’estate 1982 li ho vissuti, come il protagonista lavoricchiavo a Casteldaccia e, muovendomi con il motorino, mi successe più di una volta di vedere una piccola folla di gente ad incuriosirsi attorno ad un morto ammazzato. La scelta di dare il medesimo peso sia alla vicenda amicale che ai fatti della seconda guerra di mafia, mi ha consentito di contrapporre gravità di tono necessaria laddove è la morte a caratterizzare le pagine, e la leggerezza necessaria per descrivere la spensieratezza di due ragazzi che vengono catapultati in un film di inseguimenti, ammazzatine e cadaveri lasciati davanti una caserma dei carabinieri (la coscienza del dramma non è immediata).
Il titolo è proprio bello… dà subito l’idea. Come lo hai scelto?
Volevo rendere i due toni fondamentali del romanzo, la spensieratezza di due adolescenti e di contro la gravità della materia raccontata… e così è venuto fuori l’anacoluto “L’estate che sparavano”.
Qual è l’atteggiamento più comune verso chi muore a causa della mafia?
In quei giorni l’atmosfera era da “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie: tutti speravano di non essere il prossimo, o che il prossimo non fosse un proprio parente. Era in corso una pulizia etnica del territorio che era iniziata all’indomani della morte di don Piddu Panno, capo mandamento di Casteldaccia. Chi riteneva invece, di non avere nulla da temere, viveva la morte altrui come qualcosa che faceva parte del gioco, tant’è che l’espressione più usata era “stanno arrimunnannu i rami sicchi”.
A quale dei due ragazzi hai “dato” più te stesso?
I fatti descritti, sia con riguardo alle vicende mafiose, sia con riguardo alla vicenda amicale, presentavano così tante sfaccettature interessanti che alla fine mi sono limitato a scrivere quello che ho vissuto, quello che ho ricostruito. Più complicato invece è stato bilanciare le due linee del romanzo (amicizia e mafia), fare in modo che le vette, gli spannung, della linea mafiosa fossero bilanciate da altrettante della vicenda amicale. Inizialmente il romanzo lo avevo pensato come ricostruzione di un periodo, la vicenda amicale solo un fatto marginale. Poi ho maturato l’idea che le due componenti dovessero avere lo stesso peso: ho dovuto scavare un tunnel dietro i personaggi (questa metafora è di Virginia Woolf).
Come trattare l’amicizia su uno sfondo così cruento?
L’amicizia dell’Io narrante e di Antonio, intensa in quel periodo, si viene a perdere, ovvero sublima. Non ci sono grandi eventi che legano i due ragazzi se non la sensazione che il territorio in cui vivono finirà per condizionarli. Forse quello che li lega è una sorta di partigianeria. Al di là di questo, se la linea mafiosa del romanzo è ricca di fatti (la ricostruzione di quindici delitti avvenuti in otto giorni), sull’altro fronte non succede nulla: chiacchiere al bar, pizza, cinema all’arena.
La tua scrittura come si è confrontata con i fatti storici narrati?
Narrare l’estate dell’ottantadue è stato un lavoro di ricostruzione – giornali dell’epoca, interviste, atti del maxiprocesso – da cui ho cercato di non farmi travolgere, c’era il rischio di fare un reportage: non sono un giornalista, non saprei nemmeno esserlo. Volevo rendere la temperatura di quelle giornate, la pesantezza dell’aria che respiravamo, le mille voci che caratterizzavano quei giorni: coralità, narrazione strutturata su fraseggio lungo, spezzato su più livelli da dialogo indiretto libero, monologo interiore. Beh, tutto quello che ti ho detto riguarda le mie intenzioni, poi c’è il romanzo che, una volta stampato, nel bene e nel male diventa “altro” rispetto a chi lo ha scritto.