L’intervista su “Cannoli e polenta”
di Giovanni Zambito
Guardare alla propria terra, pensare alla propria isola, riflettere su usanze e atteggiamenti della propria gente in relazione e in comparazione con altri luoghi lontani da quelli natii: lo ha fatto Natalia Milazzo nelle storie che racconta in “Cannoli e polenta”, volume pubblicato da Dario Flaccovio editore (pagg. 256, € 16,00) nel quale – dice il sottotitolo della raccolta – “Il sud è visto da nord, il nord visto da sud”. Il libro concorre alla terza edizione del Premio Letterario “Torre dell’Orologio” di Siculiana: l’intervista all’autrice che, mezza milanese e mezza siciliana, ammette di riunire i difetti di entrambi i popoli:
Il suo sguardo dall’esterno sulla Sicilia ha fatto conoscere anche a lei stessa delle sfumature che prima ignorava?
Non parlerei tanto di sfumature che ignoravo, quanto piuttosto di conferme e approfondimenti di quello che ho registrato, magari anche inconsciamente, negli anni, frequentando la metà siciliana della mia famiglia e – non dimentichiamolo, sono mezza siciliana anch’io – di quello che io stessa ho dentro. Raramente mi sono stupita di qualche aspetto nuovo, più frequentemente riconosco nella realtà siciliana, quasi con stupore, sicuramente con divertimento e affetto, i tratti che formano il “mio” siciliano. Forse una sfumatura che non coglievo appieno e ho riscoperto (a mio danno) negli ultimi viaggi in Sicilia è quanto possono essere smodatamente grandi i dolci siciliani, soprattutto a confronto con gli striminziti pasticcini milanesi.
I siciliani che vanno al Nord oggi che atteggiamento hanno nei confronti della terra di approdo: remissivo o paritario?
Scherza? Remissivo un siciliano? Ma la regola d’oro, per ogni siciliano, è quella che Tancredi consegna ad Angelica, in procinto di essere introdotta nell’alta società palermitana: “Superiore a molti, pari a chiunque”. Ovunque si trovi, un siciliano è gentile, cordiale, perfino amichevole: ma sempre, rigorosamente, sullo stesso piano di chicchessia. Anzi, il siciliano, neanche tanto copertamente, è convinto di onorare il Nord con la sua presenza.
Citando la bella prefazione di Messina, qual è il più grande incantesimo e la più grande maledizione che l’isola si porta tuttora dietro?
L’incantesimo siciliano è diffuso e come sciolto dappertutto, nella luce, nel sole, nel mare, nell’aria profumata delle campagne, nell’ospitalità, nelle favolose architetture barocche così come nell’archeologia greca più bella che nella Grecia stessa (non per nulla nel film Maurice, di Ivory, il viaggio in Grecia di uno dei protagonisti è stato in realtà ambientato a Segesta…). Quanto alla peggiore maledizione, ahimè, è di quelle che non toccano chi in Sicilia ci va soltanto in vacanza, e io ormai appartengo a quest’ultima categoria. Ma è una maledizione che ormai si sta estendendo a tutta l’Italia, la maledizione dei paesi da cui troppi finiscono col dover fuggire.
Tra milanesi e siciliani ci sono punti di incontro a prima vista insospettabili?
Entrambi hanno la convinzione radicata di vivere nella vera capitale d’Italia. Per entrambi non c’è neanche paragone tra la la città in cui vivono e Roma.
Davvero “è rarissimo che un siciliano dia ragione al suo interlocutore”? Perché?
Pur spremendomi le meningi, credo di non ricordare che mi sia mai successo. Il motivo è semplice: sarebbe come ammettere che al mondo c’è qualcuno che, per quanto su un argomento solo, ne sa almeno quanto lui: e questo, per un vero siciliano, è impossibile.
Su quali argomenti è meglio non contraddire un siciliano per non urtarne la permalosa sensibilità?
Nella mia esperienza, uno dei temi più spinosi è proprio la Sicilia. Non che il siciliano non ne parli mai male: ma è un diritto che concede rigorosamente soltanto a se stesso.
Ma come si spiega il radicale attaccamento alla propria isola e un certo menefreghismo nella sua gestione anche politica?
Con una certa disincantata indifferenza dei siciliani per tutto quanto è pubblico. Con una celebre frase di Enzo Sellerio: “Io non vivo a Palermo, io vivo a casa mia”.