La commissione di studio istituita dal Ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, ha elaborato un documento che ha per oggetto la strategia di sviluppo per L’aquila da qui fino al 2030. Lo studio è stato illustrato il 30 settembre u.s. nel capoluogo abruzzese.
Sull’argomento due illustri aquilani, il nunzio apostolico Orlando Antonini e Luigi Fiammata hanno manifestato le loro perplessità, di seguito riportate.
di Orlando Antonini
Sembra proprio non vi sia dubbio: nonostante la sua arte e le bellezze naturalistiche del suo territorio, L’Aquila non è città turistica, ma solamente universitaria e amministrativa; solo sull’università quindi, non sul turismo, occorre puntare per la nostra ripresa economica. Questa – almeno come leggo da Internet oggi 29 settembre 2012 – sarebbe la conclusione, comunicata al pubblico dal prof. Antonio Calafati, dell’ultimo studio promosso dal ministero per la Coesione Territoriale «L’Aquila 2030, una strategia di sviluppo economico».
Se si trattasse, quella del professore, di opinione personale che non incidesse sul piano decisionale programmatico del ministero, non avrei da eccepire ma solo da affermare il contrario. Sembra, invece, si tratti di posizione autoritativa, tale da smontare come ‘voli pindarici’ e come inconcludente luogo comune le argomentazioni a favore del turismo, espresse poco prima dallo stesso Sindaco della Città, Massimo Cialente.
Ciò che lascia stupefatti non è quello che il prof. Calafati dice sulla necessità di potenziamento della nostra università, cosa su cui tutti concordiamo, ci mancherebbe altro, quanto la drastica perentoria esclusione che egli fa del turismo quale volano, assieme all’università, della ripresa economica della città. Dunque i propositi espressi dallo stesso ministro Barca nello scorso mese di giugno, quando osservava come occorresse volgersi all’università in quanto questa assicurerebbe vantaggi immediati, mentre quelli del turismo verrebbero a lungo periodo, erano solamente un anticipo di quanto ora conchiuso e ribadito ‘scientificamente’.
Ma guarda caso, il 16 marzo 2012 al Forum «Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila» si comunicò solennemente il risultato emerso dallo studio condotto per ben tre anni dall’OCSE e dall’università di Groningen: la ’ricetta’ per la ripresa economica dell’Abruzzo e dell’Aquila è … il turismo sostenibile. Oggi, un altro ma rapidissimo studio promosso dal ministero e che, si noti, ha avuto ancora l’OCSE tra i suoi promotori, esce con una conclusione opposta: no, il turismo è ricetta illusoria, L’Aquila non è affatto una città turistica, per rinascere deve puntare solo sull’università e la ricerca. Siamo dunque nella confusione totale. In particolare, non si capisce da quali basi ’scientifiche’ il recente studio abbia potuto dedurre apoditticamente che la ricetta universitaria sia alternativa, non complementare, alla ricetta turistica. Parrebbe tutto il contrario, sulla base di due semplici costatazioni.
La prima. Che l’università, da sola, assurga a ruolo trainante dell’economia locale non si riscontra in nessuna delle importanti città che si citano al riguardo, neppure a Groningen, dove giocano un ruolo sostanziale anche l’agricoltura e il turismo, appunto – non a caso la città, come la vidi nel 1992, è bella urbanisticamente come nel mio ultimo libro auspico sia condotta la ricostruzione migliorativa dell’Aquila. È dunque da dubitare fortemente che all’Aquila l’università, ripeto da sola, possieda potenzialità economiche tali da sostituire il ruolo trainante che, ad esempio, svolse la Siemens nel trentennio di sua permanenza tra noi prima che fosse delocalizzata.
La seconda. Il ricasco economico dell’università va a beneficiare la sola città, non si estende al territorio. Saremo tutti d’accordo, spero, che non è soltanto la città a dover rinascere, ma anche i borghi del ’cratere’. O vogliamo fare il deserto attorno ad una felice ’L’Aquila universitaria’? Un’industria turistica culturale e naturalistica, la quale, si noti, non è delocalizzabile ed oltretutto è eco-sostenibile, se promossa e sviluppata come lo è in altre regioni montane d’Italia risponderebbe alle esigenze, in primis della città e, al contempo, dei borghi del ’cratere’.
In conclusione, puntare sull’università è bene e lo si deve fare, ma non escludendo per principio, come vuole Calafati, il turismo: da sola, l’università non basta, non risolve il problema né per la città né per il territorio. L’ottica da avere è la contraria: puntare sull’industria turistica come strategia territoriale (questa era l’originaria conclusione dello studio OCSE marzo 2012), integrandola, per la città capoluogo, ad es. col polo universitario. Diversamente si tratterebbe, quello fatto dall’OCSE da marzo a settembre, di un ’voltafaccia’ che potrebbe camuffare una scelta di ripiego, un ’de minimis’ in altro senso, che lascia spazio a varie ipotesi. Purtroppo non favorevoli al futuro dell’Aquila.
Una strategia di sviluppo economico”, elaborato dalla commissione di studio istituita dal Ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca. Per quel che vale il mio parere, il Documento mi appare un contributo importante di riflessione per gli strumenti che mette a disposizione della Comunità locale, in termini di analisi e in termini di proposta. Ma….. Il contesto cui si fa riferimento, quello della “competizione territoriale”, su scala almeno europea, è considerato un dato acquisito. Immutabile nell’orizzonte temporale scelto. Il che è assolutamente realistico. E però, se il dato saliente è quello della competizione, allora il tema reale è quello del profitto poiché le risorse economiche si allocano lì dove sono più favorevoli le condizioni di profitto. Il che implicherebbe che, compito della Autorità Pubblica, è la costruzione delle migliori condizioni possibili perché il profitto si espanda, generando così ricchezza. A prescindere da una sua distribuzione più o meno equa, o dal benessere che può crearsi nel territorio nel quale il profitto si genera. E, nelle concrete politiche sin qui messe in campo dagli Stati, l’attenzione al profitto si sostanzia nella deregolamentazione, nella diminuzione dei diritti e dei vincoli, nell’abbattimento delle tasse, nella riduzione dello Stato e delle sue articolazioni, ad uno “Stato minimo”, talvolta in una assenza totale di democrazia.
E’ ovvio che non desidero qui fare un ragionamento più o meno profondo o pertinente su temi generali di politica economica. Mi limito a portare alle “estreme conseguenze”, un dato che nel Documento mi pare di assoluto, quanto sottaciuto rilievo. E le cui implicazioni sarebbero comunque fondamentali per una discussione su una strategia di sviluppo economico del territorio. Se cioè la tendenza che descrivo ha un minimo di fondamento, dovrebbe realisticamente innervare tutto il Documento, e non restare sullo sfondo di un “non detto”. Del resto, è lo stesso Documento ad evocare la necessità di un pensiero condiviso capace di superare i “cicli politici” per traguardare seriamente la ricostruzione del nostro territorio. Come se le differenze politiche dovessero essere nullificate di fronte all’altezza e all’importanza dell’obiettivo. E, persino questo, è in parte vero e necessario. Si tratterebbe semmai di esplicitare più a fondo di cosa parliamo. In termini di contesto certamente, ma anche di scelte operative pratiche. Perché quanto il Documento propone, potrebbe essere letto anche come un invito implicito alle forze politiche, sociali ed economiche del Territorio a trovare una convergenza unitaria su uno schema di ragionamento e di intervento che, in realtà, di per sé, lascerebbe ben poco spazio a letture o pratiche di altro segno. Questo, naturalmente, a prescindere da ogni considerazione sulla qualità della classe dirigente, e anche sulla condivisibilità o meno della necessità di un pensiero di fondo che attraversi indenne le diverse formazioni politiche chiamate a realizzarlo.
Se tuttavia volessi lasciar correre questi aspetti di fondo, e mi limitassi ad una riflessione nel merito delle analisi e delle proposte formulate nel Documento, proverei ad invertirne alcune priorità. Ricordando però prima di tutto, che, mentre il Documento si propone di indicare una possibile via di sviluppo economico, pone, quale obiettivo di questo sviluppo per L’Aquila, la “stabilizzazione demografica e occupazionale”. Vale a dire che è costruito presupponendo un drammatico peggioramento della situazione, frutto di varie cause. Visto che l’obiettivo di sviluppo è la stabilizzazione, e non la crescita. La questione che mi appare più rilevante è il “tempo”. Noi abbiamo bisogno di incrociare diversi “tempi”. Mentre si procede alla ricostruzione fisica, dovremmo in essa innervare il tempo di una “riforma in senso pubblico” della città, che è la precondizione perché sia possibile sostanziare il tempo di una strategia di sviluppo economico. Ma, in quest’ottica, se considerassimo un “dato di fatto irreversibile” il proliferare dell’abusivismo, o la riallocazione in capannoni industriali non solo del commercio, ma persino di importanti servizi anche pubblici, sarebbe condannata alla sconfitta ogni ipotesi di possibile progresso.
E quindi, occorre agire il tempo del controllo stringente sull’oggi. In senso antisimico, di rispetto dell’ambiente e del paesaggio, di efficienza e di efficacia della burocrazia, di risparmio energetico, di dotazione infrastrutturale etc. Il Documento parla di diversi “masterplan” che possano concorrere alla ricostruzione fisico-spaziale del Territorio, colmandone i disequilibri, quelli preesistenti al sisma, e quelli susseguenti, a partire dal Progetto C.A.S.E. Ma il vero tempo di cui abbiamo bisogno, è quello di un nuovo Piano Regolatore Generale. Le Istituzioni Locali dovrebbero dare il via, a partire dai Centri Storici, a tutte quelle ricostruzioni che siano coerenti con il vigente Piano Regolatore, e, contemporaneamente, aprire il cantiere di un nuovo Piano Regolatore. Che affronti il tema di una città nuova. Il tema di una città e del suo territorio, e delle relazioni con i Comuni vicini, che vogliano traguardare, appunto, il 2030.
E’ dentro il discorso del Piano, che può affrontarsi la mobilità sostenibile, il risparmio energetico e le energie alternative, l’ infrastrutturazione intelligente e la gestione integrale del ciclo dei rifiuti; la tutela del paesaggio, anche rurale, e la trasformazione degli spazi interstiziali dello sprawl periferico in spazi pubblici, di servizio, o ludici o di socializzazione; la ricostruzione di nuove relazioni con le Frazioni de L’Aquila, e nuove gerarchizzazioni del Territorio che costruiscano più “Centri”, sottraendo anche così il discorso pubblico alla dittatura della rendita fondiaria. E’ dentro il discorso del Piano che si può affrontare il tema della trasformazione della rete ferroviaria in rete metropolitana che collega l’asse Est-Ovest del Territorio, con i necessari nodi trasversali del trasporto pubblico su gomma riconvertito ecologicamente; possono così costruirsi reali percorsi di fruizione delle emergenze storico-artistiche della città e del Territorio, valorizzando anche il percorso fluviale in funzione di infrastruttura pubblica sottratta al trasporto veicolare privato. E’ dentro il discorso del Piano, che può intrecciarsi una necessaria alleanza, anche in funzione anti-speculativa, tra investimenti pubblici, investimenti delle agenzie pubbliche e capitale privato.
Penso si debba smettere di posticipare il tempo di un nuovo Piano Regolatore Generale, poiché continuare a spostare l’orologio in avanti, significa semplicemente cedere agli interventi “in deroga”, dettati da interessi privati, e rendere impossibile una riforma in senso pubblico della città e del suo territorio, e, in ultima analisi, rendere impossibile una seria strategia di sviluppo economico, rendendo reale quello che il Documento chiama uno “scenario senza intervento”, cioè uno scenario di declino irreversibile. La vittoria sui disequilibri fisico-spaziali della città e del suo territorio, pre e post terremoto, è, di per sé, già una strategia di sviluppo economico. Il Documento ministeriale, mi scuso della semplificazione, prefigura per L’Aquila, un futuro da “Città universitaria”, su cui investire. Mi pare però che non indaghi abbastanza su due possibili implicazioni di questa scelta. Da una parte, vi è tutto il tema del legame tra Università e Sanità, che coinvolge, indirettamente le questioni dell’Assistenza e del Welfare ( anche tenendo conto della composizione demografica del Territorio ), ma anche i possibili sviluppi in tema di Ricerca e di Tecnologie. Dall’altra, il tema del rapporto tra Università, Ricerca e Imprese del Territorio, che, lungi dall’essere “orientato al mercato”, come il Documento presupporrebbe con grave attacco alla stessa autonomia della Ricerca e dell’Insegnamento, dovrebbe ovviamente evitare di essere collocato in torri d’avorio inaccessibili alle concrete esigenze delle Imprese.
La Città Universitaria, dovrebbe essere luogo anche di “scambi fisici” tra Ricercatori. Di comunicazione. E penso sia qui il caso di inserire un ragionamento del riuso delle caserme cittadine per campus, non per studenti, ma di residenzialità per Ricercatori, Dottorandi, Docenti, e anche Tecnici e Ingegneri, legati ai processi di Ricostruzione e alle Imprese hi-tech del Territorio. Così come lo spazio ex Italtel, di proprietà del Comune, potrebbe divenire uno straordinario luogo fisico di accoglienza per persone e imprese e Enti Formativi che leghino la Ricostruzione all’innovazione tecnologica, nelle comunicazioni, nell’energia, nelle tecniche costruttive e di restauro e che comunichino con l’Università anche per esperienze di incubazione d’impresa. Pur se accennato dal Documento del Ministero, un altro grande tema mi pare urgente e necessario. Ed è quello del rapporto con i flussi migratori legati ai processi di ricostruzione. Questi flussi cambieranno la composizione sociale e demografica della città e del territorio. Non è qui il luogo per un ragionamento complesso sui processi di integrazione. Ma una cosa è certa: non ci si può limitare a pensare che gli immigrati possano essere la chiave per risolvere il tema dello spopolamento dei centri minori o delle frazioni. Questo significherebbe la costruzione di sostanziali ghettizzazioni e separatezze, pericolosissimi per il futuro. E la questione andrebbe affrontata a partire dalle scuole. Di ogni ordine e grado, la cui ricostruzione e riallocazione è tema decisivo anche in questo senso e non possiamo permetterci di non discuterlo fino al 2030.
Resta assente dallo scenario prefigurato dal Documento il tema del rapporto tra giovani in particolare, e nuove forme di comunicazione, di arte, di cultura. Spazi non utilizzati già oggi permetterebbero, con il concorso anche delle Istituzioni Culturali presenti in città, di immaginare nuovi percorsi di accumulazione e confronto di saperi, di esperienze, di laboratori di idee. Ciò dovrebbe riguardare ovviamente anche gli spazi pubblici da recuperare e dedicare allo sport e allo spettacolo. Non sarebbe sufficiente un “Urban Center” per la partecipazione democratica reale ai processi di trasformazione della città e del territorio; sarebbe necessario un “Media Center”, che anche per questa via accorci le distanze con Roma, in funzione di decentramento e di scambio ad esempio. Il Documento del Ministero per la Coesione Territoriale è un documento molto serio, da non liquidare con le mie poche parole. E propone analisi e soluzioni dotate di fondamento. E però, se si vuole davvero accompagnare il processo di ricostruzione/costruzione, il rapporto tra L’Aquila e il Governo nazionale, non può limitarsi al controllo delle risorse stanziate e ad uno stimolo “culturale”, ma deve strutturarsi in una “camera di compensazione” dei processi e delle normative, tra pari, si potrebbe quasi dire. Altrimenti quel che accadrà sarà solo la ricerca costante di sponde per affinità politiche nelle diverse stagioni e la lamentazione per le insufficienze che potranno verificarsi.
E su questo, il tema delle risorse disponibili, in particolare in una fase di crisi, resta decisivo, anche alla luce della concreta possibilità che l’Abruzzo, e l’Aquila, escano dal sistema degli aiuti europei con la prossima programmazione comunitaria. Con il che, invece di realizzare un laboratorio per un modello di ricostruzione urbana e territoriale in una zona altamente sismica del Paese, e di possibile sviluppo economico, ci ritroveremmo, da qui al 2030, davvero a diventare semplici custodi di “ruderi”. Grazie dell’attenzione.