di Patrizia Tocci *
L’AQUILA – Invece di fare distinguo (come molti si affannano a fare) sul terremoto dell’Emilia e quello dell’Aquila (sono convinta infatti che il terremoto sia cieco, e come la fortuna dispensi con casualità, ignorando meriti e demeriti dei sommersi o dei salvati) mi piacerebbe oggi poter rivolgere un “in bocca al lupo” a tutti gli studenti emiliani che affrontano l’esame di stato “in emergenza”. Nel giugno del 2009 anche da noi, qui in Abruzzo o meglio all’Aquila e dintorni, si è adottata la stessa procedura: solo il colloquio orale. Eravamo nella palestra dell’istituto in cui insegno: c’erano in contemporanea sei o sette commissioni. I miei alunni avevano preparato gli esami con più scrupolosità del solito: per i percorsi c’eravamo sentiti via email o via cellulare, ma eravamo continuamente in contatto.
Erano cresciuti, i ragazzi. In pochi mesi. Maturati. Avevano dovuto affrontare la scomparsa di amici cari, persone di famiglia o conoscenti; qualcuno aveva potuto recuperare zaino, libri e quaderni; qualcuno li aveva dovuti lasciare sotto le macerie. Qualcuno aveva preparato l’esame in tenda, con altre otto persone, avendo per tavolo una scatola di cartone; studiando nella casetta di campagna, da amici, da parenti, qualcuno in una stanza d’albergo. Tutti avevano perso comunque l’ingrediente fondamentale per affrontare un esame di stato: la normalità, la quotidianità, la banalità delle cose quotidiane: la tua cameretta, il tuo stereo, il tuo computer, le tue foto, il tuo letto, la tua finestra, la tua collezione di… I media non avevano tempo e spazio per raccontare questi dettagli. Non vi hanno raccontato il caldo orribile che faceva nelle tende, o come si inzuppavano i viali di ghiaia, quando pioveva. Non vi hanno raccontato che significa non avere più la terra sotto i piedi. Ma noi lo sappiamo bene, come voi.
Conosciamo quella sensazione di incertezza, di sbandamento, di confusione esterna ed interna che provoca un terremoto. La precarietà di una vita temporanea che nasce all’improvviso, con altri ritmi, colori, parole. E poi quella terra, sulla quale sei cresciuto, della quale hai imparato a fidarti: solida, certa, tesa sotto i tuoi piedi, (anche se a scuola ti avevamo insegnato, a fatica, che la terra si muove) quella terra che si muove e che continua a muoversi. Nessuno vi ha raccontato che mentre si svolgevano i colloqui orali, e si disquisiva con battute del tipo : “questi ragazzi sono troppo fortunati rispetto agli alunni degli anni precedenti” in quel momento c’è stata l’ennesima scossa di assestamento e il tenore dei colloqui è cambiato. Noi sappiamo che non è una fortuna fare gli esami nell’anno del terremoto. Ma i ragazzi sono stati più bravi degli altri anni. Hanno sentito la grande responsabilità che la comunità in quel momento pretendeva da loro, così come da tutti. Ognuno ha svolto – e continua a svolgere – il suo lavoro.
Al contrario di quello che vi fanno vedere in tv o passa su certa stampa, tranne le dovute lodevoli eccezioni. Abbiamo città e paesi ancora distrutti. Ma troviamo la forza per andare avanti, proprio negli occhi di quei ragazzi, negli sguardi di chi immagina un futuro ed ha tutto il diritto di immaginarlo. Le scuole dell’Aquila, di ogni ordine e grado, si trovavano quasi tutte nel centro storico, diventato da allora Zona rossa. L’estate è stata utilizzata per ripristinare le poche scuole agibili e sono stati costruiti i MUSP (Moduli ad Uso Scolastico Provvisorio). I nostri studenti vanno a scuola in questi musp, continuano il loro percorso scolastico e tengono unita una comunità altrimenti frantumata, dispersa. Una comunità intera che si è sentita mancare la terra sotto i piedi, ma ha affrontato provvisorietà di ogni genere e di ogni tipo. E che va avanti, a denti stretti e a testa bassa. E qualche volta trova anche la forza che non ha, nel guardare i vostri occhi di ragazzi e dirsi sottovoce: “Ce la farete. Ce la faremo”.