LO SPREAD: UNITA’ DI MISURA DEL RISCHIO FINANZIARIO

4 Aprile 2012
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Le notizie economiche che si susseguono da mesi ci hanno abituato ad un tartassamento quotidiano e costante, a volte allarmante, a tratti, come nei giorni recenti, più consolante. Sappiamo che il Paese è in recessione, che la crisi economica, partendo dagli USA, ha investito tutto il mondo occidentale seppur con differenze più o meno sensibili fra Stato e Stato. Soprattutto, siamo investiti da parole e concetti, spesso tratti dall’inglese e abbastanza fumosi tanto da ingenerare ulteriore apprensione.

Cerchiamo di fare un po’ di luce su quanto sta accadendo e ci sta accadendo con l’ausilio del Prof. Antonio Porto, economista, che ha accettato di rispondere ad alcune domande sulla questione.

Innanzitutto, Prof. Porto, ci spiega cosa si deve intendere per “spread”?

Le accezioni sono diverse, ma, in questo contesto, ci riferiamo al “credit spread”, cioè al differenziale tra tasso di rendimento di un’obbligazione e quello di un altro titolo preso a riferimento. Lo spread misura, cioè, il rischio finanziario associato all’investimento (quanto credito il creditore può recuperare) e l’affidabilità – denominata rating – dell’emittente/debitore (es. lo Stato) nonché la misura della capacità dell’emittente di promuovere le proprie attività finanziarie, per esempio emettendo nuovi titoli per rifinanziare il proprio debito pubblico.
Per dirla in termini ancora più semplici: se vanto un debito nei confronti di un soggetto che mi offre una qualche garanzia di solvibilità, stabilisco un tasso d’interesse più basso, altrimenti fisserò un tasso più elevato per tutelarmi.

Per l’Italia o altri Paesi questo come si traduce?

Se intendiamo lo spread come il costo dell’assicurazione che il creditore pretende dal debitore relativamente alla sua solvibilità, maggiore è il debito contratto, maggiore sarà il costo che si sostiene. Il rischio legato al Paese Italia è dovuto all’elevato costo del denaro, il che si traduce in un innalzamento dello spread. Chi presta i soldi all’Italia, in sostanza, si vuole garantire contro la possibilità dell’insolvenza, che, fino all’avvento del Governo Monti ed alle misure adottate dallo stesso, era piuttosto elevata.
Facciamo un ulteriore ragionamento: il termine “spread” può intendersi sia in senso strettamente “ragionieristico” ma anche in termini psicologici. In base al primo aspetto, il ragionamento ci conduce a parlare del debito pubblico, in questo caso lo spread è direttamente proporzionale al costo del denaro. Per capirci sui termini, con “debito pubblico” intendo quanto uno Stato deve ad un altro Stato in termini monetari ed è concetto diverso da “deficit”, inteso come una semplice differenza fra entrate e spese. Ora, questa differenza, che sappiamo essere per l’Italia significativa, come si colma o riduce? Una delle possibili politiche è quella di indebitarsi, ma ne esistono anche altre, ovviamente.
Teniamo conto che, prima dell’entrata in vigore dell’euro, ogni Banca Centrale aveva la possibilità di stampare moneta. Dall’entrata in vigore dell’euro, questo compito è rimesso alla BCE che quindi controlla la quantità di moneta in circolazione, elemento che, a sua volta, determina inflazione. In sostanza, potremmo dire che la BCE controlla il livello generale dei prezzi nell’UE.

Cosa intende per aspetto psicologico della parola “spread”?

E’ presto detto: non è da escludere che, nonostante uno Stato (ma il discorso si può fare anche per le aziende) sia indebitato, esso riesca comunque ad ottenere soldi in prestito, da altri Stati o dal sistema creditizio. Ciò si verifica quando si dimostrano capacità d’ingegno ed impegno, che quindi fanno ben sperare in merito al rientro dell’indebitamento!

Tornando il discorso relativo alla riduzione del debito pubblico, esistono altri strumenti/metodi per intervenire su di esso?

Sì, per esempio attraverso la riduzione delle spese. Questa, però, è una politica un po’ “vischiosa” per motivi strettamente psicologici e sociali, cioè: al fine di ridurre la spesa, si mettono letteralmente le mani in tasca a fette della popolazione (dai parlamentari ai dipendenti pubblici) determinando delle “sacche” di resistenza nell’opinione pubblica. Ancora a fini semplificativi, le elezioni determinano una spesa pubblica infruttifera.
Invece, seguendo la dottrina keynesiana, bisognerebbe “utilizzare” la spesa pubblica per investimenti infrastrutturali – realizzando quindi una politica di spesa attiva, investimenti che, grazie al meccanismo del moltiplicatore, inducono un aumento del reddito. Siccome il reddito è legato alla propensione al consumo, oggi bassissima, nel presente periodo storico si assiste ad una mancata “attivazione” del moltiplicatore e ad una vanificazione del sistema. Si tratta, in sostanza, di riqualificare la spesa pubblica ovvero aumentare le entrate.

Quindi, quali potrebbero essere le politiche virtuose?

Innanzitutto una politica fiscale, in Italia impraticabile; peraltro, se particolarmente aggressiva, la politica fiscale avrebbe come esito una riduzione delle entrate. Indispensabile è, invece, la lotta all’evasione che oggi è pari al 20% del PIL.
Altro strumento è costituito dalle privatizzazioni, cioè la vendita di “pezzi” di beni statali. Infine – ed è la politica che personalmente riterrei più efficace e da perseguire in un momento quale l’attuale – l’aumento dell’export che determina l’accesso di risorse fresche dall’estero.

I cosiddetti “hot money” o “capitali sovrani” non potrebbero costituire un’ulteriore risorsa?

Tassi d’interesse “interessanti” possono richiamare quelli che si definiscono capitali sovrani o “hot money”, con un inglesismo. Ci sono varie controindicazioni: intanto, vengono attratti da ed investono in grandi assets (es. FIAT); costituiscono uno strumento di breve periodo ed una parte del profitto che determinano confluisce all’estero, non rientra nel Paese. Non ultimo, si tratta di una forma di indebitamento: per attirare “hot money”, bisogna pagare, in definitiva!

Che tipo di politica bisogna attuare per stimolare la competitività?

Indubbiamente bisogna aumentare la produttività: in tal modo, il Costo Marginale del Lavoro avrebbe minore incidenza sul prodotto finito che, quindi, diventerebbe competitivo rispetto ad altri. Un altro strumento, rispetto al quale l’Italia è in forte ritardo, è la brevettazione, che potremmo definire con un termine onnicomprensivo come “innovazione tecnologica”: più alto è il livello di innovazione e di tecnologia contenute nel prodotto, più appetibile sarà quel prodotto sul mercato rispetto ad altri dello stesso settore. Inoltre, i beni con elevati contenuti tecnologici hanno un periodo di vita brevissimo, il che determina una sorta di “rincorsa al brevetto”, cioè un maggior ricorso alla Ricerca e Sviluppo (R&D).
Infine – e su questo l’Italia è invece competitiva – bisognerebbe puntare sul “Made in Italy”, inteso come prodotti enogastronomici o della moda, per fare degli esempi. Sia i beni ad elevato contenuto di innovazione tecnologica che quelli del made in Italy presentano un alto valore aggiunto, che è la misura del flusso di ricchezza che affluisce nel Paese.

 

 

 

 

 

 

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