La legge 30 marzo 2004 n. 92, con la celebrazione del “Giorno del ricordo” da un lato ha riscoperto una storia rimossa, dall’altro ha rinfocolato idee e strumentalizzazioni che testimoniano come ricerca e consapevolezza storica non vanno sempre di pari passo.
Come anche per il “Giorno della memoria”, solo una conoscenza storica approfondita può aiutare a dare luce a vicende complesse e dolorose che investono in primis coloro che direttamente ne furono vittime. Semplificazioni arbitrarie e distorsioni della realtà, specularmente condotte da italiani e slavi, vengono puntualmente riproposte in senso identitario, quindi escludente, emarginante “gli altri”, o in senso vetero-politico o nostalgico per dare proscenio a gruppi estremisti (Forza Nuova o Casa Pound) che prendono
lo spunto per urlare la “loro” menzogna-verità, per omologare in una sorta di par condicio tragedie incomparabili, avvenute in un clima orrendo di violenze e sopraffazioni che nel ‘900 sono culminate con la IIa Guerra Mondiale. La complessa vicenda del confine orientale consente solo di puntualizzare gli aspetti principali. Dopo la Ia Guerra Mondiale, dissoltosi l’Impero asburgico, nacquero varie “minoranze nazionali”, in cui ci fu la cosiddetta “tradizione inventata” che permise alle varie nazioni di mostrarsi come comunità redentrici” nei confronti delle concorrenti, viste come nemiche. Questo avvenne in particolare nella Venezia Giulia, zona di confine multietnica e plurilingue. In breve, gli sloveni erano visti come usurpatori dagli italiani (che vedevano gli austriaci allo stesso modo) e viceversa. Problema già questo complesso, in quanto le identità in realtà erano spesso confuse tra loro, e la nazionalità era piuttosto una scelta. Nel dicembre 1918 nacque il regno serbo-croato–sloveno, vissuto dall’Italia come antagonista nel controllo adriatico e balcanico. Quindi da subito in particolare sacerdoti, maestri, ceti dirigenti, borghesi, irredentisti, ex militari slavi furono controllati e repressi. Non a caso in questo quadro vi fu la “Questione di Fiume”.Il Fascismo (detto “di confine”) attecchì in quelle aree da subito e con forza (15.000 iscritti al fascio nella sola Trieste nel 1921), distinguendosi per la violenza (si vedano gli ncendi dei Narodni Dom -le “Case del popolo”- di Trieste e Pola) e per la durezza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato.“Fascistizzazione” significò legislazione contraria all’identità slovena e croata, italianizzazione linguistica forzata, repressione dell’identità, processi. Con la IIa Guerra Mondiale l’Italia arrivò a controllare gran parte dell’area balcanica (vi erano presenti 65.000 nostri soldati), forzando la fascistizzazione. Nei Balcani la nostra presenza durò solo due anni, ma produsse crimini orrendi, di cui i responsabili (ad es. i generali Roatta, Robotti – quello del “si ammazza troppo poco!”-, Gambara, i governatori Bastianini, Pirzio Biroli, Giunta) nulla pagarono alla giustizia (tranne il solo tenente colonnello Cuiuli, comandate del campo di Arbe). Rastrellamenti, deportazioni, internamento in lager (in quello di Arbe/Rab, una tendopoli, la mortalità era del 19%, mentre a Buchenwald era del 15%…)
repressioni, fucilazioni, torture erano all’ordine del giorno. Inutilmente partirono richieste di estradizione da parte del governo jugoslavo già nel febbraio 1944, dalla United Nations War Crimes Commission nell’estate seguente: lo stato italiano per tre anni non rispose e poi il Ministero degli Esteri approntò una specie di “controlista” di 200 criminali di guerra jugoslavi, con in testa il Maresciallo Tito. Questo lo sfondo di cui si deve assolutamente tenere considerazione. Dopo l’otto settembre ’43 l’esercito italiano si dissolse determinando un vuoto di potere in cui si inserì il movimento di liberazione jugoslavo. Man mano che i nazisti si avvicinavano, gli jugoslavi procedettero con violenze e l’eliminazione di “nemici del popolo”, con o senza processi: da qui l’omicidio e l’occultamento in foibe, in cave, o l’annegamento. Furono presi di mira possidenti, dirigenti, podestà, ma anche guardie campestri, come pure operai. Gli italiani in Istria furono identificati con il fascismo ma, contrariamente alla “vulgata” i documenti mostrano che non vi fu “pulizia etnica” programmata, ma che anzi era interesse propagandistico dello stato socialista accreditare l’idea del rispetto delle minoranze. Sta però di fatto che gli italiani (la maggior parte dei quali si oppose alla formazione del nuovo potere) furono considerati declassati, inferiori, “barbari”. Seguì il drammatico esodo dall’area di migliaia di nostri connazionali che spesso, giunti in Italia, vennero perlopiù mal considerati dai connazionali: emarginati, guardati con sospetto e distacco. I provvedimenti in loro favore furono frammentari (solo nel 1952 vi fu la legge Scelba).
Le foibe e l’esodo, al di là della “facciata”, sono stati in realtà per decenni occultati nella memoria politica nazionale, (soprattutto data la nostra posizione geo-politica nella “Guerra Fredda”). In pratica anche questi avvenimenti rientrarono nei cosiddetti “armadi della vergogna”, gli stessi che non permisero di ottenere giustizia per decenni per i crimini nazisti (essendo i tedeschi tra i fondatori della nuova Europa, fu considerato utile non istigare ritorsioni nei nostri confronti). Solo a fatica si parlava di quei fatti, finché nel 1991 il presidente Cossiga rese omaggio alla cava/foiba di Basovizza, e nel 1993 il presidente Scalfaro sollecitò il capo del governo Amato a promuovere una commissione bilaterale che facesse luce.
Pur se tra molte difficoltà la conclusione fu esemplare: Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani.
Il culmine di questo processo è stata la promulgazione della legge sul “Giorno del ricordo” che ha scelto il 10 febbraio quale data, il giorno della firma del trattato di pace di Parigi (1947) che poneva fine ufficialmente (con pesanti esiti nell’area orientale per l’Italia) alla guerra voluta dal Fascismo.
La storia della Venezia Giulia, le foibe, l’esodo sono stati dunque esempi emblematici delle vicende del “secolo breve”. Non si devono avere atteggiamenti negazionistici o riduzionistici, volti a distorti usi politici; occorre rigore storico: solo così la pietà verso le vittime sarà sentita, sincera, non di facciata.
David Adacher
Istituto Abruzzese per la Storiadella Resistenza e dell’Italia Contemporanea
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