Emanuela Mariani zia del capitano Alessandro Romani, morto il 17 settembre 2010 in Afghanistan, ricorda il nipote.
Anche io lontana migliaia di chilometri dall’Afganistan, che ogni mattina vado a lavo-rare nel mio ufficio e mi occupo della mia famiglia, riesco ad immaginare dopo la morte di Alessandro la dinamica dell’azione milita-re: gli incursori del Col Moschin, muoversi fianco a fianco mentre l’elicottero con il por-tellone aperto ondeggia sopra la sabbia e le pietraie e si avvicina a semicerchio sui taleba-ni. Stringono il mitragliatore e si piegano in avanti sul pianale pronti a lanciarsi fuori, con il casco di kevlar, il giubbotto antiproiettile e qualche migliaio di colpi addosso insieme alle bombe deflagranti e alla radiotrasmittente. È l’alba, l’aria ancora pungente, ma sotto quella corazza si cola di sudore e tensione. Mancano trecento metri, forse duecento al bersaglio. Una raffica dal basso, una grandinata di colpi dei talebani e l’elicottero italiano vira brusca-mente. Non si sono sentite neppure le grida di dolore dei feriti soffocate dai rotori che anda-vano a mille. Il tenente Alessandro Romani della Task Force 45 è morto così, con gli occhi velati dalla polvere e dall’argilla di Farah sollevata dalle pale dell’elicottero. Anche una donna come me ha capito che la Task Force 45 è l’élite delle nostre forze spe-ciali. Ufficialmente non esiste, soldati invisi-bili che non sono neppure conteggiati nel contingente dei 3.500 uomini schierati in Af-ghanistan e nella provincia di Herat dove han-no il comando gli italiani della brigata alpina Taurinense del generale Claudio Berto. I fan-tasmi della Task Force 45 sono incaricati di bloccare le incursioni dei talebani dal confine pakistano e dalla turbolenta provincia dell’Helmand. Ma sono anche in prima linea a nord, nella vallata di Bala Murghab e ancora più su, quando ci si avvicina alle vette acumi-nate al confine con il Tagikistan e l’Iran. Quanti sono? Forse 200, selezionati tra le fila del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin, eredi degli Arditi del Grappa della prima guerra mondiale, e integrati da incursori della Marina del Comsubin, carabinieri del Gis e forze speciali dell’Aviazione. Sono mili-tari addestrati alla sopravvivenza in ogni con-dizione, anche in quelle più estreme e disuma-ne, dove le facoltà mentali e nervose devono essere pari almeno a quelle fisiche. All’insaputa di gran parte degli italiani gli uomini della Task Force hanno partecipato, in stretto coordinanento con le altre forze alleate, a scontri importanti e sanguinosi. A Farah sono schierati da quattro anni: è una delle zone più insidiose sotto il comando italiano. Tutte le guerre hanno una loro vita segreta e quella degli incursori della Task Force è una delle meno conosciute. Nel tentativo di rac-contare le strategie e le forze profonde che animano un conflitto spesso sfuggono aspetti essenziali della realtà quotidiana. «Bombe, trappole esplosive, anche rudimentali – ci spiegavano, sempre in toni generali, i colleghi di Alessandro – sono insidie micidiali e a volte la tecnologia non basta. Se i talebani impiega-no ordigni elettronici sofisticati per far sal-tare una bomba, ab-biamo i mezzi per anticipare la minaccia. Ma con una semplice miccia o una mina a pressione aggirano anche i detector più sofisticati». Questo è il problema della guerra asimmetrica, termine che noi fami-liari abbiamo dovuto imparare! Il caricatore di un kalashnikov a breve distanza può abbattere un elicotte-ro da milioni di euro, una bomba improvvi-sata da pochi soldi distruggere un veico-lo blindato come il Lince. Qualche tempo fa gli uomini della Task Force 45 con Alessandro si acquartierarono nel fortino di Delaram, un avamposto dalle mura sbreccate dove negli anni Ottanta stava l’Armata Rossa: da qui sono partiti e partono gli incursori per tenere a bada gli insorti di Bakwa nel distretto di Bala Baluk. Un crocevia strategico, un’area dal nome poetico agli occhi di un parente di un valoroso militare caduto: il Giardino dei Fiori, che oggi per noi ha il ricordo terribile della tragedia. Alessandro vive nei cuori della sua famiglia che è orgogliosa di lui e che lavora costante-mente per legare la sua memoria alla vita, come quella dei bimbi malati oncologici dell’Associazione Peter Pan Onlus, attraverso donazioni in sua memoria ed all’immagine dell’uomo ―giusto‖ caduto per difendere il supremo valore della libertà dei popoli, verso il quale ognuno di noi anche nella più piccola delle sfere private, deve tendere.