Boutros Ghali: “Il peacekeeping non è lavoro da soldati, ma solo i soldati possono farlo”
Dalla cacciata del dittatore Siad Barre avvenuta nel 1991 la Somalia vive in una situazione di anarchia caratterizzata dalla dissoluzione dello stato. I cosiddetti signori della guerra che ancora spadroneggiano in Somalia, a dispregio di qualsiasi diritto individuale e collettivo e vessando una popolazione ormai esausta da una guerra ininterrotta, ostacolano il nuovo governo che – almeno nelle intenzioni – vorrebbe ripristinare una Stato di diritto. La Somalia non è più una nazione, ma un’estensione di territorio controllato da bande armate. La Somalia è stata tra le prime vittime dei cambiamenti geopolitici conseguenti alla fine della Guerra Fredda. Infatti, Siad Barre, sfruttando la posizione strategica del Paese (situato sul Corno d’Africa assume rilievo per il controllo del golfo di Aden e dell’Oceano Indiano) aveva sfruttato tale situazione per ottenere vantaggi dai due blocchi che si contrapponevano ed aveva instaurato un regime brutale, tirannico e clientelare. Il 27 gennaio 1991 la dittatura cade sotto la spinta di formazioni politiche clandestine e, dal quel momento, apparvero nella scena politica i clan, le faide tribali i “signori della guerra”; tra questi i principali protagonisti furono Mohamed Farah Aidid e Ali Mahdi Mohamed, inizialmente alleati per la cacciata del dittatore. La lotta per il potere sfocia in gravi episodi di violenza sulla popolazione civile che conta migliaia di morti, carestia, epidemie, criminalità ed esodo di massa. I media diffondono le immagini di quel che accade e, sotto la spinta emotiva, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 24 aprile 1992 approva la risoluzione n. 751 dando inizio all’operazione UNOSOM I (United Nations Operations in Somalia) che prevede l’impiego di 50 osservatori militari incaricati di controllare il rispetto del cessate il fuoco deciso dalle fazioni il 3 marzo 1992. Nel corso dell’estate seguono altre risoluzioni (767 e 775) per l’impiego di circa 5000 uomini per la “sorveglianza del cessate il fuoco in Mogadiscio, la protezione e la sicurezza del personale, degli equipaggiamenti e dei rifornimenti e la scorta dei convogli umanitari ”; condizione che aveva reso impotente il contingente ONU. Il 9 settembre dello stesso anno, Aidid, entra con le sue milizie a Mogadiscio, e impone il ritiro dei caschi blu dell’ONU. La situazione cambia nel dicembre 1992 a seguito di una nuova risoluzione ONU (la n. 794 del 3 dicembre) che prevede l’invio di una coalizione multinazionale, denominata UNITAF (Unified Task Force), posta sotto il comando degliUSAcon il compito ristabilire le condizioni di sicurezza idonee allo svolgimento delle missioni umanitarie, ripristino della stabilità e legalità L’operazione viene denominata “Restore hope” (ridare speranza). Il comando del contingente viene assunto dagli Stati Uniti. L’Italia partecipa all’operazione con un proprio contingente denominato ITALFOR IBIS al comando del Gen. D. Giampiero Rossi (Forze italiane: circa 2000 paracadutisti della B. par. Folgore varie unità di supporto, una componente della Marina Militare di circa 1200 uomini ed una dell’Aeronautica Militare di circa 100 uomini, ognuna con propri assetti – Ibis è il nome di un uccello stanziale del Corno d’Africa). La situazione sembra migliorare e si pensa al ritiro graduale delle forze con una riarticolazione del dispositivo di intervento: con la risoluzione 814 del 5 maggio 1993 l’ONU riprende il comando diretto delle operazioni dando inizio alla missione UNOSOM II – “Continue Hope”. Gli americani si ritirano, lasciando sul posto solo una brigata logistica e la “Quick Reaction Force”, l’ONU assume la responsabilità mediante un Consiglio Politico, con sede a New York, e una direzione multinazionale delle operazione “assemblata” dai rappresentanti delle 27 nazioni partecipanti; il comando militare viene assunto dal Gen. C.A. Cevik Bir (turco). Il contingente italiano assume la denominazione di ITALFOR – IBIS II con un’area di responsabilità di gran lunga superiore a quella iniziale poiché ora include anche l’area in precedenza controllata dai canadesi. Il gen. Rossi cede la responsabilità del comando al Gen. B. Bruno Loi comandante della B. par. Folgore; Il 6 Settembre 1993, la B. par. “Folgore” viene avvicendata dalla B. mec. “Legnano” comandata dal Gen. B. Carmine Fiore. Tale dispositivo comincia a non funzionare e la situazione degenera al punto che i vari stati partecipanti iniziano a ritirare i propri contingenti, nel quadro di un calendario fissato dall’ONU e la Somalia viene lasciata al proprio destino in una spirale di violenza tribale e terroristica non ancora conclusa. Il contingente italiano conclude il proprio ritiro il 21 marzo 1994 con un bilancio di 14 morti (11 militari, 1 crocerossina e 2 giornalisti RAI) e diversi feriti. Gli ultimi contingenti ONU abbandonano la Somalia il 28 febbraio 2005. Negli anni seguenti, dal 1995 e fino al 2000, si registra un clima di anarchia diffuso con forte aumento della presenza terroristica alimentata dall’ingerenza del fondamentalismo islamico. I primi tentativi di giungere alla normalizzazione del Paese hanno inizio nel 2000 su iniziativa dei Paesi dell’IGAD (Kenia, Etiopia, Gibuti, Eritrea, Uganda e Sudan), sostenuti dall’Unione Europea ed incoraggiati dagli USA e dall’ONU, con la convocazione di una Conferenza di Riconciliazione Nazionale. Il nuovo processo, tuttora in atto, è riuscito a gettare le fondamenta (non consolidate) con l’elezione di un’Assemblea Parlamentare provvisoria e del presidente transitorio della Repubblica Federale Somala ABDULLAHI YUSUF AMED (etnia Darod clan dei Migiurtini, Capo del ) e la nomina del primo ministro ALI MOHAMED GELI (etnia Hawiye, clan Abgal). Dopo 14 anni di anarchia la Somalia ha un nuovo governo, con pochi potere sul territorio somalo. Esso è, infatti, costretto ad insediarsi a Nairobi perché a Mogadiscio i signori della guerra (come HUSSEIN AIDEED e MOHAMED QANYARE AFRAH) non vogliono rinunciare alle posizioni di privilegio acquisite. L’opposizione al nuovo governo procede anche da parte degli altri poteri: economici, etnici, clanici e dei fondamentalisti islamici. Questi ultimi, a disprezzo di qualsiasi diritto individuale e collettivo arrivano a profanare il cimitero italiano di Mogadiscio (19 gennaio 2005), distribuiscono volantini anti-italiani e, sullo stesso suolo, costruiscono una rudimentale moschea costantemente vigilata da milizie islamiche. Nonostante la protesta del Governo italiano e le scuse del presidente YUSUF l’incidente non viene risolto. Il governo somalo, per il controllo del territorio e la sicurezza delle Istituzioni statali in previsione del trasferimento delle stesso in territorio somalo, su proposta italiana, ha approvato l’intervento di una Forza Multinazionale di Pace costituita da Unità della Lega Africana e della Lega Araba. Iniziativa al momento fortemente contrastata. Gli ultimi avvenimenti hanno visto il trasferimento del governo da , a in Somalia (90 KM a nord di ) e il tentativo del presidente YUSUFdi costituire una milizia per garantire la sicurezza del governo composta da uomini del a lui fedeli. Sostanzialmente nel governo si scontrano due partiti: il primo filo occidentale ed estraneo al fondamentalismo – maggioritario, l’altro nazionalista controllato dai clan e detentori del potere a dove sono rifugiati i ministri dissidenti ma il quadro generale è molto complesso con interessi trasversali ai principali orientamenti e quindi gli equilibri per soddisfare gli appetiti di ciascuno sono difficili da raggiungere. Sulla situazione incombe, infine, l’ombra di ALQAIDA, si da per certa la notizia della costituzione di una formazione terroristica a Mogadiscio dal nome emblematico: “ Nuova Jihad”.